Il concetto di verità fra Oriente e Occidente

Porta rossa
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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 06.11.2024 – Aurelio Porfiri] – Nel giorno della vittoria di Trump, un articolo dalla mia Newsletter intorno alle cose della Cina, alla sua cultura, storia e attualità, Atlas Sinensis.

Che cos’è la verità? Questa domanda molto pesante che fu posta da Ponzio Pilato, risuona nella mia mente da molto tempo. E non in modo retorico. Ovviamente non cerco le alte speculazioni filosofiche, perché la mia domanda nasce da esigenze molto più terrene.

Ma devo partire da più lontano. E per fare questo mi servo di un libro del giornalista Fabio Giovannini, che ho letto tempo fa: Musi gialli (Nuovi equilibri 2011). Questo libro analizza i pregiudizi contro gli Orientali nella nostra cultura occidentale. E lo stesso libro ci informa, che più di cento anni fa, grazie alla creatività dello scrittore Sam Rohmer, veniva creato uno dei personaggi ritenuti simbolo di questo pregiudizio dal Giovannini: Fu Manchu. Il libro è senz’altro interessante per la quantità di materiale che viene fornito, ma credo che la tesi sia un po’ troppo tirata da una parte sola: certamente ci sono e ci sono stati grandi pregiudizi nei confronti degli Orientali (semplicemente perché diversi, non quanto Orientali, io credo), ma non è che dall’altra parte si è stati molto meglio nei confronti degli Occidentali.

Se si guarda i film di Kung Fu degli anni passati, tanto popolari anche in Italia, il cattivone è spesso un grosso e rozzo Occidentale, su cui la raffinata arte marziale orientale ha sempre la meglio, pur se il “cattivone” è il muscoloso Chuck Norris. E il “cattivone” viene sempre presentato in una maniera da farlo sembrare sempre un po’ “bestiale”. E non si pensi che questa è cosa solo del passato. Una serie tv del 2008 su Netflix, The legend of Bruce Lee, dipinge quasi tutti gli stranieri come sbruffoni, attaccabrighe e razzisti verso i Cinesi.

Storicamente, i Cinesi hanno visto coloro che stavano al di là dei loro confine come barbari e, nella lingua cantonese venivano chiamati Gweilo che significa più o meno “diavoli stranieri”. La parola è rappresentata dai caratteri cinesi 鬼 (gwei o gwai, fantasma, spirito) e 佬 (lo, persona). Si penserà che questo sia un uso del passato, ma francamente è capitato anche a me di sentirmi apostrofare in questo modo. Quindi tanto passato non è, anche se oggi quel termine ha perso un po’ della sua connotazione negativa. E credete, la diffidenza verso il “barbaro” che viene da fuori non è meno presente in Cina di quanto lo è in Occidente, che in paragone sembrerebbe più accogliente. Si deve dire questo, se si vuole essere giusti. E questo nulla toglie al rispetto che si deve alla straordinaria storia e cultura del popolo cinese.

Ma torniamo al libro. Una delle accuse comuni che vengono riportate nel libro verso gli Orientali è quella di essere infidi, falsi, sfuggenti. Io credo che queste accuse spesso nascono da malintesi culturali, nel giudicare altre culture con il metro della propria cultura e tradizione. Certo è difficile calarsi nei panni di un altro popolo e della sua mentalità; ma allora bisogna essere cauti nei giudizi, altrimenti si rischia di essere superficiali o, ancora peggio, ingiusti.

Partiamo da uno studio interessante di Werner Krieglstein (Teaching truth and authenticity – An East West Comparison. Philosophical Ideas and Artistic Pursuits in the Traditions of Asia and the West: An NEH Faculty Humanities Workshop. Paper I, 2008), che affronta proprio questo problema, una comparazione tra il concetto di verità e autenticità in Occidente e in Oriente.  Sappiamo come per l’Occidente il concetto di verità, almeno per quanto affermato nella classica filosofia, è quello di San Tommaso d’Aquino: adequatio rei et intellectus (Summa Teologica); la verità è la conformità dell’intelletto alle cose, quindi riconoscere l’oggettività della realtà esteriore.

Certamente altri filosofi metteranno tra parentesi questa affermazione, a cominciare da Kant, che l’accetta di principio ma facendo numerosi distinguo che alla fine porranno in crisi la filosofia occidentale. In ogni caso, come ci dice Krieglstein, la verità è una realtà concettuale.

Ma in Oriente la verità non è concettuale, ma legata all’esperienza. Essa deriva dal suo contesto religioso e sociale più che da una realtà di concetto. È una verità vivente più che concettuale. Quindi, più che avere un connotato oggettivo ne ha uno che fondamentalmente è soggettivo.

Io credo che siano abbastanza chiare le implicazioni di quanto affermato poco prima nello studio di Krieglstein. La verità per Occidentali ed Orientali ha una valenza diversa, quindi alcune cose che definiamo “vere” secondo il nostro approccio al pensiero, che ovviamente riteniamo vero, potrebbero non esserlo per loro.

Duh Bau Rei, professore di filosofia alla National University in Taiwan, in un suo studio sulla verità (The Question of the View of Truth in Chinese Philosophy. National Taiwan University) nella filosofia cinese informa come essa abbia un carattere eminentemente pratico, differenziandola da quella occidentale, che ha un carattere più speculativo. Quindi nell’Occidente la speculazione conduce alla pratica mentre nell’Oriente è la pratica che, in un certo senso, ci guida alla speculazione. Quindi non dobbiamo dimenticare questo valore soggettivo della verità “orientale” rispetto alla valenza più oggettiva che si ricercava nella filosofia occidentale classica. Avendo questo carattere pratico, c’è molta più enfasi nel lato pragmatico della vita che su quello idealistico. Ricordo come un meraviglioso scrittore cinese, Lin Yutang, descriveva la mentalità cinese: egli diceva che mentre per gli Occidentali il cuore è la sede dei pensieri e dei sentimenti più nobili, per i cinesi la parte importante è l’intestino. E questo la dice lunga.

Chad Hansen (Chinese Language, Chinese Philosophy, and “Truth”. Journal of Asian Studies. Vol XLIV, No 3, 1985) anche parla di questo problema in un suo studio, citando Donald Munro che afferma che verità e falsità nel senso greco non ha la stessa valenza nel pensiero cinese. Egli ci dice che queste sono preoccupazioni occidentali. Egli ci dice anche che la filosofia cinese non ha il concetto di verità (Alexus Mcleod. Pluralism about truth in Early Chinese Philosophy: A Reflection on Wang Chong’s approach. Comparative Philosophy. Volume 2, no. 1: 38-60, 2011), almeno come inteso da noi in Occidente.

La parola “verità” in cinese viene resa con 真相 (zhen xiang) che potremmo tradurre come “vera apparenza”, il che implica sempre un forte elemento di soggettività, quello che appare non è necessariamente quello che è. Da qui l’importanza di salvare la “faccia” (quali che siano i dati di fatto reali). In una variante dei caratteri per definire la verità viene usato il pittogramma 象, che indica un elefante. Questo rappresenta un riferimento alla storia, probabilmente di origine buddista, dei ciechi e dell’elefante, per cui ognuno, toccando solo una parte dello stesso, prendeva quella parte per il tutto. Quindi la variante possiamo significa qualcosa del tipo “tutto l’elefante”.

Mencio, uno dei grandi pensatori cinesi, diceva che

“L’uomo superiore s’imbeve della Via, perché desidera scoprirla dentro di sé. Dopo averla trovata dentro di sé, egli vi dimora a proprio agio. Dimorandovi a proprio agio, può attingervi profondamente. Attingendovi profondamente, egli ne ritrova la fonte a destra e a sinistra. Per questo l’uomo superiore desidera scoprirla dentro di sé”.

Il filosofo cinese Dai Zhen (1723-1777) affermava che la verità non esiste in astratto o a livello filosofico, ma nel concreto di sentimenti ed emozioni di una persona che, aggiungo io, sono per natura mutevoli. Prima di lui, il filosofo neoconfuciano Chen  Xianzhang (1428-1500), che per

“trovare la via ascetica migliore per raggiungere la saggezza, valorizzò soprattutto la ricerca della soggettività (v. Io morale), sottolineando l’importanza di una riscoperta personale della verità (zide) e dello sviluppo della tendenza al bene (ziran) insita nella natura di ciascun individuo” (Umberto Bresciani, Dimenticare, ricordare, capire).

Il letterato Huang Yizhou (1828-1899) aveva come motto shishi qiushi, cercare la verità nei fatti, motto che verrà ripreso con ben altro peso storico da uno dei leader più importanti della Cina moderna, Deng Xiaoping. Ma è come dire che possiamo cercare la verità dalla storia, in realtà possiamo trovare una plausibilità di ciò che è accaduto, senza mai dimenticare che come diceva lo storico Edward Carr, la storia è un’interazione tra lo storico e i fatti, è una ricostruzione che varia, a volte in modo significativo, da storico a storico. Non è la verità assoluta, che per noi ha comunque la sua fonte ultima in Dio. Un conto è cercare la verità nei fatti ricostruiti, un conto cercarla nella realtà oggettiva.

C’è poi l’importante discorso sul concetto forte di autorità in Cina, per cui viene ritenuto vero quello che affermato da chi è in comando. Questo è anche molto importante da tenere in considerazione: il pensiero cinese è molto legato alla struttura sociale basata sull’autorità, strutturato sui cinque rapporti fondamentali di sovrano-suddito, padre-figlio, marito-moglie, fratello maggiore-fratello minore, amico-amico.

Insomma, c’è abbastanza materiale per capire che viviamo in due sistemi di pensiero diversi, in alcuni casi, come questo, completamente alternativi. Io sempre insisto su questa profonda diversità nei miei scritti sulla Cina e sull’Oriente. Quindi le cose che si osservano sulla Cina non sono di per sé sbagliate, il problema è da quale prospettiva le si osserva.

Questa riflessione è stata pubblicata oggi dall’autore sul suo sito Traditio, per conoscere tutto su tradizione e tradizionalismo [QUI].

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