Ha subito un torto e cerca un ultore. Tra ira ultrice, ultrice mano e destra ultrice, partendo da Marte Ultore

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 22.10.2024 – Vik van Brantegem] – Ultore/ultrice è voce di tradizione dotta e poetica, recuperato dal latino ultor (vendicatore, punitore), nome d’agente del verbo ulcisci (vendicare, punire). In italiano vive come sostantivo: “Ha subito un torto e cerca un ultore”, e anche in funzione di aggettivo: “l’ira ultrice” (Ariosto), “con questa Ultrice mano” (Tasso), “Della mia destra ultrice?” (Metastasio).
«O menarolti prigionier con questa
Ultrice mano, ove prigion tu ’l chieggia.
Così promisi in voto; or l’altro, ch’ode,
Motto non fa; ma tra suo cor si rode»
(Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, 1581
Canto Diciannovesimo, LXXI, 565-568).
«Cortese come bella, Doralice,
né ben sicura come il fatto segua,
fa volentier quel ch’Issabella dice,
e dispone il suo amante a pace e a triegua.
Cosí a’ prieghi de l’altra l’ira ultrice
di cor fugge a Zerbino e si dilegua:
et egli, ove a lei par, piglia la strada,
senza finir l’impresa de la spada»
(Ludovico Ariosto, Orlando furioso, 1928,
Volume II, Canto 72).
«Amore:
Potrebbe a questi detti arder di sdegno
Ninfa d’amore insana;
Ma la casta Diana
Ha più sublime il core;
Siegue le fere, e non ricetta Amore.
Diana:
Troppo m’irriti, Alceste;
E pure a tante offese
Non oso vendicarmi;
Tu m’accendi allo sdegno e mi disarmi.
Amore:
Se il perdon mi concedi,
Due rei ti scoprirò, che fanno oltraggio,
Amando, alle tue leggi.
Diana:
Chi mai l’ira non teme
Della mia destra ultrice?»
(Pietro Metastasio, L’Endimione,1829,
Parte Seconda: Amore e Diana).
«A che cosa ci servono le parole alte, le parole letterarie, se nelle nostre giornate non abitiamo queste altezze? Certo ad accedere al patrimonio letterario, ma spesso sfugge che possono tornare buone anche fuor di letteratura e fuor di poesia, per motivi precisi.
Qui siamo davanti ad un vendicatore. Chi ci ha messo in difficoltà finisce per trovarsi in grande imbarazzo, e lo troviamo un imbarazzo ultore; aspettiamo un ultore della sofferenza patita; e a carte, dopo quella sfortunata, ci aspetta una mano ultrice.
È una parola che nelle belle lettere si presta ad affreschi intensi — dopotutto quello di vendetta è un sentimento drammatico e oltre, melodrammatico. E proprio questo ci indica che cosa è in grado di fare l’ultore.
Il fatto che le parole elevate siano meno usate le rende più difficili da decifrare e padroneggiare, questo è chiaro. Le guardiamo perfino con sospetto. Ma il fatto che siano meno frequentate le conserva anche più pulite, meno usurate, e meno inclini a rotolare verso il luogo comune. Sono parole meno dette, meno condivise, con un destino meno determinato.
Ora, la vendetta è una faccenda problematica. Da un lato si sa che la vendetta non va bene — bisogna volere giustizia, non vendetta, e questa è una delle questioni morali più vecchie e sofferte della nostra cultura, di quelle che con più urgenza cerca di passare a chi cresce; d’altro canto è un istinto poderoso, che realisticamente è parte di noi e frequenta assiduamente i nostri pensieri. La sete di vendetta, il gridare vendetta sono volti domestici, per quanto problematici.
Il vendicatore, col fatto che come sostantivo e aggettivo ha un profilo più definito, è incandescente e molto chiaro. Parlare dell’imbarazzo vendicatore, del vendicatore che ci riscatterà, della mano che ci vendica scandisce bene il concetto, lo mette in piena, piana luce. L’ultore invece ci dà delle pinze per prendere la vendetta da più lontano; non si fa concettualmente meno intensa, ma il calore s’intiepidisce, i contorni si fanno più sfumati, e quella via che ci porterebbe subito all’intero luogo comune della vendetta, diventa più obliqua. Una possibilità di pregio, che ovviamente rimane nel bacino di una lingua alta — l’ultore non è un soldo spicciolo. E questo è solo il versante serio: come tante parole di questo alto livello, si presta garbatamente all’ironia — e possiamo quindi parlare del sugo ultore che in un guizzo chiazza la camicia di chi ci ha detto una parola storta.
Non la useremo oggi comprando zucche al mercato (forse), ma è una splendida possibilità» (Unaparolaalgiorno.it).
Nell’antichità classica
ultore era un epiteto di divinità
Marte Ultore
Il tempio di Marte Ultore è un antico tempio romano, che faceva da chiusura scenografica al lato di fondo del foro di Augusto a Roma. Era dedicato al dio romano Marte “vendicatore”, Mars Ultor, al quale Augusto aveva promesso in voto un tempio prima della vittoria nella battaglia di Filippi.
La costruzione venne probabilmente iniziata, insieme a quella del foro, solo dopo che Augusto si fu di fatto assicurato il potere, negli anni tra il 30 e il 27 a.C., e il tempio venne solennemente inaugurato quarant’anni dopo la promessa nel 2 a.C.

La statua colossale (cosiddetto “Pirro”), alta quasi 4 metri, che raffigura Marte Ultore (particolare nella foto di copertina), il dio venerato nel tempio omonimo nel Foro di Augusto, fu rinvenuta nel XVI secolo presso il Foro di Nerva e, dopo essere stata collocata in diverse dimore patrizie, fu acquistata da Papa Clemente XII nel 1736. Fu infine trasportata in Campidoglio nel 1740. Oggi si trova nei Musei Capitolini.
Il colosso capitolino può essere datato tra l’età traianea e adrianea (110-138 d.C.) su base stilistica e in particolare per le realizzazioni della capigliatura e della barba.

L’identificazione con Pirro, il famoso Re dell’Epiro, perdurata fino a tutto il Settecento, si basava unicamente sulla presenza di elefanti nella decorazione delle frange dell’abito (pteryges).
Questa realizzazione si rifà ad un originale di età augustea, ricostruito attraverso copie e rielaborazioni che, in accordo con la temperie culturale dell’epoca, si ispirava a un modello tardoclassico di IV secolo a.C.
La mancata differenziazione tra le ciocche dei capelli e quelle della barba, insieme alla caratteristica conformazione del labbro inferiore, sono elementi adesso ritenuti tipici della produzione di inizio II secolo d.C.
Se questa datazione è corretta, appare improbabile che la scultura potesse far parte di un gruppo cultuale, come da alcuni ritenuta l’immagine di culto che si trovava nel Tempio di Marte Ultore del Foro di Augusto. La questione della sua originaria collocazione rimane dunque aperta, ma non è esclusa che essa potesse decorare un altro settore del Foro di Nerva.
«Nella Roma antica, il 12 maggio si celebrava Marte Ultore. Secondo la testimonianza di Ovidio e dei calendari romani si svolgevano dei ludi circensi (corse dei carri nel circo) in onore del dio vendicatore. In questa data ricorreva la dedica del tempio di Marte Ultore fatto nel 19 a.C. sul Campidoglio, ma Ovidio (Fasti, V, 545-598) in realtà descrive in questo giorno il tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto la cui ricorrenza cadeva ufficialmente il primo agosto (il grandioso Foro e il tempio di Marte Ultore fatti da Augusto vennero infatti dedicati alle calende di agosto del 2 a.C.). Probabilmente l’autore celebra il nuovo complesso imperiale dedicato a Marte nella data della celebrazione più antica che Roma aveva per questa divinità, unendo i due culti e facendo evidentemente propaganda al suo imperatore Augusto. Queste le parole di Ovidio (Fasti, V, 545-553): “Sopraggiunge Marte, e venendo ha dato segnali di guerra. Vendicatore discende egli stesso dal cielo ai suoi onori e al suo ammirevole tempio nel Foro di Augusto. Grande è il dio, e grande è quell’opera”.
Nel passo di Ovidio segue poi la descrizione del tempio e delle opere contenute all’interno del Foro di Augusto, interessanti notizie per ricostruire l’aspetto del complesso imperiale augusteo (559-568): “L’armipotente guarda i fastigi della grande costruzione, e si compiace che gli dei invitti ne abitino la sommità; guarda sulle porte dardi di varia forma, e armi di ogni contrada vinte dai suoi soldati. Da una parte vede Enea gravato dal diletto peso e tanti avi della nobile stirpe Giulia; dall’altra vede il figlio di Ilia che porta sul dorso le armi di un capo, e le illustri imprese effigiate sotto gli eroi allineati. Mira anche il frontone adorno del nome di Augusto, e letto quel nome, l’opera gli sembra più grande”.
Gli dei scolpiti sul frontone del tempio e le statue di Enea e Romolo insieme agli esponenti della famiglia Giulia e agli eroi della Repubblica romana costituivano il ciclo scultoreo decorativo che mostrava nel Foro di Augusto gli esempi di virtù, soprattutto militare, che caratterizzava la storia di Roma. Ma lo scopo della costruzione del tempio Ovidio lo ricorda subito dopo (569-598): “Augusto l’aveva promesso da giovane, prendendo le pie armi: come principe doveva cominciare da così grande gesto. Egli, tendendo le mani, così disse alle giuste milizie schierate da una parte, e a quelle dei congiurati dall’altra: “Se il padre mio e sacerdote di Vesta [Cesare] mi sprona a combattere, e io mi accingo a vendicare entrambi i numi, tu, o Marte, assistimi e sazia il ferro del sangue scellerato, e il tuo favore si accampi a sostegno della causa migliore. Avrai un tempio, e alla mia vittoria, sarai denominato Ultore”.
Così Ovidio riporta il discorso e il voto di Augusto di erigere un tempio a Marte Vendicatore dopo la sua vittoria contro i Cesaricidi.
Ma, come ricordato in precedenza, il culto di Marte Ultore veniva probabilmente già celebrato in un altro tempio costruito sul Campidoglio nel 19 a.C. e la cui dedica ricorreva proprio il 12 maggio. Questo edificio venne eretto per contenere le insegne militari dell’esercito di Crasso che nel 53 a.C. erano state conquistate dai Parti, dopo aver sconfitto il generale romano nella battaglia di Carre, e che vennero restituite a Roma nel 20 a.C. La restituzione avvenne quasi spontaneamente da parte del re dei Parti Fraate, e sappiamo che Augusto celebrò questa restituzione come una vera e propria vittoria militare, come ricorda Cassio Dione (54, 8, 1-3): “Nel frattempo Fraate, nel timore che Augusto muovesse un attacco contro di lui […], gli mandò indietro le insegne e i prigionieri […]. Augusto li ricevette come se avesse vinto i Parti in una guerra: egli andava orgoglioso di questo successo, affermando che aveva recuperato senza alcuno sforzo ciò che aveva perso nelle campagne precedenti. In seguito per celebrare questi successi ordinò che venissero decretati dei sacrifici e che sul Campidoglio venisse consacrato un tempio a Marte Ultore sul modello di quello di Giove Feretrio, in cui venissero dedicate le insegne […]. Inoltre Augusto entrò trionfalmente in città sul dorso di un cavallo e fu dedicato in suo onore un arco trionfale”.
La doppia sede del culto di Marte Ultore e la sua doppia funzione di vendicatore (dei Parti e dei Cesaricidi) è sottolineata ancora di più da Ovidio quando ne ricorda le celebrazioni (579-598): “Ma non basta a Marte aver meritato quel nome [ultore] una volta: desidera riconquistare le insegne ancora nelle mani dei Parti. Questi erano gente ben forte per armi, cavalli, pianure, e malagevole da raggiungere per i fiumi che le scorrono intorno, ne aveva accresciuto l’audacia l’uccisione dei Crassi, quando perirono i soldati, le insegne, e insieme il condottiero. I Parti erano in possesso delle insegne romane, onore di guerra, e alfiere dell’aquila romana era un nemico. Tale vergogna sarebbe durata ancora, se la potenza d’Ausonia non fosse stata protetta dalle armi forti di Cesare. Egli cancellò l’antica macchia e il disdoro di così lungo tempo: le insegne così riconquistate riconobbero i loro. O Parto, a cosa ti giovarono le frecce che usi scagliare volgendo le spalle, e i luoghi e l’uso del veloce cavallo? Tu restituisci le aquile, e ci porgi anche l’arco vinto: ormai non possiedi alcun pegno della nostra vergogna. Al dio due volte vindice si offrirono ritualmente il tempio e il nome, e il meritato onore scioglie il debito del voto. Celebrate giochi solenni nel circo, o Quiriti: non sembrò adatto che il teatro si confacesse al bellicoso nume”.
Alcuni studiosi negano la presenza del tempio capitolino di Marte Ultore, indicando nel passo prima citato di Cassio Dione un errore dell’autore che lo confonde con quello del Foro di Augusto. Ma l’immagine di un piccolo tempietto con il nome di Marte Ultore venne impressa su alcune monete dell’epoca a testimoniare la costruzione effettiva dell’edificio. Piuttosto che credere ad un errore di Cassio Dione, che di solito è bene informato e che comunque riporta la notizia di una costruzione dell’edificio basata sul modello del tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio (che non poteva essere in nessun modo confuso, viste le piccole dimensioni, con il grande tempio del Foro di Augusto), è assai più verosimile supporre che nel periodo tra la riconsegna da parte dei Parti (20 a.C.) e la fine dei lavori del Foro e del grande Tempio di Marte Ultore in esso contenuto (2 a.C.), le insegne dell’esercito di Crasso vennero ospitate in questo tempio sul Campidoglio, per poi essere trasferite nel grandioso edificio eretto da Augusto» (Gabriele Romano).