Monsignor Christian Carlassare: ‘La pace si raggiunge con il dialogo’
Più di 10.000.000 bambini in Sudan si sono trovati in una zona di guerra attiva e a meno di cinque chilometri di distanza da spari, bombardamenti e altre violenze mortali, dall’inizio del conflitto più di un anno fa, il 15 aprile 2023, un numero più alto di quello dei minori che vivono attualmente in Italia.
Il Paese, dopo un anno e mezzo, è di fatto diviso in tre parti:: l’una in mano all’esercito regolare, che si professa custode della transizione che controlla faticosamente gran parte del corso del Nilo, la costa del Mar Rosso con il porto di Port Sudan (ormai capitale di fatto) e parte degli stati del Sud-Est; una seconda, alcuni stati del Sud-Ovest e gran parte del Darfur, è sotto il controllo delle RSF.
Infine, una terza vasta area dispersa nel paese è in mano a varie forze ribelli legate a neonati interessi, antichi raggruppamenti ed eterodosse fedeltà locali, venate di identificazioni etniche spesso estese oltre-confine. Le maggiori città sono contese, anche la capitale Khartoum: un anno fa una delle maggiori megalopoli d’Africa con quasi 7.000.000 di abitanti, oggi devastata e spopolata.
I combattimenti hanno condotto ad una delle peggiori crisi umanitarie in corso sul pianeta, la più grave per quanto riguarda gli sfollati: oltre 9.000.000 di nuovi sfollati di cui più di 2.000.000 quelli fuggiti in altri paesi; almeno 13.000 i morti accertati, di certo sottostimati; almeno 11.000 casi colera sono segnalati, l’80%degli ospedali del Sudan è fuori uso e metà della popolazione necessita d’una forma di aiuto ma gli aiuti sono scarsi e in molte aree difficilmente accessibili a causa dell’insicurezza. Il tessuto sociale del Paese è stato fatto a pezzi dalla guerra, la popolazione civile è vittima di violenze dilaganti, bambini uccisi, violentati e reclutati dalle milizie come arma di guerra.
A mons. Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, in Sud Sudan, abbiamo chiesto di spiegarci i motivi per cui il conflitto in Sudan aumenta: “Il conflitto sudanese ha radici profonde perché nasce da problemi già presenti nella guerra in Darfur cominciata più di 20 anni fa e mai risolti. Ora la questione del Darfur si è allargata a tutto il Paese. In aggiunta possiamo dire che il conflitto sudanese non è semplicemente una guerra tra due generali, poiché l’esercito SAF e la milizia RSF sono inestricabilmente inseriti nella vita economica del paese attraverso legami con gruppi di élite sudanesi che controllano vari settori dell’economia a proprio vantaggio.
Quindi è un conflitto molto complesso che alla base ha elementi economici, problematiche regionali esacerbate da questioni etniche, senza dimenticare interessi internazionali ed elementi religiosi come l’aspirazione della fazione islamista estromessa dal governo nel 2019 di tornare al potere”.
Perché la guerra in Sudan è una guerra ‘fantasma’?
“Probabilmente perché non gli viene data la dovuta importanza dalla comunità internazionale (soprattutto America e Paesi europei) per cui l’attenzione mediatica e l’aiuto umanitario sono rivolti soprattutto a Gaza ed Ucraina. Ma in realtà la crisi umanitaria sudanese è altrettanto grave sia per le uccisioni e crimini commessi, sia per il numero di persone che sono sfollate nella più totale assenza di sicurezza e servizi e la conseguente fame.
Il Sudan è abbandonato a sé stesso da chi non vede in esso interessi economici e strategici. Russia, Emirati Arabi, Arabia Saudita e in parte l’Egitto invece sono più coinvolti, ma non è scontato che stiano lavorando per la pace. Se ci fossero meno armi e meno soldi per comprarle, forse quelli che oggi combattono per il controllo di alcune aree e risorse si siederebbero a un tavolo per la pace”.
Quali ripercussioni ha questo conflitto in Sud Sudan?
“Il Sud Sudan osserva quello che sta accadendo in Sudan con grande preoccupazione perché il legame tra i due Paesi rimane, pur con l’indipendenza del Sud. Molti Sud Sudanesi avevano trovato rifugio in Sudan durante il conflitto 2013-2019. Comunque il Sudan continuava ad offrire buone opportunità di studio e cure mediche, oltre che vantaggi negli investimenti e nel commercio. Ora non più. Molti Sud Sudanesi sono rientrati, dopo aver perso tutto, e senza trovare molto. L’estrazione del petrolio è rallentata ed il trasporto lungo l’oleodotto fino a Port Sudan è diventato più incerto come anche questa entrata che rappresenta 85% del PIL del paese.
In aggiunta, il Sud Sudan non è veramente in pace nonostante l’accordo R-ARCSS. Anche se non si registrano scontri tra i principali gruppi armati, in molte parti del Paese si registrano violenze legate a conflitti locali.
Vengono descritti come scontri locali o comunitari perché interessano piccoli gruppi di diversa etnia, e sono spesso legati all’accesso ad alcune risorse del territorio. Ma le cause non sono accidentali, di fatto sono collegate alle dinamiche politiche nazionali. Mentre il Sud Sudan ha teoricamente un governo transitorio di unità nazionale, in pratica c’è una lotta tra le diverse fazioni del governo e dell’opposizione per il potere e c’è poca cooperazione fra loro.
Tutte le fazioni lavorano per i propri interessi piuttosto che per il bene della nazione e dei cittadini. Sembra mancare la volontà politica di attuare le disposizioni della R-ARCSS. E, purtroppo, le elezioni (che dovrebbero essere a dicembre prossimo) fanno parte di questa lotta per il potere.
Il principale partito di governo vorrebbe le elezioni. L’opposizione le vorrebbe posticipate. In generale preoccupa l’impreparazione generale. Le elezioni non sono un singolo evento, richiedono un processo che dura nel tempo. Comportano molti elementi: la demarcazione delle circoscrizioni elettorali che richiederebbero un censimento, la registrazione degli elettori, la registrazione dei partiti politici e dei candidati, l’istituzione di un sistema elettorale indipendente, la commissione elettorale, la formazione dei funzionari elettorali, una pianificazione della logistica cioè come raggiungere tutti distretti in un territorio così vasto e povero di infrastrutture e comunicazioni, come garantire la sicurezza e l’ordine nello svolgimento delle votazioni, l’educazione civica degli elettori.
Praticamente nulla di tutto questo è ancora avvenuto. È anche difficile prevedere come sarà possibile votare in alcune regioni dove non c’è sicurezza, o dove la popolazione è pressoché tutta sfollata a causa anche degli allagamenti.
Per di più, non si tratta di semplici elezioni di routine come quelle che si svolgono regolarmente in altri paesi. Queste elezioni fanno effettivamente parte dell’R-ARCSS, che è un accordo di pace firmato dalle parti coinvolte nella guerra civile del 2013. In effetti, l’elezione costituisce l’ultima tappa dell’accordo dopo che tutte le altre sono state raggiunte.
Queste includono la ratificazione di una costituzione che per ora rimane transitoria, la riforma dell’esercito e della difesa, la riforma della giustizia, il dialogo nazionale e la riconciliazione. La maggior parte di queste riforme non sono state fatte. E’ quindi difficile capire come si possano avere delle elezioni legittime quando mancano le condizioni previe.
Al momento sono in atto delle trattative moderate dal presidente Ruto del Kenya con la partecipazione della Comunità di Sant’Egidio per cercare di uscire da questa situazione di stallo. Si continua a sostenere la necessità di andare alla radice dei problemi che sono legati alla costituzionalità stessa del paese, al rispetto della legge, al buon governo che sappia superare corruzione e nepotismo.
Bisogna saper guardare oltre l’accordo di pace e le elezioni stesse. E’ necessario promuovere un serio dialogo nazionale indipendente dalle forze al governo ed élite militari, dove la comunità civile, i gruppi ecclesiali, gli anziani, le donne e i giovani possano parlare ed essere finalmente ascoltati”.
La conferenza episcopale di Sudan e Sud Sudan invita al dialogo: è una via percorribile?
“E’ l’unica via. Senza un dialogo nazionale indipendente e a tutto campo non si supereranno mai i pre-giudizi che cui sono tra diversi gruppi etnici. Le narrative negative che contrappongono piuttosto di unire rimarranno intatte. Le ferite per le violenze subite rimarranno aperte ed infette senza possibilità di guarigione. Senza dialogo inclusivo alcuni gruppi di potere continueranno a manipolare le comunità locali.
Quindi non basta un dialogo formale compiuto da un gruppo limitato di persone in rappresentanze delle altre. E’ necessario nel paese un atteggiamento di ascolto ed educazione alla conoscenza reciproca per individuare un bene che sia comune e che appartenga a tutta la popolazione. Il governo deve essere progressivamente capace di offrire pari opportunità e sviluppo a tutte le comunità del paese, dando attenzione ai gruppi più svantaggiati e vulnerabili”.
Dopo la conclusione delle Olimpiadi parigine, in cui la squadra di pallacanestro ha partecipato per la prima volta, il basket in Sud Sudan può essere un momento di riscatto e di riappacificazione?
“L’esperienza delle Olimpiadi è stata certamente una esperienza molto importante per la squadra di basket del Sud Sudan. Le imprese della squadra è stato motivo di orgoglio nazionale e tanta gente ha seguito con interesse e grande speranza. Il messaggio di questa esperienza è che l’unione fa la forza, e lavorare sodo porta sempre buoni frutti. Spero sia un messaggio che venga raccolto dal paese perché sia in grado di costruire relazioni sociali improntate sul rispetto, la gentilezza e la coesione”.
Nello scorso luglio è anche vescovo della diocesi di Bentiu con 621.000 battezzati su una popolazione di 1.132.000 persone: per quale motivo papa Francesco ha eretto la diocesi di Bentiu?
“E’ un processo che è iniziato qualche tempo fa in seguito alla grande crescita di fede e impegno ecclesiale della popolazione locale. Gli agenti pastorali laici hanno più volte chiesto alla Chiesa più attenzione considerando la vastità della diocesi di Malakal e il numero esiguo di ministri ordinati. Al mio arrivo in Sud Sudan nel 2005 questo territorio aveva solo due parrocchie, una retta da un prete diocesano e l’altra retta da una comunità di missionari comboniani. I catechisti erano più di 600 e presenti nel territorio a guida di altrettante cappelle. Oggi lo stesso territorio ha sette parrocchie, sette preti diocesani, due diaconi, e due comunità religiose, i missionari comboniani e i frati minori cappuccini.
Il motivo per il quale papa Francesco ha eretto questa diocesi risponde al bisogno di essere una Chiesa che si fa prossima, che esce dal tempio e si fa compagna di strada di coloro che hanno perso tutto, ma non la propria umanità. Al momento si calcola che nella regione, circa il 90% della popolazione è sfollata a causa prima del conflitto ed ultimamente dell’alluvione che ancora colpisce il territorio. Tra Bentiu e Rubkona, due città collegate da un ponte, vivono circa 200.000 persone dentro una trentina di chilometri di terrapieno dove da 4 anni il livello dell’inondazione del Nilo supera quello del terreno.
Nel ‘campo sfollati’ di Rubkona circa 130.000 persone vivono stipati in una situazione del tutto anomala poiché dipendono dall’assistenza dell’ONU e delle agenzie umanitarie. Forse la diocesi, dando forza alle comunità cristiane locali, può essere richiamo di un bisogno di normalità, di pace e di sviluppo umano integrale di cui la gente ha tanto bisogno”.
(Foto: Aci Stampa)