Quale Dio pregare

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La Santa Scrittura ci istruisce che Dio rigetta chi ha la presunzione dell’onestà personale e, nel rivolgersi a Lui, ne fa orgogliosamente motivo di merito, ignorando che tutto proviene da Dio. A chi vuol pregare in spirito e verità, Gesù raccomanda con decisione di non seguire l’esempio dei farisei: Quando pregate, non siate simili agli ipocriti, che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente (Mt 6,5). Nel Vangelo, l’epiteto “ipocrita” è applicato innanzitutto al fariseo.

Pregare è conversare a cuore a cuore con Dio, ma a quale volto di Dio l’orante deve rivolgere lo sguardo del cuore? Volendo dare un insegnamento sulla preghiera, un giorno Gesù narrò la celebre parabola di due uomini che salirono al tempio per pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano (cfLc 18,9-14). Il fariseo è più vicino a Dio perché osserva la legge, mentre il pubblicano, lavorando alle dipendenze dell’occupante, è considerato pagano. Nell’opinione pubblica, il primo appartiene alla categoria dei giusti, l’altro a quella dei peccatori.

I farisei costituivano un partito religioso-politico che si differenziava da quello dei sadducei. Caratteristica rivoltante del loro sistema era il disprezzo dell’uomo. Per i farisei, chi non conosceva la legge o non seguiva il loro formalismo ipocrita, era individuo abominevole.

I pubblicani, a servizio degli odiati romani invasori, erano incaricati della riscossione dei dazi sull’importazione ed esportazione delle merci. Questo lavoro era dato in appalto ai privati i quali, all’esosità dello Stato, aggiungevano anche quello degli appaltatori. Questi pubblicani erano considerati peccatori pubblici alla stregua dei ladri, degli adulteri e dei pagani.

Gesù raccontò la parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. Luca parla solo di “alcuni” ma non li indica. Certo, non tutti i farisei erano degni di riprovazione da parte di Gesù, come non lo erano Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea e altre persone perbene. Come anche, tra i pubblicani c’erano Matteo (Mt 9,9) e Zaccheo (Lc 19,2). Gesù detesta lo stile “mafioso” dell’appartenenza che divide e separa, allontana e distrugge. Egli guarda soltanto la persona, il cuore e lo stile di vita.

Nel pregare, il fariseo, esibizionista teatrale, si autogiudica come giusto, il pubblicano invece, umile e nascosto, si ritiene peccatore e perciò fiducioso della giustizia divina. Due modi contrastanti di “pensare Dio” e perciò di pregarlo e di vivere con Lui in un rapporto filiale.

Il fariseo è un pio israelita, profondamente religioso, il suo modo di pregare è tipico della benedizione laudativa della berakhà. Avrebbe dovuto iniziare la sua preghiera esaltando le grandezze dell’Onnipotente e le meraviglie da Lui compiute, per poi arrivare alla supplica affinché Dio rinnovi i gesti della sua benevolenza. Il fariseo, invece, “stando in piedi”, ringrazia Dio per essere diverso e migliore degli altri, i quali, non essendo farisei, sono “ladri, ingiusti e adulteri”. Lui, invece, paga le tasse e digiuna, non una sola volta ma due. Si distingue dal pubblicano, ilpublicus esattore del denaro pubblico, perciò impopolare, disprezzato e impuro.

Il fariseo, di fatto, non ha pregato. La sua falsa preghiera, sotto forma di ringraziamento, non è altro che una tronfia autosoddisfazione: fa il conto dei suoi meriti, si esibisce con un atteggiamento che, mettendo al posto di Dio se stesso e le sue pratiche religiose, porta Dio a suo livello. Dalla sua preghiera emerge il volto di un Dio legato soltanto alle opere della legge.

San Paolo, nelle lettere ai Romani (10,3) e ai Galati (2,16), rifiuta radicalmente una fede in Dio fondata sulla sicurezza nelle opere della legge: quella di Dio non è una giustizia retributiva. La giustizia divina è gratuità perché è amore paterno-materno, è bontà e misericordia. L’altro gesto grave del fariseo è lo sfoggio di orgoglio religioso che lo induce a identificare il proprio giudizio con quello di Dio, discriminando gli altri. I due aspetti: credersi giusti davanti a Dio e disprezzare gli altri, sono indissociabili e dipendono dallo stesso atteggiamento interiore.

Il pubblicano, invece, arriva al tempio senza diritti e senza pretese, carico soltanto dei suoi peccati. Entrato nel tempio, “si ferma a distanza”, “non osa alzare gli occhi”, “si batte il petto” e prega dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Entrambi iniziano con l’invocazione: O Dio! Quelle labbra diverse, però, invocano lo stesso Dio? Il fariseo prega un Dio legato alle opere della legge, come se la giustizia divina fosse una questione retributiva che dà a ciascuno secondo i propri meriti distribuendo ricompense.

Quest’atteggiamento non soltanto complica il rapporto con Dio, ma crea una serie di distinzioni fra gli uomini. Orgoglioso, presuntuoso, ipocrita e soddisfatto della sua giustizia, il fariseo non vuole “cambiare”, si autogiudica giusto, giudicando peccatore l’altro. Il pubblicano, invece, perché si ritiene peccatore, avverte il bisogno della salvezza e perciò vuole “cambiare”, egli è l’uomo leale e sincero che loda Dio e non se stesso. Credendo in Dio che salva, implora misericordia e perdono. Alla fine, Dio misericordioso rende giusto il pubblicano donandogli la sua misericordia: disprezzato da chi si ritiene giusto, diventa l’amato da Chi accoglie la sua richiesta di perdono. La parabola termina con il celebre ammonimento: chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato.Questo rovesciamento di sorti non è capriccio e neppure vendetta da parte di Dio ma esplosione del suo amore misericordioso e rivelazione della verità di ciascun uomo.

Come potremmo rendere culto a Dio, in spirito e verità, se non confidassimo alla sua misericordia i nostri egoismi, le nostre mancanze d’amore, i pesanti e inumani giudizi che esprimiamo sui fratelli, le nostre divisioni che emarginano persone e gruppi comunitari? Come non spalancare le braccia del cuore per accogliere chi ci è stato restituito come fratello dall’amore misericordioso di Dio? Quando si vive nell’orgoglio autoesaltante della propria superiorità che porta a discriminare e a dividere, Dio non gradisce mai le preghiere, neanche quelle più sofisticate e artisticamente elevate. Chi si esalta, illude se stesso e rimane umiliato. Chi vive nell’umiltà si misura con se stesso e vive soltanto di Dio che “esalta gli umili”.  Ai giudizi che dividono, Dio gradisce e preferisce sempre il cuore umile e povero che si pente, loda e ringrazia.

Il fariseo, irrigidito dal suo orgoglio, non lascia spazio all’opera di grazia e al dono della divina misericordia. Ripieno di se stesso e delle sue opere, quella preghiera, a modo suo, l’avrà cantata, ma, essendo una preghiera che divide e scomunica, Dio ne rimane nauseato e respinge quel modo orgoglioso, presuntuoso e maldicente di pregare liturgico. Invece, accoglie, nelle sue braccia di padre, il miserere che sgorga dal cuore sincero, umiliato e pentito del pubblicano che implora perdono.

Maria, la Vergine Madre, nel cantico del Magnificat, loda e ringrazia Dio, suo Signore e Salvatore,perché ha guardato l’umiltà della sua serva, sino a profetizzare: d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. “Beata” perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto.Inneggiando in entusiasmo, guarda se stessa come capolavoro del suo Dio e canta: Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome (cf Lc 1,46-55).

Ecco quale canto deve fiorire sulle labbra oranti quando, nella Divina Liturgia, l’assemblea santa esprime il suo credo che sgorga dal cuore: Se con il cuore si crede, con la bocca si professa la fede(cf Rm 10,5-11). Il Prefazio IV ci fa cantare: Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie. I nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza ma ci ottengono la grazia che ci salva per Cristo nostro Signore.

 

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