La congiura del silenzio sta schiantandosi. Il giudice del Papa indagato dalla procura di Caltanissetta per il reato di “favoreggiamento alla mafia”

Papa Francesco e Giuseppe Pignatone
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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 04.09.2024 – Ivo Pincara] – Oggi, dopo il periodo di vacanza, ritorniamo sulla notizia della procura di Caltanissetta, con riguardo al Presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone, indagato per il reato “gravissimo” di “favoreggiamento alla mafia”. In particolare riportiamo la lettera che Andrea Paganini gli ha indirizzato, pubblicato il 7 agosto 2023 su Il Riformista. Seguono alcuni contributi pubblicati sulla stampa che riferiscono del caso.

L’insabbiamento del caso mafia e appalti, una perizia del Ris sul documento del mistero: “Non si esclude che sia la calligrafia di Pignatone”. L’indagine della procura di Caltanissetta sul fascicolo che stava a cuore a Paolo Borsellino poco prima di morire. L’ex procuratore aggiunto di Palermo Giuseppe Pignatone indagato per favoreggiamento aggravato si è dichiarato “innocente” Il mistero dell’insabbiamento dell’inchiesta mafia e appalti è tutto in un foglio di carta riemerso dall’archivio della procura di Palermo. «Si ordina la smagnetizzazione dei nastri relativi alle intercettazioni telefoniche e/o ambientali disposte con i decreti numero…», è scritto al computer.

L’indagine è relativa al fascicolo aperto dalla Procura nissena riguardante l’insabbiamento di un’indagine scaturita dalla nota proveniente dai pm di Massa Carrara secondo la quale i mafiosi Salvatore e Antonino Buscemi sarebbero stati in affari con l’allora colosso Ferruzzi-Gardini. La nota proveniente da Massa Carrara sarebbe stata un’ottima integrazione per le 900 pagine di informativa degli ex Ros. Paolo Borsellino non solo considerava quel dossier importante, ma lo collegava direttamente alla strage di Capaci.

Rinunci allo stipendio recentemente maggiorato
Lettera aperta al Dottor Pignatone: stia sereno perché non verrà giudicato dal Tribunale del Vaticano ma si dimetta… Lei avrà la fortuna di essere giudicato da un tribunale della Repubblica Italiana e non dal tribunale del Vaticano. Stia sereno, perché i suoi avvocati difensori saranno messi sullo stesso piano di quelli dell’accusa e il principio in dubio pro reo sarà un baluardo a sua difesa
di Andrea Paganini
Il Riformista, 7 agosto 2024

Presidente,

fino a prova contraria lei è innocente. In un paese civile vige la presunzione d’innocenza. Nessuna condanna preventiva, come è avvenuto nel caso del cardinal Becciu, può essere consentita in un Tribunale italiano. Meno male, allora, che lei è indagato dalla Procura di Caltanissetta e non da quella Vaticana. Meno male che in Italia vige la separazione dei poteri, e che il Capo dello Stato non si è ancora pronunciato avallando la tesi colpevolista e alimentando così una campagna stampa che già la condannerebbe alla gogna mondiale. E, mi creda, questo mi fa piacere perché la gogna mediatica è qualcosa di incivile e lontana dallo stato di diritto. Lei ora ha la possibilità di difendersi, ha diritto, quando le indagini saranno terminate, ad avere tutta la documentazione comprovante la sua innocenza nella certezza che nessun promotore di giustizia o pubblico ministero deciderà arbitrariamente quali carte offrire e quali no, selezionando le informazioni e dando l’impressione d’aver svolto una ricerca mirata ai soli elementi a conferma della propria tesi.

Lei ha la fortuna di essere ascoltato da un Procuratore della Repubblica Italiana. Se poi dovesse essere rinviato a giudizio (e spero che non avvenga), stia tranquillo perché nessuna nuova legge, nessun rescriptum verrà emanato ad hoc per processarla e sostenere l’impianto d’accusa. Il Presidente del Tribunale che dovesse giudicarla non consentirà censure sul materiale probatorio, non permetterà che il pubblico ministero non consegni i materiali esistenti o lo faccia solo in parte, effettui tagli a proprio piacimento sui video dei testimoni, non consentirà che l’accusa oscuri di omissis gli interrogatori che svelerebbero la trama ordita contro di Lei attraverso il ricatto dell’eventuale testimone chiave. Se poi il testimone risultasse manipolato, la Giustizia non lo proteggerà e certamente non lo premierà; anzi indagherà per capire da chi e con quali moventi ha agito.

Nessun promotore o pubblico ministero potrebbe tener nascosti di sua iniziativa i messaggi intercorsi tra la manipolatrice e l’amica del testimone chiave, inoltrati all’accusatore in corso di dibattimento. E qualora i magistrati dell’accusa non dovessero obbedire al giudice, verrebbero immediatamente sanzionati. Nessuno accetterebbe che la manipolatrice, che detiene illegalmente documenti riservati appartenenti allo Stato, parlasse con il magistrato supremo. E quest’ultimo, nell’annuale incontro con i suoi subalterni, non dirà mai che bisogna «evitare il rischio di “confondere il dito con la luna”»: il problema non sono i processi, ma i fatti e i comportamenti che li determinano (dandoli già per assodati e veri). Soprattutto, nessuna autorità interverrà a promuovere l’accusa prima dell’accertamento. Perché la presunzione di innocenza è un diritto umano fondamentale riconosciuto dalla convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, cui l’Italia ha aderito. Non sarà possibile, insomma, che sussista neanche il dubbio o il sospetto che la giustizia abbia nascosto o manipolato la verità, anziché portarla alla luce.

Lei avrà la fortuna di essere giudicato da un tribunale della Repubblica Italiana e non dal tribunale del Vaticano. Stia sereno, perché i suoi avvocati difensori saranno messi sullo stesso piano di quelli dell’accusa e il principio in dubbio pro reo sarà un baluardo a sua difesa. Se il presidente del tribunale dovesse annunciare che verranno ascoltate e messe a confronto le due donne che più di tutti avessero osato costruire la falsa testimonianza del testimone chiave contro di lei, questo a Caltanisetta avverrà realmente. Non sarà consentita nessuna condanna senza prove fattuali. La sentenza sarà emessa sui capi d’accusa su cui si potrà difendere e non su nuovi capi d’accusa pescati ad hoc all’ultimo respiro senza consentire adeguata difesa.

Non sarà condannato su colpe futuribili, così come è accaduto al Cardinal Becciu, ma solo su prove certe, su fatti realmente accaduti e dimostrati in sede processuale. Il peculato per chi non ha preso un centesimo per sé stesso, come nel caso del cardinale poi, è davvero accusa bizzarra, mi consenta. Vada quindi con fiducia incontro agli organi inquirenti e giudicanti, lei è un uomo fortunato. Oltre che, naturalmente, assistito da presunzione di innocenza. Per dare un segnale chiaro a tutti, presidente, con queste irrinunciabili garanzie, dia pure le dimissioni dall’attuale incarico in Vaticano. Rinunci allo stipendio recentemente maggiorato. Questo le consentirà non solo di far trionfare la giusta giustizia, ma anche di esaltare la sua dignità di persona credibile. E lei sa quanto sia importante, per un magistrato, essere serio e credibile.

Con viva cordialità.

Andrea Paganini

Il ritratto
Da Provenzano a Bergoglio, le tante vite di Giuseppe Pignatone
A distanza di 27 anni dalla sua prima indagine, il dossier Mafia-appalti è tornato prepotentemente nella vita del Procuratore più conosciuto (e discusso) d’Italia
di Simona Musco
Il Dubbio, 31 luglio 2024

A Palermo, su di lui, pare ci fosse un veto: mai e poi mai avrebbe guidato la procura del compianto Giovanni Falcone. Per questo dopo 30 anni trascorsi nel Palazzo di Giustizia del capoluogo siciliano alla fine dovette accontentarsi dell’altro lato dello Stretto, Reggio Calabria, la città che segnò l’inizio della sua fulminante carriera.

Giuseppe Pignatone, uno degli uomini più vicini al procuratore Pietro Giammanco, non era certo un amico di Falcone, che nei suoi diari, pubblicati dopo la strage di Capaci dalla giornalista Liana Milella, gli riservava parole tutt’altro che di stima. Fu proprio il dossier “Mafia e appalti”, per il quale oggi è indagato, l’origine delle sue disgrazie.

Nel 1997, quando ancora si trovava a Palermo, la procura di Caltanissetta indagò su di lui, Giammanco, Guido Lo Forte e Ignazio De Francisci per i reati di abuso e corruzione di atti giudiziari. Fu un collaboratore di giustizia, Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici di Totò Riina”, a puntare il dito contro di lui, sostenendo che i tre magistrati lo avevano aiutato facendogli arrivare il rapporto sugli appalti elaborato dal Ros nel 1991. La vicenda si chiuse nel 2000: in assenza di riscontri alle parole di Siino, il fascicolo fu archiviato.

Nello stesso anno, Pignatone diventò procuratore aggiunto, al fianco di Piero Grasso, futuro procuratore nazionale antimafia e poi presidente del Senato. Una carriera, quella di Pignatone, segnata da inchieste destinate a fare la storia, nel bene e nel male, come quella su Totò Cuffaro, messo sotto indagine nel 2003, quando era presidente della Regione Sicilia, e poi condannato a 7 anni per aver favorito Cosa Nostra.

E, soprattutto, l’arresto del superboss latitante Bernardo Provenzano, eseguito dai suoi fedelissimi – i poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidati da Giuseppe Gualtieri e dal dirigente della Squadra Catturandi Renato Cortese – l’11 aprile 2006. Era quella la carta che Pignatone voleva giocarsi per conquistare la poltrona di Palermo. Ma proprio in quello stesso anno il Csm gli negò quella gioia, preferendogli Francesco Messineo.

Gli toccò l’altro lato dello Stretto, dunque, Reggio Calabria, dove una criminalità organizzata sempre più pervasiva e ricca aveva ormai scavalcato Cosa nostra in potere e prestigio mafioso. Ed è lì che il 13 luglio 2010 ha realizzato il suo capolavoro, quell’operazione “Crimine” che mirava a dimostrare l’esistenza di una cupola mafiosa calabrese sul modello palermitano.

Alla fine la tesi resse: la ’ndrangheta unitaria venne certificata dalle sentenze, anche se non pesanti come ci si aspettava. E nessuno, alla fine, credette mai del tutto che a capo della più potente criminalità organizzata del mondo potesse esserci davvero un semplice fruttivendolo, Domenico Oppedisano. Quell’operazione spianò però la strada verso la procura più importante d’Italia, quella di Roma. Una scalata segnata anche da episodi oscuri: il ritrovamento di un bazooka davanti alla sede della procura reggina, intercettato il 5 ottobre 2010 a seguito di una telefonata anonima, e mesi prima quello di un’auto imbottita di armi ed esplosivo lungo il percorso della visita dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E il Capo dello Stato, a marzo 2012, si presentò addirittura a quello che allora si chiamava Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, che all’unanimità lo incoronò nuovo procuratore di Roma. Un evento più unico che raro.

Nella Capitale Pignatone provò a ripetere il miracolo “Crimine”, con un’inchiesta – “Mafia Capitale” – che nel suo nome portava già la sentenza: dimostrare l’esistenza della mafia a Roma. Era il 2 dicembre 2014, nel mirino c’erano gli intrecci tra criminalità mafiosa e politica nel Comune di Roma. In manette finirono 37 persone, esponenti del centrodestra della giunta Alemanno, esponenti del Pd e membri del consiglio comunale di centrosinistra.

La sentenza di Cassazione, nel 2019, certificò però “solo” l’esistenza di un grande sistema corruttivo, ma nulla a che vedere con la mafia. Quella teoria investigativa cambiò di fatto le sorti della politica capitolina, spianando la strada all’ascesa del M5S al grido “onestà”. Ma non trovò riscontri. Pignatone, però, al momento della sentenza era già in pensione: il 9 maggio 2019 ha lasciato infatti la poltrona per raggiunti limiti di età. La stessa sera, all’Hotel Champagne, si consumò casualmente il più grande scandalo della magistratura italiana, il caso Palamara. Finito anzitempo, pochi giorni dopo, misteriosamente sui giornali. Uno scandalo che tagliò le gambe al successore in pectore di Pignatone, Marcello Viola, citato quella notte a sua insaputa come “prescelto.”

E che spianò la strada alla nomina del braccio destro di Pignatone sia a Reggio Calabria sia a Roma: quel Michele Prestipino che lo sostituì fino a nomina ufficiale. La sua investitura da parte del Csm, però, fu spazzata via dal Consiglio di Stato: Francesco Lo Voi, scrisse Palazzo Spada, aveva più titoli di lui. Quella nomina era da rifare. E alla fine Prestipino dovette cedergli la poltrona. Pignatone, nel frattempo, ha preso una strada nuova: il 3 ottobre 2019 è arrivato alla Corte di Papa Francesco, che lo ha nominato presidente del Tribunale di prima istanza dello Stato della Città del Vaticano. Dove è tornato su un caso che aveva già seguito: la scomparsa di Emanuela Orlandi.

Ora, però, è costretto a tornare in Sicilia. Non come avrebbe voluto, ma da indagato. E a distanza di 27 anni da quella prima indagine, Palermo e le sue storie tornano prepotentemente nella sua vita.

Colpo di scena a Caltanissetta
Indagato Pignatone, l’accusa di «aver favorito i boss»
Dopo l’avviso all’ex sostituto di Palermo Natoli, altra mossa clamorosa dei pm di Caltanissetta, che coinvolgono l’ex capo degli inquirenti di Roma. Sullo sfondo le indagini dei Ros in cui credeva Borsellino e che “accelerarono” la sua morte
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 31 luglio, 2024

Dopo l’ex magistrato Gioacchino Natoli, spunta un altro nome illustre della Procura di Palermo di inizio anni Novanta, definita “nido di vipere” da Paolo Borsellino. Parliamo dell’ex procuratore di Roma, e attuale presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, ora indagato dai pm di Caltanissetta per un presunto “favoreggiamento dei boss”. Ieri è stato interrogato dal pool coordinato dal procuratore Salvatore De Luca, si è dichiarato innocente ma si è legittimamente avvalso della facoltà di non rispondere.

L’indagine è relativa al fascicolo aperto dalla Procura nissena riguardante l’insabbiamento di un’indagine scaturita dalla nota proveniente dai pm di Massa Carrara secondo la quale i mafiosi Salvatore e Antonino Buscemi sarebbero stati in affari con l’allora colosso Ferruzzi-Gardini. Indagine che sarebbe dovuta confluire nel procedimento “Mafia-appalti”, dossier, quest’ultimo, redatto dagli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Nel medesimo dossier, depositato dai due uomini dell’Arma a febbraio del 1991, già si delineava, con tanto di nomi e dati, la cointeressenza tra i fratelli Buscemi e il colosso ravennate.

La nota proveniente da Massa Carrara sarebbe stata un’ottima integrazione per le 900 pagine di informativa degli ex Ros. Paolo Borsellino non solo considerava quel dossier importante, ma lo collegava direttamente alla strage di Capaci. Tutte le sentenze riguardanti la strage di via D’Amelio hanno individuato l’indagine “Mafia-appalti” come causa preventiva che fece scattare un’accelerazione. Anche se, in barba alle risultanze processuali, le “lobby” di una certa antimafia riscrivono la Storia attraverso una diversa, fuorviante e perenne narrazione. Infatti, il punto non è individuare “Mafia-appalti” come causa: quello è un dato già accertato dai giudici. Piuttosto, si tratta di scoprire se alcuni infedeli servitori dello Stato (anche togati) abbiano creato problemi.

D’altronde, lo stesso Borsellino aveva già predetto la propria morte per mano della mafia, consapevole che alcuni suoi colleghi e altri esponenti avrebbero permesso che ciò si verificasse. Non solo. C’è un vecchio articolo di Repubblica a firma di Salvo Palazzolo in cui viene riportata la testimonianza del compianto giudice Vincenzo Olivieri. Tre giorni prima dell’attentato, incontrò Borsellino al bar. «Il tono delle parole di Paolo era davvero deciso», dice Oliveri a Repubblica, «disse addirittura “questa volta li fotto”. Ma non gli chiesi a chi si riferiva. Era però euforico».

Oggi, con i nuovi elementi emersi, queste parole sembrano assumere un senso più chiaro. Sicuramente Borsellino non si riferiva ai mafiosi, ma molto probabilmente a dei suoi colleghi. Appena due giorni prima di questo incontro, alla riunione del 14 luglio 1992 in Procura, Borsellino stesso avanzò dei rilievi circa la conduzione del procedimento “Mafia-appalti”, di cui lui non era titolare. Lo stesso Antonio Ingroia testimonierà che Borsellino si rivolse a due magistrati con una battuta: «Voi non me la raccontate giusta».

Ma ritorniamo all’indagine che vede coinvolti gli ex procuratori Natoli e Pignatone, e l’attuale generale della Guardia di Finanza Stefano Screpanti, che è l’unico, finora, ad aver risposto ai pm con documentazione annessa. L’accusa sostiene che Natoli, in particolare, avrebbe aiutato a eludere le indagini sui mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, sull’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco (dal dossier dei Ros emerge che si incontrava con Angelo Siino) e sui vertici del Gruppo Ferruzzi, ovvero gli imprenditori Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini. Al magistrato, già sostituto a Palermo, viene contestato di aver condotto, nell’ambito del procedimento 3589/1991 aperto a Palermo dopo l’invio delle carte da Massa-Carrara su presunte infiltrazioni mafiose nelle cave toscane, una «indagine apparente». Come? Richiedendo autorizzazioni per intercettazioni telefoniche di brevissima durata e su un numero limitato di utenze, compromettendo così l’efficacia dell’inchiesta.

Inoltre, avrebbe disposto, d’intesa con l’allora capitano della Guardia di Finanza Screpanti, di non trascrivere conversazioni cruciali che rivelavano il coinvolgimento di Di Fresco a favore di Bonura e un possibile «aggiustamento» di un processo pendente relativo a un duplice omicidio. Sempre Natoli avrebbe inoltre chiesto l’archiviazione del procedimento, senza approfondimenti e senza acquisire il materiale, concernente le indagini effettuate dalla Procura di Massa-Carrara. I reati, sempre secondo gli inquirenti di Caltanissetta, sarebbero stati commessi con «l’aggravante di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa», con riferimento agli interessi della stessa nell’aggiudicazione degli appalti, operazione gestita dal famoso tavolino tra mafia, imprenditori nazionali e politica. Tale «indagine apparente» sarebbe stata eseguita su istigazione dell’allora capo procuratore Pietro Giammanco.

Un dettaglio cruciale emerge dalle audizioni di Natoli: nell’aprile 1992, una seconda nota inviata da Lama, il pm di Massa-Carrara, fu “intercettata” da Paolo Borsellino. Il quale, d’altronde, era colui che assegnava i processi di mafia. La diede a Natoli, come era naturale che fosse? No: la consegnò ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Perché? Forse Borsellino non era a conoscenza dell’indagine? Ma non c’era la circolarità di notizie, come ripetono taluni magistrati di punta dell’epoca? Resta il fatto che Lo Forte e Pignatone erano i magistrati titolari del dossier “Mafia-appalti”, che già indicava gli affari dei Buscemi con Ferruzzi-Gardini.

Per inquadrare il clima di quel periodo, ci viene in aiuto una nota dello “Sco” della polizia di Stato del 1996, citata dall’ordinanza di archiviazione (procedimento relativo all’indagine sulla fuoriuscita del dossier) a firma della compianta giudice Gilda Loforti. Si legge testualmente che “nel febbraio del 1991, vi fu un serio allarme nel mondo imprenditoriale siciliano a causa di indiscrezioni che arrivavano da elementi corrotti delle Istituzioni circa un’imminente operazione dei Carabinieri che avevano individuato collegamenti tra lo stesso mondo imprenditoriale (i colossi Gardini, Panzavolta) e Cosa Nostra”.

Ed è proprio a febbraio del 1991 che è stato depositato il dossier “Mafia-appalti”. Gli imprenditori – e in particolare il mafioso Antonino Buscemi -, secondo il dossier depositato dagli ex Ros, erano in rapporti di cointeressenze economiche con Pino Lipari, presso il cui ufficio di via De Gasperi, a Palermo, era stato notato più volte il Siino che, dal canto suo, risultava avere avuto frequenti contatti telefonici con l’ingegner Bini, rappresentante per la Sicilia della Calcestruzzi s.p.a. di Raoul Gardini. Questa società possedeva metà del capitale sociale della s.r.l. FINSAVI, di cui era socio fondatore e azionista anche il predetto Antonino Buscemi, e aveva partecipazioni anche nella CISA di Udine, la quale, secondo le risultanze della indagine del Ros, aveva costituito, per la realizzazione di taluni lavori, delle associazioni temporanee con le imprese dell’affiliato Cataldo Farinella.

Sempre nell’ordinanza della Loforti, viene ricordato che si parla degli stessi Buscemi menzionati nella richiesta di archiviazione di “Mafia-appalti” di luglio 1992. In questa richiesta, riferendosi ad Antonino Buscemi, fratello di Salvatore (considerato capo del mandamento di Passo di Rigano o Boccadifalco), si afferma che non risultava coinvolto in alcuna attività dell’associazione mafiosa sotto indagine, né in altri specifici fatti illeciti. Tuttavia, sempre secondo la giudice, questa valutazione sembra trascurare un’analisi critica di potenziali indizi, come le partecipazioni societarie precedentemente indicate. Queste, infatti, erano correlate alle imprese che i Ros avevano segnalato come coinvolte nel meccanismo illecito di distribuzione degli appalti. Inoltre, non si è considerata l’eventuale rilevanza degli elementi in base ai quali sia Antonino Buscemi che Pino Lipari (anche lui nella richiesta di archiviazione) erano già stati considerati indiziati del reato di associazione mafiosa in un precedente procedimento. La vicenda, tuttora complessa e controversa, potrebbe ora trovare finalmente una soluzione.

Da «Osservazioni casuali» di Luis Badilla
N° 30 (10-17 agosto 2024)

3 ottobre 2019: il Papa nomina Giuseppe Pignatone Presidente del Tribunale dello Stato Città del Vaticano. Le chiacchiere di cinque anni fa ora sono formali gravi accuse contro l’ex Procuratore di Roma.

Le accuse della giustizia italiana di Caltanissetta contro l’ex Procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, sono una questione molto seria per il Vaticano, in particolare per le molte inchieste e sentenze che portano la firma di questo giurista. Sono affari imbarazzanti per Papa Francesco che nei giorni della nomina di Pignatone ne andava fiero.

Becciu, Pignatone e Francesco

L’ex Procuratore era un’icona di ciò che il Pontefice voleva trasmettere: sono il Papa capace di pulire e fare giustizia e quindi che non teme far sedere nel suo Tribunale un giudice di ferro. Eppure Francesco era a conoscenza della storia che è venuta fuori in questi giorni in modo eclatante. L’affare Pignatone oggi, non perché colpevole (innocente fino a prova contraria), è per il Pontefice una questione di opportunità, soprattutto nel caso del processo e condanna inflitta al cardinale Angelo Becciu e nel corso del quale Pignatone ha agito senza limite perché consapevole, con altezzosità, di essere il giudice di un sovrano.

Il 16 dicembre 2023, il dr. Pignatone aprì la lettura delle sentenze nel processo ‘Becciu + 10’ con queste parole: «In nome di Sua Santità Papa Francesco, il Tribunale composto dai signori Magistrati dr. Giuseppe Pignatone, presidente; prof. Venerando Marano, giudice; prof. Carlo Bonzano, giudice; invocato il Santissimo Nome di Dio per essere illuminato sulle proprie decisioni».

Da allora sono passati 8 mesi e ancora il card. Becciu, la Chiesa tutta e l’opinione pubblica aspettano il testo completo e integrale delle motivazioni di queste sentenze.

Settimane fa, al Corriere della Sera [Intervista di Massimo Franco, 20 giugno 2024 [QUI]], alla domanda su quando arriveranno queste attese motivazioni il Cardinale Becciu rispose: «Non lo so e risulta difficile prevederlo».

“Sono passati trentadue anni, ma lo ricordo come fosse ieri – dice Antonio Ingroia, all’epoca sostituto procuratore a Palermo. Al termine di una movimentata riunione nella stanza del procuratore Pietro Giammanco, Paolo Borsellino si avvicinò a Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, e disse: ‘Voi due non me la raccontate giusta sul dossier mafia e appalti’. Sono parole pesanti quelle riportate e pronunciate dall’ex Pubblico ministero di Palermo Antonio Ingroia (Diverse testate italiane del 9 agosto 2024).

Un intreccio che con le accuse a Pignatone fa male al Vaticano Ingroia aggiunge: “Giovanni Brusca [mafioso pentito] mi disse che il dottor Pignatone era in rapporti con uomini di mafia di peso, che era disponibile verso Cosa Nostra. Disse che lo aveva saputo da Totò Riina. Trasmettono i verbali alla procura di Caltanissetta dove vennero archiviati”. Poi osserva: Pignatone, “che come magistrato era l’antitesi di Giovanni Falcone, che lo osteggiò in ogni modo, e che paradossalmente è stato raccontato per decenni dai giornaloni come l’erede di Falcone”. (…)

Perché non si dimette Pignatone?

Anche Ingroia trova sconcertante che Pignatone, “convocato dai Pm di Caltanissetta, si sia rifiutato di rispondere, e ancora più sconcertante che continui a presiedere il tribunale vaticano”. Poi osserva: “si sono dimessi ministri per molto meno”. Ma è contento che la congiura del silenzio stia schiantandosi. E che magari si trovi un perché ad altri misteri di quegli anni: “Quando arrivò una segnalazione che sarebbero stati uccisi Antonio Di Pietro e Paolo Borsellino, Di Pietro venne prelevato dai servizi e portato al sicuro in Costarica. Borsellino invece non venne nemmeno avvisato, e lo lasciarono a Palermo in pasto ai suoi carnefici. Perché?”.

Ora anche Ingroia accusa Pignatone: “Era in rapporti con i boss della mafia”
L’ex pm di Palermo attacca il magistrato (oggi in Vaticano) che è indagato in Sicilia con l’ipotesi di aver favorito i clan
di Luca Fazzo
Il Giornale, 9 agosto 2024

Dice Antonio Ingroia: «Giovanni Brusca mi disse che il dottor Pignatone era in rapporti con uomini di mafia di peso, che era disponibile verso Cosa Nostra. Disse che lo aveva saputo da Totò Riina. Trasmettemmo i verbali alla procura di Caltanissetta dove vennero archiviati».

Se c’erano ancora dei dubbi sulla virulenza dell’uragano che sta scuotendo la magistratura intorno al «caso Pignatone», a fugarli arrivano le dichiarazioni di un ex pubblico ministero che è stato anche lui un’icona dell’Antimafia, fino allo sfortunato sbarco in politica. Ingroia era in Procura a Palermo, era con Paolo Borsellino a Marsala. Conosce bene sia Pignatone che il suo vice Gioacchino Natoli, magistrati di punta dell’antimafia a Palermo. E che entrambi siano sotto inchiesta per favoreggiamento alla mafia sembra non stupirlo affatto. Soprattutto per quanto riguarda Pignatone, «che come magistrato era l’antitesi di Giovanni Falcone, che lo osteggiò in ogni modo, e che paradossalmente è stato raccontato per decenni dai giornaloni come l’erede di Falcone».

Pignatone – che da Palermo è approdato prima a Reggio Calabria e poi a Roma, e che oggi presiede il tribunale del Vaticano – è indagato per avere aiutato Cosa Nostra e il gruppo Ferruzzi, quello di Raul Gardini, a insabbiare l’indagine dei carabinieri del Ros su «Mafia Appalti», quella che svelava i rapporti dei clan corleonesi con la grande azienda del nord. Fu quella inchiesta il movente della morte di Paolo Borsellino, che avrebbe voluto portarla avanti. E a voler affossare l’inchiesta a tutti costi fu il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, di cui nel 1992 Pignatone era il collaboratore più fidato.

Non fu, dice Ingroia, un semplice errore di valutazione. Il problema è che Giuseppe Pignatone di quella indagine non avrebbe dovuto occuparsi perché toccava direttamente la sua famiglia. «L’indagine – spiega Ingroia – riguardava imprenditori mafiosi che avevano avuto a che fare direttamente con suo padre. Il padre di Pignatone [QUI] era un ras della politica siciliana, un uomo vicino a Salvo Lima e quindi alla corrente andreottiana. Nelle carte che mandammo senza risultato a Caltanissetta c’era anche la storia degli appartamenti che i costruttori mafiosi oggetto dell’inchiesta Mafia-Appalti avevano venduto a prezzi ridottissimi, sostanzialmente regalati, alla famiglia Pignatone. Tra questi c’era quello di cui godeva il dottor Pignatone e dove credo abiti tuttora».

È lì, in questo incredibile coacervo di interessi mafiosi, imprenditoriali e giudiziari che ora – con la fatica dei trent’anni trascorsi – i nuovi capi della procura di Caltanissetta cercano la spiegazione della strage di via d’Amelio. Ingroia, va ricordato, la spiegazione l’aveva cercata da tutt’altra parte, nella inesistente trattativa tra Stato e Mafia, indagando Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e i carabinieri del Ros. E nonostante le assoluzioni in massa dei suoi indagati non demorde, «può darsi che ci sia stata una convergenza di moventi» nell’uccisione di Borsellino. Ma che il vero segreto custodito da Falcone portasse verso Raul Gardini e non a Berlusconi, ora ne è certo anche lui: «Quando Giovanni disse adesso la mafia investe in Borsa” parlava del gruppo Ferruzzi».

Anche Ingroia trova sconcertante che Pignatone, convocato dai pm di Caltanissetta, si sia rifiutato di rispondere, e ancora più sconcertante che continui a presiedere il tribunale vaticano, «si sono dimessi ministri per molto meno». Ma è contento che la congiura del silenzio stia schiantandosi.

E che magari si trovi un perché ad altri misteri di quegli anni: «Quando arrivò una segnalazione che sarebbero stati uccisi Antonio Di Pietro e Paolo Borsellino, Di Pietro venne prelevato dai servizi e portato al sicuro in Costarica. Borsellino invece non venne nemmeno avvisato, e lo lasciarono a Palermo in pasto ai suoi carnefici. Perché?».

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