Mario Marazziti: gli anziani sono la memoria del futuro

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Oggi si celebra la IV giornata mondiale dei nonni e degli anziani con il tema tratto dal salmo 71 ‘Nella vecchiaia non abbandonarmi’, in cui si sottolinea come la solitudine sia l’amara compagna della vita di tanti anziani che, spesso, sono vittime della cultura dello scarto, valorizzando la preghiera di invocazione, come ha scritto nel messaggio per la giornata: “Dio non abbandona i suoi figli, mai. Nemmeno quando l’età avanza e le forze declinano, quando i capelli imbiancano e il ruolo sociale viene meno, quando la vita diventa meno produttiva e rischia di sembrare inutile.

Egli non guarda le apparenze e non disdegna di scegliere coloro che a molti appaiono irrilevanti. Non scarta alcuna pietra, anzi, le più ‘vecchie’ sono la base sicura sulla quale le pietre ‘nuove’ possono appoggiarsi per costruire tutte insieme l’edificio spirituale. La Sacra Scrittura, tutta intera, è una narrazione dell’amore fedele del Signore, dalla quale emerge una consolante certezza: Dio continua a mostrarci la sua misericordia, sempre, in ogni fase della vita, e in qualsiasi condizione ci troviamo, anche nei nostri tradimenti”.

Quindi nell’anno di preparazione al Giubileo, papa Francesco ha scelto di dedicare alla preghiera il tema di questa Giornata attraverso l’invocazione di un anziano che ripercorre la sua storia di amicizia con Dio.

Per comprendere meglio il messaggio di questa Giornata abbiamo colloquiato con lo scrittore e giornalista dott. Mario Marazziti, componente della Comunità di Sant’Egidio, partendo proprio dal titolo del tema (‘Nella vecchiaia non abbandonarmi’): per quale motivo papa Francesco riprende questa invocazione del salmista nel messaggio?

“E’ un’invocazione chiara. Come quella, estrema, di Gesù sotto la croce: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’ (Mt 27,46). Ma è anche una condizione storica. Moltissimi anziani in istituti anonimi, a casa da soli, vivono questa condizione di espropriazione da sé, dalle proprie cose, dalla possibilità di condividere le proprie paure e le cose importanti. Come se non esistessero più, mentre esistono. Da questo dipende molto della nostra civiltà, se siamo capaci di riannodare questo rapporto”.

In quale modo gli anziani possono recuperare la ‘gioia’ di vivere?

“Vita è relazione. La ‘quarta età’ porta con sé anche minori forze e la necessità di convivere con le limitazioni di tante malattie croniche. Ma la vita e la felicità sono relazione. La vecchiaia rende tutto essenziale. Anche le relazioni si purificano, diventano gratuità, affetto ‘assoluti’, se si conta per qualcuno. Gli anziani più validi possono rompere la solitudine degli altri, visitandoli, a casa e in istituto. E poi il rapporto con i nipoti, la visita dei nipoti, che percepiscono questo amore pulito, diverso dai bellissimi ma a volte conflittuali rapporti con i genitori. Qui c’è una chiave del futuro, e di un futuro capace di memoria e trasmissione di quello che conta, diverso dalla civiltà ‘digitale’, che è tutta nel presente e nell’attimo”.

Nel messaggio il papa ha presentato il racconto di Rut: quale rapporto è possibile instaurare tra giovani ed anziani?

“La storia dell’anziana Noemi che è pronta a morire da sola e senza mezzi pur di dare un futuro alla giovane nuora Rut, che è anche una straniera, è un paradigma. E’ un doppio insegnamento, per una ‘controcultura’ capace di contrastare la solitudine e l’abbandono. Ce la spiega papa Francesco: ‘Rut, non si stacca da Noemi e le rivolge parole sorprendenti: Non insistere con me che ti abbandoni’ (Rut 1,16). Non ha paura di sfidare le consuetudini e il sentire comune, sente che quell’anziana donna ha bisogno di lei e, con coraggio, le rimane accanto in quello che sarà l’inizio di un nuovo viaggio per entrambe. A tutti noi (assuefatti all’idea che la solitudine sia un destino ineluttabile) Rut insegna che all’invocazione ‘non abbandonarmi!’ è possibile rispondere ‘non ti abbandonerò!’ Non esita a sovvertire quella che sembra una realtà immutabile: vivere da soli non può essere l’unica alternativa!”

Ed in quale modo gli anziani possono trasmettere la fede ai giovani?

“Per molti giovani Gesù, quando lo incontrano, amico e amore incondizionato, ha un fascino dirompente. Ma sono quasi sempre ignari del Vangelo e di come incontrarlo. C’è un vuoto in mezzo, una generazione, come se questa fosse una lingua straniera. I nonni hanno l’autorevolezza della vita, le loro parole e gesti hanno la forza della verità e dell’affetto. Possono loro trasmettere l’alfabeto della preghiera, il calore del Vangelo, anche attraverso il loro attaccamento alla preghiera”.

Gli anziani possono essere ‘protagonisti’ del futuro?

“Gli anziani costituiscono una riserva d’anima anche per il futuro, nella generazione dei giovani. Al tempo stesso rappresentano una occasione per aiutare un mondo travolto dalla pandemia dell’individualismo e dell’indifferenza per rientrare in sé stesso. Perché una società che si costruisce a misura degli anziani e dei deboli diventa vivibile, calda, umana per tutti. Ci sono due pandemie non dichiarate per le quali non c’è una mobilitazione generale per arrivare presto a un vaccino: l’individualismo, che attraversa credenti e non credenti, quasi fosse l’unica religione condivisa, e la solitudine. Di solitudine ci si ammala. Se siamo capaci di rifiutare la via dello ‘scarto’ per i 14.000.000 di anziani in Italia (ma lo saremo tutti) per un intero pianeta di anziani nel mondo, ci sarà un futuro. Loro stessi, nella solidarietà e nella relazione, nella capacità di sacrificio per gli altri, indicano la via del futuro”.

Per quale motivo è sorta una fondazione denominata ‘Età grande’?

“La Fondazione Età Grande vuole aiutare a costruire una visione: un mondo capace di fare degli anni in più non una maledizione, ma una benedizione. Per diffondere una nuova cultura e dare cittadinanza a un mondo di esclusi, a cui dobbiamo tutto, che è descritto come concorrente dei giovani. Da questa controcultura, come è la risposta resiliente di Rut, nascono anche le politiche, una organizzazione sociale e delle città incentrate sulla casa, la prossimità, i rapporti tra le generazioni, l’inclusione delle diversità e delle debolezze, la ricostruzione delle comunità.

Avremmo potuto capire dopo la pandemia: ‘siamo sulla stessa barca’.

Ma sembra che chi non è ancora anziano pensi sempre di avere un’altra barca e un altro destino. Nella pandemia di Covid-19 più del 40% di tutte le vittime della prima ondata, in Italia, in Spagna, in Europa, in Occidente, sono stati anziani in un qualche istituto. La casa da sola, senza servizi, senza medici, di per sé, ha protetto la vita di un anziano ricoverato 15 volte di più.  Questo doveva innescare un cambiamento radicale di tutto il welfare per gli anziani, creando modelli di prossimità, forme innovative di ‘co-housing’, piccole residenze assistite, un ‘continuum’ di servizi socio-assistenziali a rete centrati sulla casa, assistenza domiciliare sociale e sanitaria integrata, moltiplicando le dimissioni ospedaliere protette, visto che la maggior parte di patologie sono croniche, non acute.

Gli studi che dimostrano che la solitudine raddoppia, a parità di patologie croniche, il rischio di morte sono tanti. In Italia un passo avanti è la legge 33/2023, una svolta storica, che indica queste azioni almeno come percorso integrativo di welfare, ma è ancora sotto-finanziata. Può essere l’avvio di una contro-cultura e di un ripensamento. E poi c’è la Carta dei diritti dell’Anziano, che la Fondazione ‘Età Grande’ comincia a far circolare anche in Europa. Sono punti di partenza, da diffondere”.

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