Mons. Crociata: superare gli ‘orizzonti ristretti’ del carcere

Condividi su...

Con la santa messa celebrata dal card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della CEI, si è concluso a Sacrofano (Roma) il Convegno Nazionale dei Cappellani delle Carceri Italiane sul tema: ‘Giustizia: pena o riconciliazione’, al quale ha partecipato anche il segretario generale della CEI, mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, che ha trattato il tema ‘Educare alla vita buona in Cristo: i volti nella giustizia’.

Il convegno ha tracciato le prospettive per i prossimi anni, sviluppando momenti più intensi di accompagnamento spirituale affidati ad un cappellano e cercando di rivisitare la pastorale penitenziaria alla luce del cinquantesimo del Concilio Vaticano II e del progetto pastorale della CEI, ‘Educare alla vita buona in Cristo’.

Nella relazione mons. Crociata ha sottolineato che il Convegno ha toccato un ambito significativo della pastorale ecclesiale, quello dell’assistenza spirituale ai reclusi: “Ad essi deve essere prestato l’aiuto necessario a sopportare la pena loro inflitta, vivendola come un periodo di ravvedimento e di ripresa. Il tempo del carcere può e deve essere impostato come un tempo educativo e rieducativo, nel quale la detenzione e la pena subita si integrino in un percorso complessivo di crescita della persona, dal punto di vista umano e cristiano”.

Dopo aver sottolineato che questo argomento possa essere marginale nella società in quanto ‘non sarebbero da assicurare condizioni di vita dignitose e realmente riabilitanti’, il presidente della Cei ha evidenziato che non si trattano di persone ‘di serie B’, “ma sovente di uomini e donne che, pur essendosi macchiati di crimini più o meno gravi, hanno vissuto sofferenze e difficoltà, e ora hanno bisogno di comprensione e dell’appoggio della società per potersi rialzare e reinserire nelle normali relazioni sociali. Non è ammissibile che migliaia di persone vivano quasi dimenticate per lunghi periodi, abbandonate a una sofferenza che potrebbe in parte essere alleviata e che non è certo il fine della detenzione”.

Per questo i cristiani e la Chiesa devono esercitare il dovere ‘primario’ della carità come valore missionario: “Chi è raggiunto dalla carità dei credenti fa sempre esperienza della vicinanza del Signore e della presenza della Chiesa. Chi visita i fratelli che si trovano in carcere deve essere mosso da questo stesso sentimento divino, cioè dalla compassione che il Signore ha avuto e ha per noi, dal sentire ciò che lui stesso prova, in modo da far percepire a colui che si visita la propria compagnia e la propria empatia. Quando raggiunge questa profondità, la solidarietà con l’altro diventa un balsamo che ne allevia il dolore, o un vino che ne guarisce le ferite”. Ma quale è la pastorale carceraria secondo le tre dimensioni della vita ecclesiale?

“L’opera di assistenza ai detenuti, svolta dai cappellani e dai volontari, si articola secondo i tre ambiti fondamentali di tutta l’azione della Chiesa: il compito profetico, quello sacerdotale e quello regale. La funzione profetica ha come suo centro l’annuncio della parola di Dio e di quanto egli ha compiuto a favore degli uomini nella storia della salvezza. Tale annuncio, in carcere ancor più che nella pastorale ordinaria, non può che partire dall’instaurazione di un sincero rapporto umano, fatto di ascolto e di comprensione. E’ un ascolto che fa proprio l’intreccio di problematiche, speranze, sbagli e sofferenze che il detenuto porta in sé e che trasmette incontrandoci. Il Vangelo allora gli viene trasmesso prima di tutto con i gesti, con il sorriso e un ascolto attento”.

Quindi all’interno del carcere è importante la creazione di gruppi di lettura del Vangelo, “pur se spesso coinvolgono solo pochi detenuti, offrono la possibilità di commentare le letture domenicali o altri testi della Sacra Scrittura, confrontando la propria vita con la Parola rivelata. Tale iniziativa ha un grande valore pastorale e educativo; va pertanto incoraggiata e incentivata, soprattutto attraverso la collaborazione di laici competenti. Illuminato dal Vangelo,chi è in carcere, come ogni credente, può porre in atto un esercizio di rilettura della propria vita, sulla scia dell’esempio di Gesù e della sua parola. L’ascolto della Parola tende alla celebrazione dei sacramenti e confluisce in essa. In questo è centrale il compito insostituibile del cappellano, aiutato dai volontari, che invitino i detenuti ai momenti di preghiera e ne predispongano lo svolgimento”.

L’ascolto della Parola implica la partecipazione eucaristica domenicale: “L’Eucaristia domenicale deve connotarsi anche in carcere come la fonte e il culmine della propria vita. Anche chi vive in carcere deve essere aiutato a fare di essa il fulcro della settimana, portandovi il proprio ringraziamento, le proprie richieste, la domanda di perdono e di intercessione. La Messa non può ridursi a mera celebrazione del rito, ma acquista un carattere formativo, consolatorio ed educativo, quanto più è svolta con la partecipazione di religiosi, di volontari o di gruppi giovanili che animano il canto. Se vissuta in modo intenso e come un vero momento di preghiera e incontro con Dio, il tempo della Messa domenicale diventa un importante riferimento per tutta la settimana”.

Il terzo compito della pastorale carceraria riguarda l’accompagnamento quotidiano ai carcerati: “Questo servizio è sintetizzato nel gesto di Gesù che, chinatosi sui discepoli, lava loro i piedi in segno di totale dedizione. E’ il gesto compiuto in modo estremamente significativo da papa Francesco all’inizio del suo pontificato, quando nella Messa in Coena Domini del Giovedì santo scorso ha lavato i piedi ai ragazzi dell’Istituto penale per minori Casal del Marmo di Roma”.

Questi tre momenti aiutano ad educare alla vita buona nella libertà e nella giustizia: “La pastorale deve accompagnare il ‘trattamento rieducativo’, offrendo il suo apporto specifico e contribuendo a generare, nelle persone di cui si prende cura, la vita buona che nasce dal Vangelo. Purtroppo, le condizioni di vita all’interno del carcere rendono spesso molto difficoltosa l’attuazione di percorsi realmente rieducativi. In questo senso, chi opera nei penitenziari è chiamato a vigilare sull’ambiente di vita dei detenuti e, quando necessario, a sollecitare le autorità competenti.

La pastorale carceraria non può dirsi adeguata se non assume quella mediazione antropologica all’interno della proposta cristiana specifica, sia in ordine alla catechesi che in ordine alla preparazione e celebrazione dei sacramenti. L’accompagnamento nella crescita verso la pienezza della vita buona si realizza, anche nei confronti di chi è in carcere, secondo le due linee della crescita nella vita di fede e in quella umana”. Quindi il compito del cappellano è quello di generare il detenuto alla speranza e proporre percorsi di santità:

“Se fuori il tempo non basta, dentro è sempre troppo. Per questa ragione, chi si trova nella detenzione deve essere aiutato a non vivere ‘come se il tempo del carcere gli fosse irrimediabilmente sottratto: anche il tempo trascorso in carcere è tempo di Dio e come tale va vissuto; è tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione e anche di fede’. Anche quello del carcere è un tempo da sfruttare e che non ritornerà”. Citando l’esempio del patrono, san Giovanni da Capestrano, mons. Crociata ha concluso l’intervento, esortando i cappellani a seguire il detenuto anche nella società civile:

“Spesso, dopo lunghe degenze, non si è più abituati ai ritmi della vita della società, alla sua velocità e alle sue logiche, e si fatica a reinserirsi e a evitare di ritornare sugli errori commessi in passato. Per questo la pastorale carceraria si estende anche al tempo seguente: senza abbandonare a se stesso chi lascia il penitenziario, chi vi è impegnato deve seguirlo e facilitarne la ripresa nella vita normale”.

151.11.48.50