L’insultocrazia, un estrinsecarsi della capocrazia con il suo quasismo e inciucio. La sconfitta dell’illegalità al “Cuore Verde” di Caivano

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 01.06.2024 – Vik van Brantegem] – A giorni dallo scambio di “battute” tra il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, si continua a commentare quanto accaduto a Caivano, con una schiera di opinionisti in televisioni, esponenti politici e semplici cittadini sui social, desiderosi di comunicare la propria posizione riguardo a questo episodio. È il giorno dell’inaugurazione presso il Parco Verde del Centro sportivo di Caivano, ma la giornata anti-camorra qui è passata in secondo piano [1].
L’accaduto – per ricostruire la vicenda – è la replica in differita all’insulto rivolto dal De Luca tre mesi fa all’indirizzo della Meloni, quando catturato dalla telecamera di Tagadà su La7 alla Camera, diceva: «Lavora tu, stronza!». Il riferimento era alla Meloni che dalla Calabria gli aveva detto: «Se si lavorasse invece di fare le manifestazioni si potrebbe ottenere qualche risultato in più».
Il siparietto di Caivano, ben ripreso dallo staff del Presidente del Consiglio, è stato subito rilanciato dal sito di Atreju, con lo slogan: “Giorgia insegnaci la vita”. Invece, qui – eliminando residuali margini di ambiguità di questo “Partito della libera ingiuria” trasversale – ci vengono insegnati in televisione le male parole, gli insulti, le scurrilità, le offese personali, che diventano addirittura linguaggi di governo, usato dai rappresentanti delle istituzioni dello Stato – il vertice della capocrazia [2], esponenti dell’insultocrazia – a livello nazionale e a livello regionale. Siamo allo scontro delegittimante nel momento in cui certe espressioni “culturali” non si riconoscono nel patto costituente. Il tutto accompagnato dal quasismo (che crea delle maschere deforme delle istituzioni), e dell’inciucio (quella del partito avverso che è sempre peggiore del proprio).

Open ha raccontato che dietro il video della stretta di mano c’è una scena pianificata nei dettagli. Filmata dal Capo Ufficio Stampa di Meloni, Fabrizio Alfano. La Repubblica ha spiegato che la scena della «stronza della Meloni» era una trappola costruita dallo staff, che fin dal mattino aveva preavvertito i giornalisti che la Meloni avrebbe reagito allo sgarbo di De Luca. E infatti, è andato esattamente così. La scena è blindata ma viene catturata da un video. Anzi, da più di uno osserva la Repubblica. Alfano riprende con il suo cellulare in verticale, accanto a lui c’è un cameraman. Subito dopo c’è da registrare la reazione al vetriolo del De Luca: «A Caivano ha dimostrato la sua vera identità, non possiamo che concordare. È un caso che questo evento accada a pochi giorni dal voto? È un puro caso…».
Per riflettere sulla questione, riportiamo Il Manifesto della comunicazione non ostile per la Pubblica Amministrazione [QUI], il progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole promosso dall’associazione Parole O_Stili, per evidenziare la necessità di non usare né accettare il linguaggio d’odio (cosiddetto “hate speech”), privilegiando invece un linguaggio inclusivo, per educare al rispetto della dignità umana ed essere accettati, credibili e autorevoli anche nel web. Seguono le opinioni di Isaia Sales di ieri su Repubblica.it e di Tommaso Labate di oggi su Corriere.it.

Gli insulti non sono argomenti
Il Manifesto della comunicazione non ostile
per la Pubblica Amministrazione
Pensato per la gestione dei rapporti tra cittadini e pubbliche amministrazioni, è uno strumento per aiutare concretamente a definire poche e semplici regole che consentano di instaurare un dialogo “non ostile”, primo vero presupposto per la partecipazione civica. Questo Manifesto è il frutto di un lavoro di partecipazione collettiva a cui hanno contribuito tutte le organizzazioni della società civile e le amministrazioni impegnate nell’attuazione del terzo action plan italiano per l’open government.
1. Virtuale è reale – Non c’è buona amministrazione senza buona comunicazione. Investo le migliori energie perché la mia comunicazione online e offline sia semplice, accessibile, comprensibile, trasparente, cortese. So che quanto scrivo in Rete ha conseguenze reali.
2. Si è ciò che si comunica – So che l’azione amministrativa risulta tanto più efficace quanto più efficacemente la comunico: i cittadini hanno il diritto di accedere con facilità e fiducia a dati, documenti, informazioni e servizi, di essere coinvolti nelle scelte, di capire e verificare il mio operato.
3. Le parole danno forma al pensiero – Evito le formule astruse. Il burocratese vessatorio. I termini inglesi fuorvianti. So che capire è diritto di ogni cittadino. Se la mia espressione è oscura, questo significa che anche il mio pensiero e la mia azione non sono chiari e trasparenti a sufficienza. Incoraggio il dialogo.
4. Prima di parlare bisogna ascoltare – Ascolto le opinioni e i suggerimenti dei cittadini. Scelgo la collaborazione e attivo canali che favoriscano un dialogo costruttivo e civile. Se un dubbio o un quesito viene espresso, rispondo con tempestività. Se un disagio viene manifestato, mi interrogo su cause e rimedi.
5. Le parole sono un ponte – Scelgo parole e strumenti adatti a dialogare con tutti i cittadini, compresi anziani, stranieri, persone poco scolarizzate. Verifico che quanto dico o scrivo venga capito dai cittadini. È mia responsabilità farmi capire, favorendo una comunicazione positiva e propositiva.
6. Le parole hanno conseguenze – Sono consapevole del fatto che ogni mio messaggio e ogni mia azione hanno conseguenze concrete e rilevanti per la quotidianità dei cittadini. Sono accessibile, informo, semplifico, rendo chiari gli adempimenti e le procedure.
7. Condividere è una responsabilità – Quanto condivido in rete influisce sulla percezione del mio operato. Aggiorno informazioni e dati. Li rendo reperibili, se possibile in formato aperto. Non diffondo messaggi fuorvianti o poco trasparenti. Informo i cittadini sui loro diritti: conoscenza, privacy, sicurezza.
8. Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare – Il rispetto reciproco è il fondamento della convivenza civile e migliora la collaborazione e la partecipazione. Faccio sì che ogni mia comunicazione sia rispettosa dei cittadini nella forma e nella sostanza, e promuovo presso la collettività una cultura del rispetto.
9. Gli insulti non sono argomenti – Gli insulti sono umilianti sia per chi li riceve, sia per chi li fa, sia per chi ne è spettatore. Invito chi insulta a esprimere altrimenti la propria opinione. Non tollero insulti, nemmeno quando vanno a mio favore. Diffondo una netiquette per il buon uso dei miei canali online.
10. Anche il silenzio comunica – So che l’attenzione e il tempo dei cittadini sono preziosi e valorizzo la brevità. Comunico solo per motivi funzionali: per promuovere consapevolezza e partecipazione e mai per ragioni propagandistiche. La mia comunicazione è sempre utile, necessaria e pertinente.
Meloni, De Luca e l’era dell’insultocrazia
di Isaia Sales
Repubblica.it, 31 maggio 2024
Siamo entrati appieno nell’era della insultocrazia. Non nel senso che solo ora gli insulti, la scurrilità, l’offesa personale vengono usati abitualmente nella lotta politica, ma che essi diventano addirittura linguaggi di governo, usati cioè dai rappresentanti delle istituzioni dello Stato, nella fattispecie un Presidente del Consiglio dei Ministri e un Presidente di Regione.
Siamo entrati nell’età del turpiloquio di governo. Ci si parla tra le istituzioni attraverso le “maleparole”, il dialogo assume il carattere di violenza verbale, di sberleffo belligerante che si sostituisce alla divisione ideologica di un tempo. Con il risultato che coloro che si contrappongono in maniera così totale al fondo si somigliano. Comune è la volgarità, l’eccesso verbale, la normalizzazione del “troppo” (scriverebbe Filippo Ceccarelli), la dismisura nell’offesa.
Una specie di tramonto bipartisan della vergogna. Quasi a volere plasticamente dimostrare quali sono i pericoli di un’Italia futura nel concedere più poteri al presidente del Consiglio e alle Regioni
E se Michele Ainis me lo permette, l’insultocrazia non è che un estrinsecarsi della “capocrazia”, l’efficace espressione che egli ha usato come interpretazione di questa fase politica nella quale tra le prerogative dei capi (di partito e di governo) sembra essere contemplata la libertà di offendere, di ridicolizzare gli avversari, di umiliarli, riducendoli a cose, animali, oggetti fecali, di oltraggiarli attraverso i loro presunti difetti fisici.
Non si è capi se non si è brutali e capaci di dileggiare, se non si è disposti a un livello quotidiano di trivialità in cui però il coraggio si confonde con la vigliaccheria.
Insomma, nell’epoca della capocrazia l’offesa sembra essere una imitazione codarda del coraggio. Chi offende è un vigliacco coraggioso, un colto volgare, un raffinato plebeo, un esteta dell’ingiuria. Come se venisse incorporato nel potere dei nostri tempi la libertà di degradare l’avversario, ferirlo, eliminarlo con il peso delle parole che diventano pietre di scurrilità.
Perciò Meloni e De Luca dovrebbero riconoscere il loro debito al capo della scurrilità raffinata, dell’offesa creativa, cioè a Vittorio Sgarbi. Insieme potrebbero dare vita al Partito della libera ingiuria (nuovo Pli) che avrebbe un grande seguito nell’Italia di oggi.
Il trionfo del liberalismo dei nostri tempi non può non riguardare anche la libertà di seguire i propri istinti. Ne parla Filippo Domaneschi nel libro Insultare gli altri in cui ricorda come sia tipico dell’infanzia appellare i coetanei per le loro caratteristiche fisiche (cicciona, chiattona, quattrocchi, ecc.), cosa in cui si è distinto in tutta la sua vita politica Vincenzo De Luca.
O di un’eterna goliardia in cui scherzare pesantemente è il modo di tenere insieme il gruppo di cui si fa parte, dal quale di solito emerge come capo colui che diventa il più crudele negli scherzi o il più ardimentoso nel dileggio, perché dicono gli esperti “il cervello sembra gestire l’insulto proprio come un ceffone o un pugno”.
In fondo se la risposta di Meloni a De Luca ha anche il significato di ritorsione, di vendetta a lungo studiata, non potevano che essere gli “amichetti” di Atreju ad averla organizzata. E se nel passato le parole sconce erano un marcatore linguistico delle classi sociali non acculturate e non benestanti, attraverso il quale si manifestava pubblicamente il rancore sociale e l’insoddisfazione per la propria condizione di vita, oggi diventano addirittura linguaggio delle istituzioni, e quando chi ci governa si esprime come noi quando siamo arrabbiati con il mondo, ciò vuol dire che ci rassomiglia ed esprime il nostro stesso sentire. Possiamo definirlo, a ragione, turpiloquio populista.
Meloni, accortasi che qualcosa era andato storto nella sua performance anti-deluchiana ha virato verso una interpretazione anti-sessista del suo gesto. In fondo si è trattato, ha detto, di una reazione per dimostrare che le donne non si fanno più insultare da un bullo istituzionale come De Luca. La sua, dunque, sarebbe una risposta a nome di tutte le donne insultate dagli uomini di potere [3].
Indubbiamente, è un’abile motivazione. Che può diventare credibile visto che quando De Luca l’ha apostrofata nel modo vergognoso che tutto il mondo conosce, nessun dirigente del PD ha avuto il coraggio di dire: “De Luca è estraneo alla cultura politica del PD, gli avversari si rispettano al di là della lotta contro le loro politiche. Non se ne può più delle sue sconcezze”.
Parole semplici e necessarie: perché non sono state pronunciate allora? Eppure, già De Luca ne aveva dette e scritte di tutti i colori contro avversari interni ed esterni, una enciclopedia di sconcezze, che hanno riguardato anche Elly Schlein. In un suo libro ha sostenuto di non poterla riconoscere come Segretario del partito, perché ha tre diverse cittadinanze (italiana, svizzera e americana) e non può garantire “che le posizioni assunte non siano influenzate da fattori estranei agli interessi nazionali”.
Quale offesa più grande si può fare al Segretario di un partito (per giunta, il proprio) che di accusarla di non essere in grado di difendere gli interessi nazionali perché ha studiato in Svizzera e lavorato negli Usa? Salvini non avrebbe potuto esprimersi peggio. Se i dirigenti del PD avessero preso per tempo le distanze da questo personaggio, Meloni avrebbe avuto oggi meno argomenti a difesa del suo gesto.
L’insultificio di De Luca:
«Str…, sfaccendato, uomo di Neanderthal»
di Tommaso Labate
Corriere.it, 1° giugno 2024
Tutti gli epiteti del Presidente della regione Campania Vincenzo De Luca: tra gli obiettivi della sua fabbrica di offese (bipartisan) oltre a Meloni anche Salvini, di Maio e di Battista
«Presidente De Luca, eccomi, sono l’uomo di Neanderthal». Volesse rendergli la pariglia davanti a tutti come ha fatto l’altro giorno Giorgia Meloni, vendicando quello «str..za» in realtà captato da un fuorionda, al cospetto di Vincenzo De Luca Matteo Salvini dovrebbe presentarsi così: piacere, l’uomo di Neanderthal.
Perché così, lontano dalla comfort zone delle sue dirette su Facebook o dei fluviali discorsi che resero celebre ovunque la piccola emittente salernitana (Lira Tv) che li ospitava, il Presidente della Campania scorticò verbalmente il leader della Lega di fronte alla platea degli imprenditori di Cernobbio. Era l’epoca del Carroccio al 35 per cento, il momento in cui Salvini cercava nel salotto buono l’accreditamento giusto per completare il passaggio da forte potere a potere forte. Ci pensò De Luca, tra una tartina e l’altra: «Se vuole fare il ministro, Salvini si deve vestire da cristiano, non da uomo di Neanderthal».
Nella sterminata galleria di epigrafi che, al contrario di Edgard Lee Masters, De Luca ha dedicato a personaggi sempre viventi e quasi sempre politici — che comunque ha dato vita a una sorta di Spoon river del dileggio — Salvini ha sempre avuto un posto in prima fila. Persino quella volta in cui, seguendo il consiglio del governatore campano, si tagliò la barba per risultare istituzionalmente più presentabile. Niente da fare, ironizzò De Luca, «senza barba sembra un capitone». Sempre meglio del triumvirato che guidò una delicatissima fase dei Cinquestelle — Luigi di Maio, Roberto Fico e Alessandro di Battista — archiviato in tre parole: «Tre mezze pippe».
Aperto ventiquattr’ore su ventiquattro e sette giorni su sette, con una leggerissima predilezione per il venerdì delle dirette social, l’insultificio De Luca ne ha sfornate di ogni. Alcune, visto il contesto, anche abbastanza pericolose per l’incolumità politica del destinatario. Di Di Maio, per esempio, disse che era «uno sfaccendato a cui il papà passava la paghetta per pizza e birra»; e, soprattutto, che dal posto di steward dello Stadio San Paolo era stato cacciato «perché portava seccia (sfortuna, ndr), quando c’era lui il Napoli perdeva».
Omaggiando l’antico adagio secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico, Giuseppe Conte l’ha quasi difeso dall’attacco di Meloni; evidentemente dimentico, o forse no, della volta che il presidente della Campania, in piena pandemia, stroncò il celebre punto stampa dell’allora presidente del Consiglio giallorosso tenuto su un tavolino davanti all’ingresso di Palazzo Chigi: «Si è pensato volesse fare un barbecue (…), dicendo “io ci sono e io ci sarò”, come avrebbero detto Totò e Peppino, Conte ci ha chiaramente minacciati».
Minaccioso a sua volta con i cittadini che violavano le regole del lockdown ai tempi della pandemia (il «lanciafiamme» per le feste di laurea oscurò la volta che minacciò di uscire «con una mazza in mano e se vedo uno che sta in giro senza un motivo gli do una botta in testa e lo lascio stecchito per terra»), caustico con gli avversari politici (del berlusconiano Luigi Cesaro disse che era «un oltraggio alla biologia, è una polpetta»), De Luca ha riservato la ferocia vera ai nemici, che seguendo la massima in voga nei partiti comunisti europei del Novecento sono quelli con cui si convive nel medesimo partito. «Ho preso il triplo dei voti che Elena Schlein ha preso alle primarie», disse cambiando il nome della segretaria. Il povero Antonio Misiani, commissario del Pd campano, si beccò la qualifica di «contatore di piccioni a Venezia, come in Tototruffa ‘62». Nulla di paragonabile, non tanto nei toni quanto nei modi, alla stroncatura estetica riservata a Pier Luigi Bersani durante la campagna elettorale del 2013. «Sei un marito morigerato, non hai neanche la creatività di Bill Clinton, ma lo vuoi buttare sto sigaro?».
E ancora, parlando alla platea, sempre riferendosi all’allora segretario del Pd: «Non ha l’andatura di John Wayne, si deve pure fare la convergenza ai piedi perché ce li ha a 45 gradi…». Bersani rise ma poco dopo ci fu la mancata vittoria alle elezioni. Che De Luca, questa volta serio, commentò così: «Ha ragione Bersani quando dice che le sconfitte sono senza padri. Però qualche sigaro di troppo ce l’hai messo anche tu, Pier Luigi, diciamo la verità». E stavolta Bersani non rise più.

All’inaugurazione del Centro sportivo, Don Maurizio Patriciello ha dichiarato: «La gente di Caivano, come le persone di tutto il mondo, le persone perbene, sono contente. I delinquenti sono dispiaciuti. Da quando è arrivata la Compagnia dei Carabinieri al Parco Verde tanta droga non se ne vende più».

[1] Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, al centro sportivo di Caivano, 28 maggio 2024: «Faremo vincere lo Stato sul crimine organizzato». Il Parroco, Don Maurizio Patriciello: «Grazie Giorgia, lo vedo e non ci credo»
Il Parco Verde, Centro sportivo di Caivano, area conosciuta come Centro Delphinia Sporting Club, una struttura abbandonata dove si consumarono abusi sessuali ai danni di due bambine, rimessa a nuovo in nove mesi di lavoro. Sarà intitolato al cantante partenopeo Pino Daniele. Era il 31 agosto scorso quando Giorgia Meloni arrivò per la prima volta a Caivano dopo l’appello del Parroco di San Paolo, Don Maurizio Patriciello: «Sono qui per riportare la presenza dello Stato», disse, assumendosi, tra gli altri, l’impegno di far rinascere il Centro sportivo, divenuto simbolo del degrado.
La nuova struttura verrà gestita dalle Fiamme Oro della Polizia di Stato. Le opere di bonifica e di ristrutturazione sono state svolte dagli uomini del Genio militare dell’Esercito italiano.
Tra le rovine della struttura la scorsa estate sono state compiute le violenze ai danni di due cuginette. Un episodio che portò Don Maurizio Patriciello a lanciare un appello al Presidente del Consiglio dei Ministri, con l’invito a venire al Parco Verde. Le operazioni di recupero sono state condotte dagli uomini del Genio militare dell’Esercito italiano. Si dovrà anche procedere al recupero dell’area teatro, che diventerà una struttura polifunzionale.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, all’inaugurazione del Centro sportivo di Caivano, ha detto: «Benché la sfida di Caivano sia stata una delle mie principali scommesse, una delle principali scommesse del governo, forse non ero preparata stamattina all’emozione e all’impatto della differenza di quello che ci siamo trovati di fronte rispetto a qualche mese fa. Non solo l’impatto visivo ma il messaggio che l’impatto racconta: lo Stato e le istituzioni possono fare la differenza, lo Stato può mantenere i suoi impegni, le istituzioni possono mantenere gli impegni.
Qui le istituzioni si sono comportate come dovrebbero fare sempre. Faremo vincere Stato sulla criminalità organizzata, sul degrado, sull’abbandono e la rassegnazione. Certo che è un imperativo gravoso, ma è quello che gli italiani si aspettano da noi ed è quello che faremo.
Saluto gli atleti qui presenti e non posso non aprire senza fare dei ringraziamenti a tutte le persone che hanno dato un contributo di buona volontà per questa scommessa che avevamo fatto e particolarmente Don Maurizio Patriciello, perché senza la sua insistenza e la sua determinazione tutto questo non sarebbe iniziato.
Voglio dire senza polemica al Presidente De Luca che ieri ha parlato di una passeggiata del governo che se tutte le volte che la politica passeggia portasse questi risultati avremmo sicuramente una politica più rispettata dai nostri cittadini, quindi continueremo a passeggiare».
«Io non ho mai rinnegato la lingua napoletana. Io stamattina o vec e nun o crer, cioè fatico a crederlo. Dopo il mio appello a Giorgia Meloni nella mia parrocchia è venuto mezzo governo, non ci avrei scommesso un euro ma è successo», ha detto Don Maurizio Patriciello, nel corso del suo intervento a Caivano alla presenza di Giorgia Melone, alla quale si rivolge per nome dandole del tu: «Lo farò solo per oggi, ho avuto il permesso, poi riprendo a chiamarla Presidente».

[2] Capocrazia. Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno di Michele Ainis (La nave di Teseo 2024, 208 pagine [QUI]).
Il presidenzialismo è la grande riforma annunciata dal governo Meloni, che potrebbe realizzarsi in questa legislatura dopo decenni d’attese e di dibattiti. Già, l’Italia è un paese che ama le rivoluzioni ma affossa le riforme, come hanno imparato a proprie spese molti leader nostrani, da Berlusconi a Renzi. Sennonché il presidenzialismo ha le sue forme, i suoi modelli (sono tre). Noi rischiamo viceversa di crearne una maschera deforme. Perché siamo la patria del “quasismo”, e allora ci inventiamo una riforma quasi presidenziale, quasi parlamentare. Che rafforza il peso del presidente del consiglio indebolendo i contrappesi, dal parlamento al capo dello stato. D’altronde ne abbiamo collezionate tante, di riforme pasticciate. Niente di nuovo sotto il sole. La verità è che un presidenzialismo sgangherato ce l’abbiamo già: è la capocrazia che domina la vita dei partiti, divenuti feudi d’un principe circondato da mille cortigiani; è il potere solitario dei sindaci e dei governatori; è l’abuso decisionista dei decreti legge da parte del governo di turno; è una legge elettorale che ci rende spettatori, confiscando la nostra libertà di decidere gli eletti. Per riportare ordine in questa democrazia malata, bisogna riprendere in mano la Costituzione, denunciarne i tradimenti. E in ultimo interpellare gli Italiani, come accadde con i padri costituenti: giganti che guardiamo ormai da troppo lontano.
[3] «Qual è il messaggio che noi stiamo dando? Che le donne si possono insultare liberamente perché sono deboli? Sveglia femministe, sveglia femministe!», ha dichiarato Giorgia Meloni a Dritto e rovescio su Rete 4, in seguito alla polemica. E il 31 maggio è ritornata sul tema, pubblicando un video su X, estratto dal collegamento della sera precedente, in cui dice: «Sono stata insultata e mi sono difesa. E a questo certa sinistra ha risposto con un evidente doppiopesismo e con tutta la sua ipocrisia. Quando sono stata insultata non hanno speso mezza parola, e adesso si indignano perché mi sono difesa senza insultare nessuno. Da quando siamo al Governo la sinistra sta tirando fuori la sua vera natura. Persone che usano due pesi e due misure su qualsiasi cosa, che ritengono di essere superiori agli altri e di avere maggiori diritti degli altri. Mi dispiace per Elly Schlein, alla quale avevo chiesto, quando fui insultata da De Luca, di dire qualcosa, perché non ebbe il coraggio di dire niente. Si commenta da solo il fatto che non ha il coraggio che ci si aspettava da lei per cambiare le cose, come leader e come donna».