Dante e l’Islam. Il libro dell’arabista Miguel Asín Palacios e l’insulso caso Treviso

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 01.06.2024 – Vik van Brantegem] – Chi conosce il testo Dante e l’islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia, l’opera maggiore e la più universalmente nota, dell’arabista spagnolo Miguel Asín Palacios (Editrice Luni 2015, 685 pagine, traduzione di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik, con l’Introduzione di Carlo Ossola [QUI]) – fa fatica a sopportare l’ignoranza, non tanto e non solo di alcuni studenti e le rispettive famiglie, ma dei docenti e dell’istituzione scolastica, che dovrebbero educarli.




Pubblicata originariamente nel 1919 dal titolo La escatologia musulmana en la Divina Comedia, è una delle poche opere-guida nella produzione erudita europea del ventesimo secolo. Nelle sue pagine, ricche – come scrive Carlo Ossola nell’Introduzione – di un «mirabile, e inesausto, repertorio di fonti, paralleli, analogie, somiglianze», la visione escatologica dantesca viene paragonata sistematicamente con altri immaginari regni ultraterreni descritti in opere letterarie e religiose arabe. L’ascensione di Dante e Beatrice attraverso le sfere del Paradiso e quella di Maometto da Gerusalemme al trono di Dio, preceduta anch’essa da un viaggio notturno attraverso le dimore infernali, si rivelano sorprendentemente affini; l’architettura stessa dell’oltretomba dantesco troverebbe, secondo Asín Palacios, un illustre precedente nella tradizione mussulmana.

Miguel Asín Palacios (Saragozza, 5 luglio 1871–San Sebastián, 12 agosto 1944), arabista, teologo e sacerdote cattolico spagnolo, Professore all’Università di Madrid, pubblicò importanti opere sulla filosofia, teologia e mistica musulmana, specie d’occidente: Averroísmo teològico en Santo Tomás de Aquino (1904), Abenmasarra y su escuela (1914), Aben Házam de Córdoba y su historia crítica de las ideas religiosas (1927-32), La espiritualidad de Algazel y su sentido cristiano (1934-41).
Destò particolare risonanza la sua opera La escatologia musulmana en la Divina Comedia (1919, seconda edizione 1943), la cui tesi di una diretta e prevalente dipendenza del poema dantesco da modelli musulmani, sia per quanto riguarda la sua struttura sia per numerosi particolari, si è rivelata però in complesso inaccettabile; comunque l’opera, nelle sue due edizioni, ha avuto il merito di far conoscere molto materiale leggendario fino allora in gran parte ignoto, e di suscitare ampie ricerche e discussioni. Fin dal suo apparire accese grandi polemiche, soprattutto fra i dantisti italiani, impreparati ad accogliere l’ipotesi di un’influenza dell’arte e del pensiero arabo-islamici sulla Divina Commedia; anche per il momento per essi delicato dell’uscita del libro, alla vigilia di quelle celebrazioni del VI centenario della morte di Dante, che dovevano suggellarne l’immagine di massimo garante del valore dell’italianità nel mondo.
Il coro delle reazioni che La escatologia musulmana en la Divina Comedia suscitò, è stato registrato da Asín Palacios stesso nella Storia e critica di una polemica, rassegna delle critiche negative e positive degli studiosi (dantisti, ma anche arabisti e romanisti, storici e filologi), pubblicata nel 1924 e poi aggiornata dall’autore fino agli inizi degli anni Quaranta. Questo lavoro oltrepassa di gran lunga il suo intento informativo, sia perché fornisce un esempio di misurata e serena controversia scientifica, sia, e soprattutto, perché aggiunge preziosi tasselli al grandioso lavoro a mosaico di letteratura comparata impostato da Asín Palacios.
Dante e l’Islam
di Granfranco Bettin
Facebook, 26 maggio 2024
Di fronte all’insulso esonero dallo studio della Divina Commedia concesso in una scuola trevigiana a due studenti [uno di fede islamica e l’altro buddista], verrebbe da consigliare a chi lo ha disposto un supplemento di preparazione, ad esempio leggendo un capolavoro della critica letteraria del grande arabista spagnolo (e teologo e sacerdote cattolico) Miguel Asín Palacios (1871-1944): Dante e l’islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia (apparso nel 1919 e ristampato periodicamente, come si confà a un classico).
Asín Palacios compara l’opera di Dante, e l’immaginario teologico (e non solo) che la ispira, con opere letterarie e religiose arabe, in un’esemplare indagine erudita e rispettosa su vicinanze e differenze, su analogie e somiglianze, tra mondi e culture che, a partire dalla reciproca conoscenza e dalla serena consapevolezza delle differenze, contribuisce a un confronto sincero, capace di reggere alle controversie e ai conflitti in modo maturo, e quindi a una feconda convivenza.
Asín Palacios mostra come nella Divina Commedia, malgrado la netta condanna dantesca del ruolo di Maometto – non per la sua religione ma in quanto portatore di discordia e, per questo, nel Canto XXVIII, lo colloca all’Inferno, nella Nona Bolgia dell’Ottavo Cerchio, insieme peraltro a diversi Cristiani che Dante accusa della stessa conflittuale semina – siano presenti significative “influenze islamiche”, oltre a quelle Cristiane e classiche che ne rappresentano l’architettura fondamentale. Dante, infatti, era “curioso di ogni cosa e accolse ogni sentimento e idea del suo secolo”, un secolo “saturo di pensiero e di arte islamica”.
Le sue “fonti islamiche” sono in particolare le “leggende del viaggio notturno e dell’ascensione di Maometto, completate e abbellite da innumerevoli particolari topografici ed episodici, che derivano da altre leggende islamiche dell’oltretomba o dalle scene apocalittiche del giudizio finale o dalle teorie e concezioni di alcuni mistici musulmani riguardo al cielo e alla visione beatifica, il cui idealismo e spiritualità non avevano nulla da invidiare al ‘Paradiso’ dantesco”.
Forse, agli studenti esonerati un viaggio poetico e intellettuale così orientato farebbe invece piacere – e anche a chi dovrebbe guidarlo, insegnandone la profondità e la rigogliosa ricchezza, invece che evitandolo.
Dante e l’Islam
di Umberto Eco
L’Espresso, 18 dicembre 2014
È ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia. Ma oggi, turbati dalla violenza fondamentalista, tendiamo a dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale.
Nel 1919 Miguel Asín Palacios pubblicava un libro (La escatologia musulmana en la Divina Comedia) che aveva fatto subito molto rumore. In centinaia di pagine identificava analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica, in particolare le varie versioni del viaggio notturno di Maometto all’Inferno e al Paradiso.
Specie in Italia ne era nata una polemica tra sostenitori di quella ricerca e difensori dell’originalità di Dante.
Si stava per celebrare il VI centenario della morte del più “italiano” dei poeti, e inoltre il mondo islamico era guardato piuttosto dall’alto al basso in un clima di ambizioni coloniali e “civilizzatrici”: come si poteva pensare che il genio italico fosse debitore delle tradizioni di “exracomunitari” straccioni?
Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro L’idea deforme, a cura di Maria Pia Pozzato, i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta.
E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante.
Ormai é assodato che Dante abbia subito l’influenza di molte fonti musulmane. Il problema non è se lui le avesse avvicinate direttamente ma come sarebbero potute pervenirgli. Si potrebbe cominciare dalle molte visioni medievali, dove si raccontava di visite ai regni dell’oltretomba.
Sono la Vita di San Maccario romano, il Viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre, la Visione di Tugdalo, sino alla leggenda del pozzo di San Patrizio. Fonti occidentali, certo, ma ecco che Asín Palacios le paragonava a tradizioni islamiche, mostrando che anche in quei casi i visionari occidentali avevano appreso qualcosa dai visionari dell’altra sponda del Mediterraneo.
E dire che Asín Palacios non conosceva ancora quel Libro della Scala, ritrovato negli anni Quaranta del secolo scorso, tradotto dall’arabo in castigliano e poi in latino e antico francese.
Poteva conoscere Dante questa storia del viaggio nell’oltretomba del Profeta?
Poteva averne avuto notizia attraverso Brunetto Latini, suo maestro, e la versione latina del testo era contenuta in una Collectio toledana, dove Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, aveva fatto raccogliere testi arabi filosofici e scientifici – tutto questo prima della nascita di Dante.
E Maria Corti si era molto battuta per riconoscer la presenza di queste fonti musulmane nell’opera dantesca.
Chi oggi voglia leggere qualcosa su almeno un resoconto della avventura oltremondana del Profeta trova da Einaudi Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta, con una prefazione di Cesare Segre.
Il riconoscere queste influenze non toglie nulla alla grandezza di Dante, con buona pace degli antichi oppositori di Asín Palacios.
Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale.
Ho rievocato queste polemiche e queste scoperte perché ora l’editrice Luni ripubblica il libro di Asín Palacios, con il titolo più accattivante di Dante e l’Islam, e riprende la bella introduzione che Carlo Ossola ne aveva scritto per la traduzione del 1991.
Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione?
Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” Arabi.
E lo ha ai i giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie dei fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati.
Cultura islamica di Padre Dante
di Carlo Ossola
Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2014
«Hic incipit liber qui arabice vocatur Halmahereig, quod latine interpretatur: “in altum ascendere”. Hunc autem librum fecit Machometus et imposuit ei hoc nomen» («Qui comincia il libro che in arabo si intitola Halmahereig, che in latino significa: “salire in alto”. Maometto lo compose, e gli diede tale nome»).
Ben prima che Enrico Cerulli pubblicasse, nel 1949, Il Libro della scala.
La questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, un grande studioso spagnolo, Miguel Asín Palacios (Saragozza, 5 luglio 1871 – San Sebastián, 12 agosto 1944) aveva posto, con una erudita e vastissima messe di allegazioni, il problema dei contatti tra la struttura della visione di Dante e le tradizioni dell’ascensione o mi’rā’g’ di Maometto nei regni dell’oltretomba.
Il suo saggio La escatología musulmana en la Divina Comedia, pubblicato nel 1919, suscitò polemiche enormi; non si riconosceva più nell’autore, il sacerdote pieno di dottrina che aveva edito l’Averroísmo teològico en Santo Tomás de Aquino (1904), bensì un avventuroso e incauto assertore di contatti immaginari, e proprio alla vigilia del VI centenario della morte di Dante (1921).
Naturalmente il libro non venne tradotto in italiano, ma trovò un recensore attento nel grande arabista francese Louis Massignon, che gli consacrò, nello stesso 1919, un lungo saggio ora ripreso, da Andrea Celli, nel prezioso volume dello stesso Massignon, Il soffio dell’Islam. La mistica araba e la letteratura occidentale (Medusa, 2008).
Asín conosceva i resoconti del viaggio di Ricoldo da Montecroce, ma morì prima di aver potuto vedere l’edizione del Liber de scala, che certo avrebbe portato ben altri suffragi alle sue tesi (esso è ora edito da Anna Longoni. Rizzoli-Bur, 2013).
Nei cinquant’anni dalla morte di Asín Palacios proposi all’editore Pratiche di pubblicare il volume (nell’ottima traduzione di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik) e da allora il libro si è ristampato, sino alla presente edizione, nella quale propongo il bilancio di ulteriori vent’anni di indagini.
Dalle parallele ricerche di Maria Corti, e poi di più giovani studiosi – da Andrea Celli a Luciano Gargan -, è apparsa evidente l’ampia circolazione occidentale del Liber de scala, sino alla menzione di una copia del Liber de scala nell’inventario della biblioteca di un domenicano bolognese ai tempi di Dante.
Ora non si tratta né di attingere a tipologie intemporali che riunifichino i culti, come fece Frazer, e neppure di voler immaginare filiazioni dirette, bensì – ben vide Maria Corti – ritrovare costellazioni di testi e di senso che circolarono con libertà e influenze reciproche nel Mediterraneo della fine del Medioevo (Mediterraneo oggi irriconoscibile, per fratture e reciproca ignoranza, rispetto alla sua storia plurimillenaria).
Si tratta, ancor più, di sceverare ciò che è della “memoria collettiva” di tutte le tradizioni semitiche (ad esempio, il Capitolo XXXIII che «parla del Paradiso in cui fu creato Adamo, e dei fiumi che in esso si trovano») da ciò che è più tipico di una tradizione araba che si innerverà in Occidente («Il XXVI capitolo parla di come Dio fece molteplici mondi e creature di molteplici specie»), e dai luoghi che possono aver suscitato l’attenzione di Dante e che ho ampiamente esaminato nell’Introduzione.
Oggi, nel ripubblicare il volume, occorre riconoscere la funzione storica che il saggio ebbe, e rendere onore a Miguel Asín Palacios, probo e coraggioso nell’aprire un problema storiografico, che non è spento. I libri servono a suscitare ricerche: e mi auguro che questa edizione, prima che nuovi giudizi, riapra le porte dell’inchiesta storica, sì che rientri il vento delle generazioni che corsero le acque e le terre, come vide Julio Cortázar per la parabola di Marco Polo: «Con il mio nome / ho gettato sulle porte la pergamena aperta» (Marco Polo ricorda).