Le ultime realtà

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 25.05.2024 – Vik van Brantegem] – Nella tradizione catechistica si utilizza il termine Quattro Novissimi – che è la traslitterazione del latino novissĭma (cose ultime o finali), che corrisponde con il greco antico ἔσχατος, éskatos (ultimo) – nel senso di cose estreme, per indicare quattro parole chiave del destino finale dell’uomo: la morte (l’ultima cosa che accade in questo mondo), il giudizio (l’ultimo giudizio che si dovrà sostenere) e il destino eterno: l’inferno (“stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati”) o il paradiso (il sommo bene che avranno “coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati”).

“Cercate prima il regno di Dio
e la sua giustizia,
e tutte queste cose
vi saranno date in aggiunta”
(Mt 6,33).

Quindi, i Novissimi sono le cose ultime, ciò a cui l’uomo, secondo l’economia della Provvidenza divina, va incontro al termine della vita. L’espressione Novissimi ingloba la dottrina dell’Escatologia (letteralmente “scienza delle cose ultime”, denominata più colloquialmente “la fine dei giorni”), che tratta soprattutto dei Fini Ultimi, che è la riflessione teologica sul destino definitivo e finale delle persone e del creato, di cui abbiamo trattato alcuni giorni fa, in riferimento al Pellegrinaggio di Pentecoste da Parigi a Chartres [QUI].

In pratica, l’Escatologia cristiana è strettamente correlata con la visione della morte e dell’aldilà. Ha a che vedere con la risurrezione dei morti, con la Vita Eterna, con il Giorno del Giudizio, con il ritorno di Cristo. Il Mistero Pasquale viene letto già dal Cristianesimo primitivo come un fondamentale evento escatologico, che ridà la speranza ai discepoli del Risorto.

I Novissimi

Morte: «sora nostra morte corporale» pone fine alla vita dell’uomo come tempo di prova, aperto all’accoglienza o al rifiuto della grazia divina apparsa in Cristo. Il senso Cristiano della morte si manifesta alla luce del mistero pasquale della morte e della risurrezione di Cristo, nel quale riposa la nostra unica speranza. Il Cristiano che muore in Cristo Gesù va in esilio dal corpo per abitare presso il Signore (cf. 2Cor 5,8). La morte è la conclusione definitiva della vita terrena: con essa terminano in maniera definitiva tutti i processi vitali. Con la morte comincia la vita ultraterrena, la cui situazione beata o infelice è determinata dalle scelte libere della persona.

Giudizio: la sanzione definitiva della corrispondenza o meno del tempo di prova alla volontà di salvezza di Dio manifestata mediante Cristo si ha già nel giudizio particolare e viene confermata nel giudizio particolare. Il Nuovo Testamento parla del giudizio o principalmente nella prospettiva dell’incontro finale con Cristo alla sua seconda venuta (Parusia), ma afferma anche, a più riprese, l’immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del povero Lazzaro e la parola detta da Cristo in croce al buon ladrone, così come altri testi del Nuovo Testamento parlano di una sorte ultima dell’anima che può essere diversa per le une e per le altre. Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre. Il Giudizio particolare è quel giudizio a cui è sottoposta la persona umana subito dopo la morte. Con essa la persona entra nella sua dimensione definitiva, nell’accettazione o nel rifiuto di Dio. Il Giudizio particolare verrà confermato nel Giudizio universale. Il giudizio particolare è uno dei Quattro Novissimi, ultime realtà, in cui si articola l’Escatologia Cristiana.

Inferno: la condizione di coloro che, dopo la morte e la risurrezione dei morti, si trovano nello “stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati” [Catechismo della Chiesa Cattolica, 1031]. Questa condizione di sofferenza eterna non rappresenta una mera e passiva condanna da parte di Dio sul destino ultimo dell’uomo peccatore, ma la logica e permanente conseguenza delle sue azioni nella vita terrena che non sono state dirette al duplice comandamento dell’amore a Dio e all’amore al prossimo. All’opposto dell’inferno si colloca il paradiso, cioè la condizione di perpetua beatitudine di coloro che nella vita terrena hanno attuato il duplice comandamento dell’amore a Dio e al prossimo.

Paradiso: sommo bene che avranno “coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati” [Catechismo della Chiesa Cattolica, 1023]. La parola paradiso si riferisce alla vita eterna beata dei defunti che godono della visione del volto di Dio. È un termine usato prevalentemente nella tradizione cristiana, ma non è esclusivo del cristianesimo.

Le indulgenze

Le Indulgenze sono connesse con l’escatologia e i novissimi: sono la remissione dinanzi a Dio della pena temporale meritata per i peccati, già perdonati quanto alla colpa, che il fedele, in determinate condizioni, acquista, per se stesso o per i defunti mediante il ministero della Chiesa, la quale, come dispensatrice di redenzione, distribuisce il tesoro dei meriti di Cristo e dei santi. La pratica delle indulgenze va intesa come espressione e attuazione della misericordia di Dio, che aiuta i suoi figli a cancellare le pene dovute ai loro peccati, ma anche e soprattutto a spingerli verso un maggior fervore di carità. Le indulgenze sono strettamente connesse con il sacramento della penitenza, in quanto queste sono la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa col sacramento della Penitenza. L’indulgenza si ottiene mediante la Chiesa, può essere parziale o plenaria, e può essere applicata a sé e anche ai defunti.

“Ogni cosa nell’universo ha un principio,
una sua evoluzione
e avrà quindi anche una fine”
(Giovanni Falcone).

Non voler sapere più della morte [*]

Vorremmo tentare di leggere la morte come evento umano e Cristiano, sapendo che oggi viviamo in un’atmosfera culturale che della morte non vuole più saperne. È perfino banale questa constatazione: la morte è rimossa, è diventata l’unica realtà concretamente «oscena», che non deve cioè essere vista, contemplata, considerata.

Oggi vogliamo evitare di essere testimoni della morte, che tuttavia continua a essere presente nelle nostre vite familiari e di relazione; soprattutto, vogliamo evitare di pensare alla nostra propria morte, che è l’unico evento certo che ci sta davanti. È significativo un invito fatto da André Comte-Sponville al suo lettore, proprio in un libro che vuole essere una “saggezza” per tutti: «Lettore, coraggio! Per la morte hai tutto il tempo. Innanzitutto impegnati a vivere!». Non è un caso che anche il vocabolario della morte sia poco frequentato. Si ha una sorta di ritegno a parlare di «morto, morte»; si preferisce dire: «Se n’è andato. È passato di là. Non è più con noi». Questo accade anche nei funerali, che si dicono ancora Cristiani, ma che sovente, soprattutto nel caso di qualche persona importante o di una disgrazia pubblica, sono «eventi» con accenti di spettacolo. In essi, invece di accogliere il mistero della morte, si parla del defunto, ci si indirizza a lui come se fosse ancora vivo, si tenta quasi una rianimazione di cadavere, magari facendo ascoltare a tutti qualche sua parola o – se era un cantante – una sua canzone. Così si cancella la morte dalla nostra vita e dalla prospettiva tanto necessaria nella ricerca di un senso, di una direzione verso cui camminare. Ma ciò che appare follia è il fatto che, accanto a questa rimozione della morte, avvenga la sua spettacolarizzazione nei mezzi di comunicazione. In questi la morte sembra regnare, in un flusso di immagini che la esibiscono, la mostrano, insistono su di essa per «dare la notizia» efficace di catastrofi, guerre, torture, omicidi.

Non vogliamo vedere la morte, e poi rallentiamo in auto per guardare gli effetti di un incidente e vederne le vittime. Abituandoci alle immagini della morte in scena, crediamo di allontanare la possibilità della nostra propria morte. Insomma, anche per il Cristiano la tentazione è quella di fare tacere i Novissimi, di dimenticarli, e tra di essi in particolare la morte. Eppure la morte continua ad avere l’ultima parola su di noi, almeno nella realtà visibile, continua a essere un traguardo, una meta che ci attende: è l’unica direzione (senso) della vita che non possiamo mutare, perché sempre la vita va verso la morte. Martin Heidegger in questa lettura è giunto ad affermare che l’uomo «vive per la morte». La mia generazione ha ancora ricevuto dalla grande tradizione cristiana il consiglio spirituale dell’esercitarsi a morire, del prepararsi all’evento finale, del vivere la morte. La morte era un tema di meditazione, non funereo, non dolorista, ma andava pensata come «ora» che ci attende, ora del giudizio di Dio su ciascuno di noi, incontro con il volto di Dio tanto cercato. Nella memoria mortis c’era una tristezza, quella di dover morire; c’era il timore di Dio (cosa diversa dalla paura!), per il suo giudizio che è misericordia ma anche giustizia; c’era la consolazione per l’incontro definitivo con il Signore, la vita eterna. Nella memoria della morte occorreva soprattutto esercitarsi a pensare che il proprio morire deve essere «un atto». Questo mi era di difficile comprensione quando ero bambino, ma nella maturità ho poi compreso.

Per un Cristiano la morte non può essere un evento passivo: non è possibile lasciarsi morire ma è assolutamente necessario poter fare un atto di quell’evento finale al quale non si sfugge. Certo, nella fede, e forse anche con molti dubbi e nell’angoscia, ma occorre poter dire al Signore: «Padre, quella vita che tu mi hai dato e per la quale ti ringrazio, te la rendo puntualmente, te la offro in sacrificio vivente (cf. Rm 12,1), sperando solo nella tua misericordia». In tal modo la morte diventa un atto, e così si muore nell’obbedienza, magari accogliendo le parole di chi accompagna il morente, che – se è intelligente – sa dirgli al momento giusto: «Parti, vai al Padre, nel nome del Padre che ti ha creato, nel nome del Figlio che ti ha redento, nel nome dello Spirito santo che ti ha santificato». Forse questo fare della morte un atto è ciò che ci rimette i peccati, come affermava con audacia Marco il monaco (fine V-inizio VI secolo). Forse è l’estrema possibilità di «obbedienza della fede» (Rm 1,5;16,26) per il Cristiano, che così confessa di credere nella misericordia infinita di Dio. Proprio per predisporre tutto affinché questo sia possibile, occorrerebbe che chi è nella malattia fosse avvertito, se lo vuole, della sua situazione di uomo o donna giunto/a alle soglie della morte, al termine della vita. Operazione delicata, che non va fatta sempre, in ogni caso e per tutti, ma solo quando c’è una certa maturità di fede, e allora il credente morente desidera essere consapevole dell’incontro ormai prossimo con il suo Signore. La morte quindi diventa “azione”, atto puntuale, vera operazione di “adorazione” del Creatore, di riconoscimento dell’essere una creatura voluta da Dio nel suo amore e che torna a Dio il quale è amore per sempre (cf. 1Gv 4,8.16;1Cor 13,8). È in questa fede che l’uomo confessa di non essere proprietario della propria vita, di non decidere lui la propria fine, ma di accoglierla rimettendo a Dio il suo respiro, il suo spirito (cf. Sal 31,6;Lc 23,46). Al cristiano – occorre ricordarlo – non è chiesto di soffrire e neppure di accogliere i patimenti fisici come se fossero voluti da Dio. Dio non ci chiede nemmeno di espiare i nostri peccati con tormenti fisici, perché solo lui sa come restaurare la giustizia che abbiamo offeso e violato con i nostri peccati. È compito suo, non nostro: lasciamo che sia lui il Signore nella nostra vita e nella nostra morte. Per questo occorre che le sofferenze fisiche siano il più possibile evitate al malato morente, in modo che possa attraversare l’ora della morte semplicemente rispondendo a ciò che è sua umanizzazione e che è compimento della volontà di Dio: possa cioè vivere la malattia e la morte continuando ad amare chi resta e accettando di essere a sua volta amato. Nient’altro.

Questo è il comandamento ultimo e definitivo: amare fino alla fine, fino all’estremo (cf. Gv 13,1), per quanto è possibile a un umano. La vita è un dono di Dio, anzi è il dono di Dio per eccellenza, e questo dono va riconosciuto e ridato a colui che ci è Padre. Sì, oggi sull’evento della morte – lo dobbiamo dire – si gioca la fedeltà dei cristiani al loro Signore: i Cristiani sanno, perché nel battesimo sono stati immersi nella morte del Signore, sono «con-morti con Cristo», che con Cristo risorgeranno (cf. Rm 6,4-5.8;Col 2,12) e che questo télos sta davanti a loro come una promessa per chi persevera sempre, seppur cadendo in peccati, nella sequela del Signore. Proprio per questo non giudicheranno altri che non hanno la luce della fede, anche se, proprio per il cammino di umanizzazione che spetta a tutti, mostreranno e diranno che la morte può essere un atto, l’atto apice dell’umanizzazione percorsa con tutta la vita. Già Platone parlava della necessità della meléte thanátou (Fedro 81a), dell’«esercitarsi a morire», e tutta la tradizione cristiana ha pensato e indicato in cosa ciò può consistere. La morte non può essere privata del morire, e ciascuno di noi deve avere il coraggio di dire a se stesso: «Io morirò». Giunto alla vecchiaia, deve pensare di più alla morte, evento che può essere l’ultima grande azione della nostra vita. Nessuno di noi può prevedere la propria morte, se improvvisa o dopo una lunga malattia, se nella pace e nella dolcezza di chi muore senza gravi sofferenze fisiche o nel tormento di chi soffre patimenti che quasi non si possono lenire con le medicine. Nessuno di noi può sapere, nonostante le dichiarazioni fatte al riguardo, se morirà nel dubbio o nella fede. Non è un caso che nella preghiera più semplice e più conosciuta tra i Cattolici, l’Ave Maria, si chieda (e ciò avviene ripetutamente nel Rosario): «Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte». Pensare di avere chi nella morte intercede per noi come una madre, e intercede presso il Cristo che incontriamo, è un buon esercizio per sentire la morte come sorella e lodare Dio «per sora nostra morte corporale».

[*] Fonte: Note di Pastorale Giovanile [QUI]

Per approfondire [QUI]

Foto di copertina: Hans Memling, trittico Il Giudizio universale, tra il 1467 e il 1471, olio su tavola, 221×161 cm, Museo Nazionale di Danzica, Gdańsk.

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