Concordi, figli nella pace

Condividi su...

L’unità nella concordia è il distintivo caratteristico del vero discepolo di Cristo che vive nella beatitudine della pace. La concordia non elimina le differenze, non rende tutti uguali, anzi, le differenze alimentate dalla concordia, costruiscono la civiltà dell’amore. Per i suoi discepoli Cristo chiede ed esige che si realizzi l’unità dell’essere “una cosa sola”, indispensabile perché il mondo creda: Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 34-35). La concordia nell’unità è invocata da Gesù nella sublime preghiera che il Maestro innalza per coloro che credono in lui: ”che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me ed io in te che anch’essi siano in noi in modo che il mondo creda che tu mi hai mandato (Gv 17, 20 – 21). Quest’unità è prospettata in base a due dimensioni: quella invisibile che è la comunione alla stessa unità trinitaria; e quella visibile che è capacità di convincere il mondo che Gesù è l’inviato dal Padre e che il Padre ama gli uomini come ama il Figlio suo (cf Gv 17, 21 23). E’ questa concordia nell’unità che costituisce la fortissima testimonianza della divina missione di Cristo e della sua Chiesa.

La prima comunità cristiana, nata dal cuore della Pentecoste, viveva con convinzione e con entusiasmo il comandamento nuovo, per questo era una comunità spirituale, pacifica e missionaria. Animata dalla forza dello Spirito, portava la salvezza di Gesù a tutti gli uomini. Il segno caratteristico del loro stile di vita era, appunto, la comunione nella concordia, infatti: La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola (Atti 4, 32). Il sacramento della concordia era meraviglia allo sguardo e stimolo alla volontà per quanti volevano abbracciare la fede. In seguito, però, in quelle comunità si annidò il tarlo diabolico della frantumazione della carità. Ogni gesto di discordia, infatti, rimane lacerazione del Corpo di Cristo. San Paolo, venuto a conoscenza che nella comunità cristiana di Corinto vi erano divisioni, invia la prima lettera nella quale, dopo averli esortati a essere tutti unanimi nel parlare…e in perfetta unione di pensiero e d’intenti (1,10), così scrive: Mi è stato segnalato…che vi sono discordie tra di voi (1, 11). Le discordie nella comunità ecclesiale, per Paolo, costituivano un’autentica lacerazione del Cristo mistico: Cristo è stato forse diviso? (1, 13a).

Il termine concordia, dal latino concordia, concors ordis, designa conformità di sentimenti, di voleri, di opinioni fra due o più persone, non disgiunta da reciproco affetto o armonia spirituale. Gradiamo anche la derivazione da cum cordis, cioè, armonia di cuori che è il distintivo caratteristico dei poveri in spirito, dei miti, dei costruttori di pace.

Orazio, in Epistole, scrive un verso che suona così: quid velit et possit rerum concordia discors, cioè, quale sia il significato e il potere dell’armonia discorde delle cose (I, 12,19). Il poeta si riferisce alle teorie di Empedocle che concepiva l’universo come perpetua lotta fra due principi contrari: Amore e Discordia. L’espressione ormai è usata per significare un’armonia che risulta da una positiva diversità di pareri, d’idee o di sentimenti; armonia che non elimina le differenze, omologando tutto e rendendo tutti uguali, ma polifonia delle differenze che, alimentate dalla concordia, costruisce, nella pace, la civiltà dell’amore.

San Paolo, quando parla dei carismi che abbondano nella comunità di Corinto, mostrando che la loro diversità non dev’essere causa di discorde divisione, fa il paragone con il corpo umano e scrive: Come il corpo è uno e ha molte membra, e  tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un solo corpo, così anche Cristo; poiché tutti… siamo stati battezzati formando un solo corpo, e tutti siamo stati abbeverati in un unico Spirito (1Cor 12,12.13). Nasce così la splendida metafora della Chiesa come “Corpo di Cristo”. A Paolo, folgorato sulla via di Damasco, Gesù dice: “Io sono quel Gesù che tu perseguiti”. Sant’Agostino, con concisa chiarezza commenta: unus Christus et multi Christi. Le parole di Gesù affermano la sua identità con i cristiani, sia con ciascuna persona, sia con tutta la comunità, per cui ogni divisione all’interno della Chiesa diventa lacerazione del Corpo di  Cristo.

Se la concordia costruisce unità, l’unità nella concordia fa fiorire la pace.

Nell’Antico Testamento, la parola sàlòm, dalla radice ebraica designa il fatto di essere “intatto”, “completo”. Nonostante le varie sfumature di significati, alla base della parola vi è sempre il concetto di benevolenza, benessere e prosperità; nell’esistenza quotidiana indica lo stato dell’uomo che vive in armonia con Dio, con se stesso e con la natura.

La pace è concordia di vita fraterna: il familiare, l’amico, il compagno di lavoro… è la “persona della mia pace”. La pace, come la vita, è dono di Dio e frutto della sua benedizione. Se hai la pace, il Signore è con te perché è lui che la crea e che la offre (Is 45,7). Tutti i profeti annunziano che Dio, Principe di pace, ha sempre per il suo popolo, piani di pace e non di sventura (Ger 29,11). Il Libro della Sapienza contempla e dice che le anime dei giusti sono nelle mani di Dio… Agli occhi degli insensati essi sembrano morti…ma sono nella pace” (3,1-3). Isaia sogna un “principe della pace” (9,5) che concederà “pace senza fine”, che “la natura si sottometterà all’uomo e le nazioni vivranno in pace” (2,2).

Il vangelo di pace è realizzato dal Messia, il Re pacifico che, col suo sacrificio, annunzia il prezzo della vera pace. Alla sua nascita gli angeli evangelizzano la grande gioia per la nascita del salvatore e cantano: Gloria nei cieli e pace sulla terra agli uomini che egli ama (Lc 2,10-14).

Cristo Risorto, a ogni incontro pasquale, offre in dono la pace che suscita gioia in chi la riceve. “Pace a voi” non è semplice saluto, non è augurio a vuoto ma proclamazione e offerta del bene sommo che è la pace messianica. Quando la tristezza invade i discepoli che stanno per essere separati dal Maestro, Gesù li assicura: Vi lascio la pace, vi do la mia pace (Gv 14,27).  La pace, quindi, è “giustificazione” operata da Dio nella “riconciliazione” degli uomini con sé.

San Paolo, a proposito del buon ordine che deve regnare nelle adunanze cristiane, afferma che Dio non è il Dio del disordine ma della pace (1Cor 14,33). Egli è, infatti, la nostra pace (Ef 2,14) perché è il Re pacifico che opera per realizzare la vera pace; pace complessiva con Dio e con gli uomini tra di loro, nell’universale riconciliazione (cf Rm 5,10). L’apostolo è convinto che il messaggio cristiano, fondamentalmente, è “vangelo di pace” (Ef 6,15).

Tale ministero è affidato da Dio ai discepoli di Cristo (cf. 2Cor 5,18-19) i quali irradieranno sino ai confini del mondo la pax israelitica che sul piano religioso è la trasformazione della pax romana (cf Atti 7,26; 9,31; 15,23). Tale ministero, afferma san Paolo, è vissuto nella sollecitudine di conservare l’unità dello Spirito nel vincolo della pace (Ef 4,37). La Chiesa, come comunità di “operatori di pace” (Mt 5,9), è il luogo, il segno, la sorgente della vera pace fra i popoli di ogni razza e di ogni luogo, quella pace visibile e tangibile nei segni del perdono, dell’accoglienza e della solidarietà.

Quest’ideale, purtroppo, si può corrompere presto perché le potenze politiche o economiche cercano di procurarsi la pace, non come frutto di giustizia divina, ma mediante alleanze spesso empie. In pieno stato di peccato, esse osano proclamare una pace duratura. Il profeta Geremia, in nome di Dio, accusando i falsi profeti, grida: Essi guariscono superficialmente la piaga del mio popolo dicendo: Pace! Pace! Mentre pace non c’è (Ger 6,14).

La pace si ricerca attraverso il laborioso, faticoso e fecondo dialogo del pluralismo e del confronto, dove regnano intatti i valori dell’accoglienza e del rispetto della persona, nonostante le diversità di opinioni e di scelte.

L‘8 dicembre 1967, Paolo VI, annunziando l’annuale giornata della Pace, diceva: “La pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita ma proclama i più alti e universali valori della vita: la verità, la giustizia, la libertà, l’amore”.

L’uomo ottiene questo prezioso dono divino mediante la preghiera fiduciosa che fa invocare: Da pacem, Domine. La pace ottenuta, però, non è bene intimistico ma tramite d’integrale concordia (cf Col 2,12-15). Non possiamo, perciò, essere soltanto fruitori del dono della pace ma, attraverso il dono, essere anche promotori e operatori di quella pace che ci rende beati figli di Dio: Beati pacifici, filii Dei vocabuntur!  (Mt 5,9). Il pacifico figlio di Dio è chi evita conflitti con gli altri, vince la gelosia, l’invidia e il gusto della contesa. Il pacifico cerca la pace convertendo se stesso e impegnandosi attivamente a stabilirla là dove ci sono divisioni. San Giacomo scrive che la sapienza dall’alto è innanzitutto pura, poi pacifica (eireniké)” (cf  Gc 3,13-18). La vera sapienza, quindi, è pacifica, produce frutti di giustizia per chi compie opere di pace. La falsa sapienza, invece, è incline alla contesa, provoca disordine, aizza alla guerra. Coloro che operano per la pace non sono semplicemente persone che amano vivere in pace con se stessi e con tutti, essi sono veri e propri operatori di pace. Il Vangelo insegna che esiste un’intima relazione tra opera pacificatrice e filiazione divina. Dio, nel suo regno escatologico, chiamerà gli operatori di pace: “suoi figli”; così come consolerà gli afflitti, sazierà gli assetati di giustizia, farà misericordia ai misericordiosi.  È chiaro che l’essere “figli di Dio” non è un semplice titolo, il nome nuovo esprimerà la nuova realtà. Gli operatori di pace, ricevendo il nome nuovo di figli di Dio, diventeranno ciò che esso significa ed entreranno in possesso dei privilegi annessi a tale nome e a tale qualità.

Può esserci titolo più alto di questo? Chi non è capace di operare pace, può avere tutti i titoli di qualsiasi regno, ma non avrà mai quello regale del Regno di Dio.

La concordia e la pace, figlie dell’agape, hanno una terza sorella, quella che san Paolo chiama “amabilità”: essa è il modo di porsi dei miti, dei poveri in spirito, di quelli che confidano solo in Dio. Magnifico esempio è lo stesso apostolo Paolo, il quale si vieta la ricerca delle lodi e della gloria che sono appropriazioni umane. La sua umiltà è resa evidente quando, in mezzo ai cristiani, egli si mostra pieno di quella serena mitezza espressa, appunto, dall’amabilità. Paolo conosce bene i diritti conferitigli dal suo “titolo” di apostolo di Cristo. Tuttavia nel rapporto con i convertiti, egli si mostra mite e amabile, come fa un padre e una madre con i propri figli. Così Paolo scrive ai fedeli di Tessalonica: Mai, infatti, abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari (1Ts 2,5-8).

La mitezza, manifestata attraverso il tratto forte e amabile del carattere, è inconcepibile senza vera umiltà di cuore e povertà di spirito. L’amabilità di Paolo si armonizza perfettamente con l’altissima idea che egli ha della missione a lui affidata. L’amabilità sincera non ha nulla a che fare con la debolezza di carattere, con le sdolcinature ipocrite di falsa gentilezza, tanto meno con l’ilare imbecillità degli inetti. L’umiltà di Paolo si manifesta attraverso la mite amabilità che è il mezzo per conquistare le anime a Cristo e non a se stesso. Oppresso e debole, in mezzo a un mondo violento e ostile, il mite pacifico delle Beatitudini è il servo di Dio, benedetto e protetto da Lui, che si abbandona alla sua provvidenza. L’atteggiamento dell’anima del povero in spirito e la disposizione di cuore del mite non sono solo atteggiamento religioso; povertà e mitezza comportano sempre mansuetudine e amabilità di carattere nel comportamento verso gli altri.

Osservando il contrasto che esiste tra la promessa della beatitudine e l’esperienza quotidiana del successo dei violenti, come coniugare Vangelo e vita? Il vero credente pone sempre la sua speranza nella parola di Dio: I miti avranno in eredità la terra e godranno una grande pace (Sal 37,7.11). Se vogliamo pace in concordia, gustiamo e coltiviamo la beatitudine della mitezza. L’esempio di Mosè è illuminante: Mosè era un uomo assai mite, più di qualunque altro sulla faccia della terra (Nm 12,3). Ben Sira, nel suo elogio di Mosè, scrive che Dio lo santificò nella fedeltà e nella mitezza, lo scelse fra tutti gli uomini (Sir 45,4). L’amabile mitezza è dono squisito che lo Spirito elargisce a chi possiede libertà di coscienza, umiltà di cuore e povertà di spirito.

Nella travagliata storia contemporanea, osservando lo stile di vita dei credenti, viene spontanea la domanda: le Beatitudini continuano a essere la Magna Carta del Vangelo di Gesù, nostro unico Signore e Maestro? Si può essere credibili se si vive nell’alveo “sacramentale” dell’amabile pace, della serena povertà, della mite concordia.

 

 

151.11.48.50