A Milano la Sesta Opera dei Gesuiti in aiuto ai carcerati
La Sesta Opera San Fedele dei Gesuiti è una delle più antiche associazioni di assistenza carceraria operanti in Italia, sorta a Milano nel 1923, fra le tensioni di una società che, superato lo spartiacque della Grande Guerra, si trovava nella crisi drammatica dell’Italia liberale ormai in crisi irrimediabile per il pieno dispiegarsi del regime fascista.
Le radici remote della Sesta Opera affondano nel terreno della spiritualità ignaziana. La decisione di un gruppo di liberi professionisti milanesi di impegnarsi nel servizio fra i detenuti per adempiere alla sesta opera di carità: ‘Ero carcerato e siete venuti a trovarmi’, scaturì proprio da un ciclo di esercizi spirituali tenuti dal p. Carlo Beretta, direttore della allora Congregazione Mariana milanese (oggi Comunità di vita cristiana). Inizialmente all’opera era permesso solo di svolgere colloqui con i reclusi sia maggiorenni sia minorenni e di gestire due scuole, una per gli analfabeti e l’altra per i minorenni. Da allora sia la realtà del volontariato carcerario sia la legislazione in materia si sono molto evolute.
Attualmente in Italia ci sono circa 6.500 volontari carcerari attivi in 351 organizzazioni che garantiscono 21.500 ore di impegno ogni settimana nei 206 Istituti penitenziari del Paese. Ancora oggi l’esperienza pionieristica della Sesta Opera San Fedele rimane un punto di riferimento significativo nel mondo carcerario, nel quale prosegue lo stesso servizio che aveva già superato il mezzo secolo di vita quando la legge di riforma penitenziaria del 1975 assegnava al volontariato la promozione dello ‘sviluppo dei contatti fra la comunità carceraria e la società libera’.
Per capire meglio questa realtà abbiamo intervistato il presidente di Sesta Opera, Guido Chiaretti: perchè si chiama Sesta opera e perchè il carcere? “Il nome Sesta Opera San Fedele nasce dalla sesta opera di ‘misericordia corporale’: visitare I carcerati che è il versetto di Mt 25,36 a cui si ispira l’associazione nata nell’alveo della spiritualità ignaziana, da 4 laici della Congregazione Mariana del Leone XIII (associazione cattolica che oggi si chiama ‘Comunità di Vita Cristiana’ (CVX)) nel 1923. San Fedele perchè la sua sede, dopo i primi anni al Leone XIII, è sempre stata nella residenza dei gesuiti in p.zza San Fedele, 4 a Milano. In nome omen: quanto sopra spiega anche perchè il carcere: è la specifica ragione di esistenza di questa associazione da quando è nata. Si occupa di tutti gli aspetti che ruotano intorno a questa realtà. Non si occupa d’altro”.
Papa Francesco, nelle sue visite pastorali, incontra sempre i detenuti: quale posto hanno all’interno della Chiesa? “Purtroppo nella Chiesa in generale dei detenuti si occupano solo i cappellani, spesso da soli. La comunità cristiana ha tutti I pregiudizi che ha tutta la nostra società. In questo i mass media hanno grande responsabilità. Per Papa Francesco la cosa è diversa: è un gesuita, e la Compagnia di Gesù da molti anni ha fatto una scelta strategica per il suo stile apostolico: coniugare insieme Fede e Giustizia. E papa Francesco, da bravo gesuita, conosce bene per esperienza questa realtà, come era per Martini, e tanti altri gesuiti oggi. La Sesta Opera ha un assistente spirituale gesuita, padre Antonio Pileggi s.j., che opera come volontario a San Vittore, insieme ad un altro gesuita, anche lui volontario a San Vittore, padre Giuseppe Trotta s.j. Questo è solo l’esempio di Milano, ma in tutto il mondo la Compagnia opera così”.
Come superare la pena dell’ergastolo? “L’ergastolo deve diventare una pena con la massima durata, ma con meccanismi premiali come tutte le altre pene. Anche a queste persone va garantita la possibilità (controllata dalla magistratura di sorveglianza) di ravvedersi e poter tornare nella società come ‘uomo nuovo’. Il carcere non può togliere questa speranza. Ma attenzione, ci sono realtà peggiori, e più difficili, da cambiare radicalmente: gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Non c’è solo il problema dell’ergastolo di cui tutti parlano”.
Quali possono essere le proposte per garantire più sicurezza e meno carcere? “In carcere tutti operano per la ‘sicurezza’: ma in alcuni (pochi) carceri abbiamo una recidiva inferiore al 20% (a Bollate), altri (la quasi totalità) dove la recidiva è intorno al 70%. Perchè? Lo stile adottato a Bollate punta sull’esercizio della responsabilità personale del detenuto in tantissime attività che sono possibili per la presenza massiccia del mondo del volontariato penitenziario: questo porta alla sicurezza vera della società. Qual è il rovescio della medaglia? L’esercizio della responsabilità del detenuto necessariamente è a rischio, non sempre riesce (questo è il problema intrinseco della libertà dell’uomo). E’ una scommessa, ed ha bisogno di persone (il direttore, in primis, gli educatori, gli agenti… i volontari…) che vogliono correre questo rischio.
Ma la maggior parte del personale penitenziario in Italia non vuole correre rischi, e allora adotta lo stile del controllo stretto, per ‘garantire’ la sicurezza (immediata). Ma l’esito a lungo termine della recidiva è inesorabile e dice quanto questa via sia fallimentare. Quindi in carcere la soluzione è accettare il rischio (modello Bollate) con il sostegno della società civile che entra massicciamente in carcere per sostenere tutte le attività (spesso inventate proprio dagli stessi volontari). Fuori dal carcere, nella detenzione extramuraria (nelle Misure Alternative) le cose stanno diversamente. Le persone che non entrano in carcere hanno in genere una recidiva nettamente piu’ bassa: dal 40 al 5%, secondo le varie tipologie di reati. Questo, indirettamente, conferma che il carcere è una scelta che va fatta solo in casi estremi, non come si fa oggi!
Dice anche che puntare sulle Misure Alternative porta ad una gestione della pena che rende la società più sicura. Certamente I dati ci dicono questo. Le Misure Alternative sono una scelta vincente per la società. In questa realtà il volontariato in Italia è scarso (per diversi motivi): 100 volontari contro i quasi 10000 che lavorano in carcere. L’esperienza positiva del volontariato in carcere (modello Bollate) che consente di abbattere la recidiva dal 70 a meno del 20% ci indica che se il volontariato operasse fuori dal carcere con una presenza numericamente analoga, potremmo avere recidive ancora più basse, e una società molto più sicura. E’ un sogno? Credo proprio di no. E’ la ragione che ce lo dice. Noi ci stiamo impegnando esattamente per questo”.
Come garantire dignità al detenuto? “Ci sono mille modi. Ma mi lasci essere breve: accompagnando la persona detenuta, con rispetto, intelligenza, amore, controllo di sé, attenzione, prudenza, costanza. Il primo passo: guardare la persona con uno sguardo limpido che non giudica. Il resto viene poi da quegli atteggiamenti della persona che lo accompagna nel suo lungo percorso”.
A fine ottobre inizia il corso per ‘entrare nella realtà penitenziaria’: di cosa si tratta?
“Occorre formare le persone per questo. Non diamo per scontato che chi si avvicina a questo mondo le abbia già. La nostra esperienza ci dice che è un cammino di maturazione fatto su di sé impegnativo e lungo. Il corso vuole trasferire la nostra esperienza ai nuovi che vogliono entrare in questa esperienza. Lei dirà: ma questo vale anche per altri tipi di volontariato? Certamente! Ma qui è il secondo punto caratteristico del corso. Sintetizzo: gli altri volontariati sono un rapporto tra il volontario e l’assistito (malato, bambino….). Il rapporto si gioca tutto tra due persone.
Nel nostro caso c’è questo, ovviamente, ma questo rapporto è inserito in un contesto formale estremamente vincolante: la magistratura, il direttore del carcere, gli educatori, gli agenti, avvocati, criminologi….. Occorre conoscere dove e come si opera in questo contesto complesso: il sistema giudiziario. Chi entra in questo modo non lo conosce. L’errore più frequente del miglior volontario? : adottare in carcere le migliori prassi che ha imparato ad usare fuori. La buona fede porta a questo: portare il meglio di sé, quello che la migliore esperienza gli ha insegnato (fuori). In carcere molto spesso non funziona così”.