Benedetto XVI undici anni dopo
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 11.02.2024 – Andrea Gagliarducci] – Se dovessi definire un momento preciso in cui la professione del vaticanista è cambiata, non avrei dubbi nel dire che lo spartiacque è stata la rinuncia di Benedetto XVI, undici anni fa. Perché già la rinuncia in sé era un atto dirompente, fuori dagli schemi, improvviso e per questo difficile da porre nelle categorie classiche. E perché, dopo la rinuncia, c’è stata un’ansia di cambiamento, quasi una crisi di rigetto, in cui si è deciso che tutto andava cambiato, che la Chiesa dovesse cambiare narrativa, dovesse parlare con il mondo ma da un punto di vista pari o addirittura di sudditanza. In cui, in fondo, il lavoro con i media diventava centrale, perché era lo stesso Papa che la rendeva centrale, con i suoi gesti, con le sue improvvisazioni, con le sue catchphrases destinate proprio a catturare l’attenzione del pubblico.
Eppure, quel gesto dirompente di Benedetto XVI è stato, ed è soprattutto, il certificare una crisi. Non la crisi di una istituzione, quella del pontificato, come in molti dicono. Lo dicono, probabilmente, per non guardare a crisi ben più profonde, usando il pontificato come capro espiatorio. La crisi vera riguardava proprio la comunicazione della e sulla Santa Sede, la difficoltà a riconoscere nel pensiero della Chiesa qualcosa di valido e vero da raccontare.
Con la sua rinuncia, Benedetto XVI ha prima di tutto mostrato al mondo che nessuno lo aveva davvero capito. Veniva chiamato il Panzerkardinal, veniva definito come un severo guardiano della dottrina della fede, un ex progressista convertito sulla via del conservatorismo più bieco e dunque un teologo, cardinale, uomo di Chiesa e dopo Papa da combattere.
Eppure, con la rinuncia, Benedetto XVI ha dimostrato di essere ancora quel teologo che aveva scritto per il Cardinale Josef Frings una relazione pronunciata alla conferenza di Genova del 1961, parte di un ciclo di conferenze organizzato dalla Fondazione Columbianum che preparava al Concilio Vaticano II [QUI]. Un testo, in fondo, che chiedeva di sciogliere i nodi della modernità per riprendere con forza il rinnovamento nella Chiesa, a partire dal movimento liturgico e dal movimento mariano.
Ripartire dalla fede, dunque, e tutto ricomprendere in nome della fede. È questo che ha permesso al pensiero di Benedetto XVI di mantenere una straordinaria coerenza interna, senza mai spostarsi di schieramento, ma rimanendo fedele al suo pensiero. Non è Benedetto XVI che ha ceduto alle mode del pensiero, è il pensiero che si è spostato, che si è dimostrato debole, volubile, incapace di mantenere una struttura.
Avremmo dovuto sapere leggere i segni che Benedetto XVI ci dava nel suo tempo al governo dalla Chiesa, a partire da quel crocifisso posto al centro dell’altare, perché il punto di riferimento di fedeli e celebrante fosse sempre Cristo, anche con l’altare ribaltato della riforma liturgica post-conciliare che Benedetto XVI non ha mai disconosciuto.
Se Cristo è il centro di tutto, se davvero c’è questa fede profonda, allora niente può essere lotta di potere. I gesti di Benedetto XVI sono stati letti in maniera politica, cercando di leggere una volontà di cambiare le cose in favore della sua fazione. Ma era una lettura figlia del pregiudizio e della personale auto-comprensione. Si attribuivano a Benedetto XVI azioni e ragioni che in realtà appartenevano più alle persone che le attribuivano, che a Benedetto XVI.
Il pontificato di Benedetto XVI è così diventato un pontificato letto con le lenti del pregiudizio, almeno sui media secolari e anche su alcuni media cattolici quando questi avevano, nel dibattito post-concilio, ceduto alle visioni ideologiche dell’una e dell’altra parte.
Con la rinuncia, Benedetto XVI fa crollare in un momento solo tutti i miti sul suo pontificato e sulla sua persona. Dimostra che il munus petrino per lui non è peso, ma missione, e che non è potere, ma servizio. Abbiamo molte tesi complottiste sulla rinuncia di Benedetto XVI, che includono persino la finanza internazionale. La verità è che niente avrebbe portato Benedetto XVI alla rinuncia se non l’amore per la Chiesa e la volontà di definire un cambio di passo che lui non sarebbe stato in grado di fare.
Allora perché così tante pressioni intorno al pontificato di Benedetto XVI, culminate nell’annus horribilis del 2010, quando lo scandalo degli abusi scoppiò in tutta la sua virulenza e i casi venivano sbattuti sui media quasi ad orologeria? Perché, appunto, tutto era centrato sulla fede, ed era una fede che aveva un senso, che era ragionevole. Ma la ragionevolezza della fede è pericolosa, perché dimostra come c’è qualcosa di più grande delle cose del mondo. La ragionevolezza della fede è autorevole, e infatti i libri di Benedetto XVI avevano successo, erano cercati e letti, anche solo per cercare di criticarli, e a Natale 2012 perfino il Financial Times chiese all’allora Papa di pubblicare una riflessione, purtroppo relegata nelle pagine interne: era un segno di come il pensiero della Chiesa fosse considerato.
Ed era considerato proprio perché la comunicazione non era pervasiva. Si comunicava attraverso i simboli e i linguaggi che facevano parte della storia della Chiesa, con allocuzioni articolate e precise che Benedetto XVI costruiva come cattedrali, con alcuni interventi pubblici e pochissime interviste, e soprattutto con i libri. I libri che aveva scritto da teologo, e che continuavano ad essere tradotti e che ora vengono raccolti in una opera omnia dalla Fondazione Ratzinger/Benedetto XVI, istituita proprio allo scopo di diffondere il pensiero teologico del Papa emerito. E poi, il grande lavoro del Gesù di Nazaret, che ha come primo scopo quello di rimettere Cristo al centro e come secondo, ma non meno importante, quello di dare forza di verità storica ai Vangeli. Perché la storia di Gesù è densa di simboli e ricorrenze, ma non è una storia simbolica. È carne e sangue, è una storia di amore e amicizia, di un Dio che si fa uomo in un periodo storico determinato e fa cose. E quali cose!
Dopo anni di dibattito post-Concilio, era difficile approcciarsi con umiltà epistemologica al pensiero di un teologo sempre avversato dal mainstream. Era così che nasceva tutta la propaganda anti-Benedetto XVI. Era favorita, certo, anche da errori, dall’ingenuità di alcuni collaboratori (ingenuità circoscritta ad alcune circostanze, non generali). In realtà, questa comunicazione anti-Benedetto XVI nasceva soprattutto dall’insufficienza di comprendere, di guardare oltre le categorie, di comprendere il pensiero del Papa in tutta la sua complessità e semplicità al tempo stesso.
Benedetto XVI ha dimostrato che il cristianesimo ha bisogno di cultura. Come nel Medioevo le iniziative popolari portarono all’edificazione delle grandi cattedrali, e a spiegare il Vangelo nell’iconografia delle vetrate e dell’arte, oggi la nuova cattedrale in un mondo secolarizzato è proprio definita dalla cultura, dalla necessità di formarsi e conformarsi. Nessuno, meglio di Benedetto XVI, poteva raccontarlo, spiegarlo, chiedere una rinascita.
Era una sfida complessa, entusiasmante, difficile e che Benedetto XVI ha lasciato come eredità al successore. Ma la sua rinuncia ha creato l’effetto del mito della caverna di Platone. Chi è vissuto nell’oscurità, in un mondo di ombre, quando riuscirà a liberarsi e troverà la luce ne rimarrà accecato, e allora non riuscirà a vedere la realtà, ma preferirà ritornare nella grotta.
Ecco allora che la rinuncia di Benedetto XVI rappresenta uno spartiacque per la comunicazione vaticana.
Il comunicatore cattolico è di fronte a un bivio: si può decidere di seguire una strada nuova, quella dell’approfondimento, dello studio dei linguaggi, della storia, e prendersi tutto il rischio di non essere compresi nel breve termine; o si può prendere l’approccio mainstream che vuole una Chiesa meno religiosa, più aperta al mondo, snaturata nella sua apertura e privata in parte della potenza del Vangelo di Cristo. Si può decidere di riconoscere la bellezza della Chiesa nella sua storia oppure cercare di cambiare cose che non vanno cambiate giusto per adeguarsi alla cosiddetta modernità. Si possono sciogliere i nodi della modernità, come chiedeva il Cardinale Frings, o ci si può rimanere incagliati.
Ed è su questi due poli che si è giocata la comunicazione cattolica. In questo, però, ha rispecchiato il dibattito all’interno della stessa Chiesa Cattolica. Perché dopo Benedetto XVI si è parlato a lungo di una “nuova narrativa” per la Chiesa, e poi si è deciso di prendere la linea dell’essere con tutti e per tutti, senza distinzioni, anzi cercando di catturare l’attenzione di quelli che sono lontani. Il risultato rischia di essere di allontanarsi dal centro della fede per avvicinarsi ai lontani, e non quello auspicato che i lontani si avvicineranno.
Oggi, la Chiesa e la comunicazione sono in cerca di un centro di gravità permanente, e intanto la rinuncia di Benedetto XVI ha creato un mondo nuovo di comunicatori, chiamati quasi a rompere con il passato per abbracciare le magnifiche sorti e progressive che però in alcuni casi sembrano prive di progettualità. Si può decidere di fare giornalismo vaticano seguendo quello che succede, adeguando i “fuochi” di attenzione su quello che diventa importante con un nuovo apparato. Si può decidere di fare giornalismo cercando un centro, una visione, un qualcosa che possa aiutare a comprendere la Chiesa, e che dunque rischia di essere impopolare.
Benedetto XVI, con la sua rinuncia, non ha fatto altro che mettere a nudo questa tensione. Lo ha fatto in un momento in cui il giornalismo cambiava anche forma, in cui il web prendeva più forza della carta stampata e nuovi media emergevano, e in cui per reazione si è andati sempre più verso una alta specializzazione o una forte consapevolezza identitaria.
Benedetto XVI ha lasciato una Chiesa che deve superare la sua “sindrome della caverna” per riscoprire se stessa, e forse deve anche superare una “sindrome di Stoccolma” verso una opinione pubblica che in realtà è più che altro opinione pubblicata.
Soprattutto, Benedetto XVI ha dimostrato che c’è molta strada da fare per il giornalismo vaticano. Perché, durante tutto il suo pontificato, Benedetto non è stato capito. E questa mancanza di comprensione ha rappresentato forse il peccato più grave del giornalismo vaticano che si avviava ad aprire la sua quarta generazione post-Concilio Vaticano II.
Sì, Benedetto XVI ha avviato una rivoluzione. Ma non è la rivoluzione che tutti pensano. E non è cancellandone o trascurandone il pensiero che questa rivoluzione perderà di impatto. Anzi.
Questo articolo è stato pubblicato oggi dall’autore sul suo blog Vatican Reporting [QUI].