L’immagine del “Cristo di Burgos” venerata a Scicli e Gravedona. L’inopportuna esposizione di un surrogato in chiesa a Palermo

Condividi su...

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 21.01.2024 – Vik van Brantegem] – I Frati Minori Conventuali della Pontificia Basilica Minore di San Francesco d’Assisi a Palermo hanno condiviso lo scorso 17 gennaio in un post sulla loro pagina Facebook [QUI] l’annuncio di «un importante evento che si terrà presso la nostra Pontificia Basilica Minore San Francesco d’Assisi. Vi aspettiamo numerosi sabato 27 gennaio per vivere insieme questa straordinaria esperienza. Il Signore vi dia pace». Allegato al post c’era l’invito per l’evento, organizzato insieme alla Biblioteca Francescana di Palermo, ai Frati Minori Conventuali della Provincia Italiana dell’Immacolata Concezione, Panormiti Mater usque et sanguinis effusionem 1624-2024 (Anno Giubilare per le Patrone di Palermo, l’Immacolata Concezione e Santa Rosalia) e Artétika-Spazio Espositivo per l’Anima: «Il Rettore Frate Gesualdo Ventura con vera gioia vi invita alla cerimonia di esposizione dell’Opera “Cristo in gonnella” di Stefania Bellot Romanet nella Cappella Calvello del SS. Crocifisso, 27 gennaio 2024 ore 19.00. Per informazioni: email. PONTIFICIA BASILICA MINORE SAN FRANCESCO D’ASSISI PALERMO».


Al riguardo abbiamo ricevuto dagli Alleati dell’Eucaristia e del Vangelo una comunicazione dal titolo Una mostra bugiarda, con cui trasmettano una lettera, comunicando che «invitati dall’ideatore e autore della lettera Avvocato Roberto De Petro a collaborare, aderiscono all’iniziativa di denunciare lo scandalo della mostra blasfema organizzata dai francescani di Palermo e chiederne l’annullamento o quanto meno a modificarne il titolo». Aggiungono che «il soggetto della mostra, falsamento denominata “Cristo in gonnella” che verrà inaugurata a Palermo (…) nulla ha a che fare con il Nostro Signore Gesù Cristo». Inoltre, affermano che «ha nulla a che fare, come da alcuni superficialmente ipotizzato con il Cristo di Scicli (…) se non per risibili apparenti similarità. (…). L’abito indossato dal Cristo, Sacerdote in Eterno, di Burgos e di Scicli, è un abito sacerdotale, dignitoso con pizzi e merletti e non è una mediocre “gonnella” scozzese che con l’abito sacerdotale non ha nulla a che vedere. Quindi il soggetto in questione non è Cristo. Se non è Cristo lo dicano».

Il quadro di Stefania Bellot Romanet esposto a Palermo.

Per stabilire il contesto di queste due comunicazioni, occorre andare indietro nel tempo e approfondire alcuni elementi, storici ed iconografici. A conclusione appare chiaro la differenza sostanziale tra l’opera esposta a Palermo e l’iconografia classica dei dipinti che si rifanno al “Cristo di Burgos”, popolarmente chiamate “Cristo in gonnella”, senza intenzione di irriverenza verso nostro Signore Gesù Cristo. Concordiamo con gli Alleati dell’Eucaristia e del Vangelo, che invocare apparenti similarità è risibile, segno di superficialità e crea confusione. Infine, è manifesta l’inopportunità di un’esposizione dell’opera in una chiesa, a prescindere di altre valutazioni.


Il “Cristo in gonnella” di Stefania Bellot Romanet a Palermo

Detto quanto espresso prima, va rilevato che l’evento annunciato per il prossimo 27 gennaio a Palermo non è una “mostra”, ma una “esposizione” del quadro dal nome “Cristo in gonnella” (che, quindi, non è il nome dell’evento, che nome non ha), che faceva parte della mostra dal nome Padre nostro, umore e luce, una personale di Stefania Bellot Romanet, artista e nobildonna veneziana del Novecento, inaugurata venerdì 6 ottobre 2024 alle ore 18.00 presso la Galleria Artétika in via Giorgio Castriota 15 a Palermo, introdotta dallo storico dell’arte Maria Antonietta Spadaro. La mostra, organizzata dalla gallerista Esmeralda Magistrelli e Gigliola Beniamino Magistrelli, in collaborazione con Ags_studio di Angelo Ganazzoli e Giorgia Rampulla, è rimasta visitabile fino al 26 ottobre.

La mostra personale palermitana Padre nostro, umore e luce di Stefania Bellot Romanet era composta da 25 opere di varie dimensioni, 15 appese e 10 sculture, realizzate dagli anni Novanta fino al 2023. Tra le opere esposte era presente anche il “Cristo in gonnella”, di cui fu detto che si richiama alla tradizione spagnola del “Cristo di Burgos”.

Mentre il “Cristo di Burgos” indossa una veste sacerdotale a forma di tunica, invece nell’opera di Stefania Bellot Romanet la veste della figura rappresentata è materica (uno stile artistico che utilizza materiali strutturati – come potrebbe essere la sabbia, il gesso o materiali di altro genere – per creare una superficie ruvida texturizzata) e adornata come molte delle opere della mostra, in cui l’esagerazione dell’accumulo compositivo la faceva da padrone in linea con l’estetica barocca siciliana.

Come ha sottolineato la gallerista di Artétika, Esmeralda Magistrelli, la mostra non presentava solo i dipinti di Stefania Bellot Romanet, ma anche i suoi collage realizzati con vari materiali, “creati al femminile, e cioè con oggetti come borse, scarpe e indumenti, appartenuti all’artista”.

A caratterizzare le tele dell’artista veneziana anche la presenza quasi occulta di occhi. “Occhi vivi che sbucando improvvisamente dalle opere e che scrutano, seguono e osservano, senza lasciarti mai. Te li porti dentro con i loro pensieri immaginari”, ha osservato Magistrelli.

Cresciuta alla scuola romana di Carlo Socrate e sua allieva prediletta, Stefania Bellot Romanet ha fatto il suo esordio nel mondo dell’arte a metà del Novecento, dimostrando una grande versatilità artistica, spaziando dal realismo all’espressionismo fino all’astratto. La sua cifra artistica è caratterizzata dai contrasti forti e la scelta dei toni scuri (tipici anche del tenebrismo spagnolo, osservato nel “Cristo di Burgos” di Scicli), umorali, intervallati da vivaci colpi di luce. In questo gioco di equilibri l’artista riflette le sue tenebre personali, così come le sue aspirazioni e riflessioni sull’umano e sul divino. In ogni sua creazione emerge la personalità dell’artista, con una passione e un talento in continuo fermento.


Il “Cristo di Burgos” o “Cristo in gonnella” a Scicli

Sull’altare laterale a destra dell’abside della chiesa di San Giovanni Evangelista, nella centralissima via Mormino Penna di Sicli, una delle città tardo barocche del Val di Noto, si venera il cosiddetto dipinto del “Cristo di Burgos”, popolarmente chiamato “Cristo in gonnella”, una rarissima raffigurazione, la cui storia si intreccia con l’epoca quando la Sicilia era dominata dalla Spagna.

A Scicli incontriamo anche un’altra curiosità. Visitando la chiesa Madre di San Guglielmo, si trova la statua della Vergine Maria su un cavallo bianco. Un’immagine dall’aspetto fiero che reggeva una spada nella mano destra. La festa annuale in suo onore ha un carattere fortemente identitario per la collettività sciclitana: è un patrimonio intangibile di altissimo valore, dovuto anche alla sua unicità. Nel giorno della festa si celebra, infatti, che Ruggero D’Altavilla e il suo esercito nel 1091 liberarono Scicli dai Saraceni con lo scontro avvenuto nella piana di Donnalucata, in prossimità del mare e a pochi chilometri dalla città. Giunse in loro soccorso la Madonna a cavallo che apparì miracolosamente partecipando alla battaglia finale. Questo evento eccezionale viene commemorato, ancora oggi, con la Festa della Madonna delle Milizie. È l’unica festa al mondo in cui si celebra la Vergine guerriera. Nel giorno della festa si fa un dolce tipico, detto “Testa dei Turchi”, fatto con la ricotta locale. Così, a Scicli c’è il quadro di un “Cristo con la gonnella” e una statua della Madonna che “guida la battaglia”.

Il “Cristo di Burgos” a Gravedona

Va detto, che il quadro del “Cristo di Burgos” a Scicli non è l’unico in Italia. Anche nel Nord Italia, custodito nel piccolo oratorio di Gravedona (oggi proprietà della famiglia Motti), si trova un quadro raffigurante il medesimo “Cristo di Burgos”. Le ricerche del Professore Paolo Militello, dell’Università degli Studi di Catania, riconducono l’approdo in Italia del secondo “Cristo di Burgos”, sulle rive dell’Alto Lario nel piccolo oratorio intitolato alla Madonna della Soledad, alla storia del medico Giambattista Giovannini, originario del paese lariano, emigrato nella penisola iberica. A Madrid diventa chirurgo personale di Don Giovanni d’Austria e del Re Carlo II di Spagna. Giovannini, molto legato alla sua terra natale, nella seconda metà del Seicento fa edificare l’oratorio, dove nel 1688 viene collocata una statua lignea di provenienza spagnola della Madonna de la Soledad. Alla sua morte avvenuta nel 1691 tutti i beni personali, come indicato nel testamento, traslocano a Gravedona. Fra questi, c’è il quadro di provenienza spagnola del “Cristo di Burgos”. Quindi, è possibile che in Italia ci siano ancora altri dipinti che raffigurano il “Cristo di Burgos”.

Il Crocifisso nella Cappella del Santissimo Cristo della cattedrale di Burgos.

Le origini del “Cristo di Burgos”

L’iconografia del “Cristo di Burgos” ha origini antiche, collegata alla cattedrale di Burgos nella Castiglia, dove nella Cappella del Santissimo Cristo è custodita una scultura in legno di un Crocifisso miracolosa, che porta sin dall’approdo a Burgos nei primi anni del 1300 una particolare veste a forma di tunica, che ricopre la parte del corpo che va dai fianchi fino alle caviglie. Proprio da questo dettaglio della veste particolare, le opere che raffigurano il crocifisso prendono il nome di “Cristo di Burgos”.

Il panno del Crocifisso di Burgos viene cambiato di colore secondo il calendario liturgico.

Nei dipinti dalla lungo storia, che si trovano a Scicli e a Gravedona, è ritratta la crocifissione di Gesù che, a differenza delle iconografie classiche – che rappresenta Cristo in croce con il perizonium (dal greco, cintura attorno al fianco) – con una tunica bianca che coprono le gambe dai fianchi ai piedi con delle pieghe verticali e decorata da una fascia a merletto: da qui il nome popolare di “Cristo in gonnella”.

Si tratta di una rappresentazione inconsueta, che soltanto nell’ultimo decennio ha attirato l’attenzione dei studiosi, che hanno rivalutato questa opera, fino a quel momento quasi sconosciuta e poco considerata. Il quadro era appeso da più di un secolo ad una parete della sagrestia della chiesa di San Giovanni Evangelista a Scicli, fino a quando il Parroco Don Paolo Ruta, appassionato d’arte, circa 30 anni fa decise di farlo restaurare e di metterlo nella chiesa, restituendolo alla venerazione dei fedeli, che si chiedono perché il Cristo in croce indossa una “gonnella”. Poi, dopo anni di parcheggio nella chiesa del Carmine durante i lavori di restauro della chiesa di San Giovanni Evangelista, venne riportato all’inizio del 2012.

Partendo dall’iconografia del Crocifisso di Burgos, tanti pittori spagnoli tra il XVI e XX secolo hanno realizzato decine di riproduzioni della rappresentazione di Cristo con questo particolare veste, a testimonianza dell’intensità del culto del “Cristo di Burgos”, che si diffuse rapidamente in tutta la Spagna (dalla Castiglia alla Navarra fino all’Andalusia) e nei più sperduti angoli dell’Impero spagnolo (dal Centro e Sud America fino alle Filippine), grazie all’opera di evangelizzazione degli Agostiniani.

Fra i modelli iconografici, particolare successo ebbe quello realizzato nei decenni centrali del Seicento da Mateo Cerezo el Viejo, padre del più celebre Cerezo el Joven e autore di un’immagine del “Cristo di Burgos” riprodotta da decine di suoi allievi o imitatori, più o meno anonimi. Tra questi vi fu Juan Palazín, artista quasi sconosciuto, attivo tra fine Seicento e inizio Settecento a Medina del Campo, paese della provincia di Valladolid nella Castiglia. Di Palazín si conoscono due dipinti del “Cristo di Burgos”: uno, più grande, custodito nell’eremo di Nuestra Señora del Amparo a Medina del Campo; l’altro oggi esposto nella chiesa di San Giovanni Evangelista a Scicli.

Nel dipingere entrambi i quadri, Palazín utilizzò il modello “cereziano”, dall’impostazione generale fino alla fattura della firma con la data, 1695 (oggi quasi illeggibile), che ha posto ai piedi della croce, sotto l’uovo di struzzo, individuata dai restauratori Piero Fresta e Giovanna Comes durante il restauro effettuato alla fine degli anni Novanta. A mettere in rapporto il dipinto di Scicli con Mateo Cerezo el Viejo è stato Francesco Pellegrino in Il Santo Cristo di Burgos: invenzione di una iconografia su Ragusanews.com nel 2013.

Il quadro di Scicli presenta un chiaroscuro drammatico, tipico del tenebrismo spagnolo, che fa da sfondo al quadro: una scena buia, quasi nera, dove a stento è possibile scorgere una croce sopra quelle che sembrano delle nuvole su un monte (il Calvario). Sulla croce c’è Gesù, ormai spirante, illuminato da una luce che ne disegna, in chiaroscuro, il corpo martoriato. È nudo con solo un panno bianco, impreziosito da una fascia di merletto, che lo copre le gambe dai fianchi fin quasi alle caviglie. La testa coronato di spine è reclinata. Gli occhi sono quasi chiusi ormai. Le mani, aperte, sono trafitte da chiodi. Le braccia e il torace sono coperti di ferite con gocce di sudore e sangue. Il costato è deturpato e offeso da un taglio da cui sgorga, copioso, un fiotto sanguinolento. I piedi, uniti, sono trafitti da un chiodo al quale è appeso un uovo di struzzo, simbolo che nel Medioevo rappresentava l’emblema del corpo di Cristo, della Sua morte e resurrezione. Sopra l’uovo, due misteriose sfere di metallo, che fanno pensare alle altre uova presenti ai piedi del Crocifisso di Burgos. Ma potrebbero anche rappresentare due coppe argentate, in riferimento alle due ampolle contenenti il sangue di Cristo poste accanto al Crocifisso di Nicodemo. O le “sfere” (di terra e di acqua, celesti e terrestri…) sulle quali Sant’Agostino e i suoi seguaci tante volte avevano dissertato.

L’origine del Crocifisso di Burgos

La storia del Crocifisso di Burgos inizia con una leggenda, raccontata nel Libro de los milagros del Santo Crucifijo de San Agustín de la Ciudad de Burgos del 1622. Una mattina del 1308, su una nave proveniente dal Mare del Nord, un mercante spagnolo, terrorizzato, prega e chiede perdono per i suoi peccati. La nave era rimasta per tre giorni e tre notti in balìa di una tremenda tempesta.

Il mercante era partito da Burgos per condurre i suoi affari nelle Fiandre. Prima di partire, gli Agostiniani avevano promesso di pregare per lui. In cambio, il mercante aveva promesso di riportare dalle Fiandre un dono al convento. Gli affari erano andati molto bene, ma si era dimenticato della promessa e non aveva nulla da donare agli Agostiniani. Di ciò se n’era ricordato in mezzo alla tempesta, maledicendo se stesso e la sua stolta dimenticanza.

Mentre è in preghiera, tra le onde appare una cassa, che viene portata a bordo. Contiene una statua di Cristo con le mani incrociate sul petto, come se fosse stato riposto dentro un sepolcro. Per il mercante è un segno divino, l’occasione per espiare la sua dimenticanza. Acquista la cassa e tornato a Burgos dona il Cristo agli Agostiniani, che lo collocano su una croce sistemata in una cappella.

La statua è impressionante. Le membra del Cristo sofferente, rivestite di cuoio, morbide come quelle di un corpo vero, così come vere sembravano essere le unghie e i capelli. A renderla ancora più realistica, le giunture delle dita, delle braccia e dei piedi si muovano, e la testa reclinata può essere voltata. Il Cristo martoriato era nudo, tranne i fianchi e le gambe coperte da un panno antico, rimasto incorrotto.

Da quel giorno, il “Cristo di Sant’Agostino” rimase a Burgos e, conosciuto col nome di “Cristo di Burgos”, e dai fedeli chiamato anche il “Santo Cristo de las enagüillas” (Santo Cristo in gonnella).

I fedeli non esitarono ad attribuire la statua a Nicodemo, il discepolo di Gesù. Oltretutto, anche la leggenda del suo Crocifisso (il Volto Santo di Lucca) racconta che questo era arrivato a destinazione su un naviglio, privo di equipaggio, abbandonato in balìa dei venti e giunto, per grazia divina.

Il Crocifisso di Burgos divenne ben presto oggetto di culto e fonte di miracoli. Semplici fedeli, ma anche santi e regnanti, giunsero da tutta la Spagna per venerarlo. Come la Regina Isabella di Castiglia, che preso uno spavento quando, accarezzata il Crocefisso, questo si mosse. O come un fedele francese che, alla fine della Messa, senza essere visto, saltò sull’altare e, con un morso, staccò al Cristo un dito del piede e se lo portò in Francia come una “reliquia”. Fu proprio per nascondere questa mutilazione, che un altro mercante donò agli Agostiniani tre preziosa uova di struzzo portate con sé dall’Africa. Vennero collocate davanti ai piedi del Crocifisso, come pietoso velo ma anche come emblema del Salvatore.

L’arrivo del “Cristo di Burgos” a Scicli

L’arrivo di uno dei due dipinti di Palazin dalla Castiglia in Sicilia nel corso della dominazione spagnola è un’altra storia, che questa volta coinvolge un nobile spagnolo, Domingo de Cerratón, che portò con sé a Scicli la sacra immagine del “Cristo di Burgos”, come ha ricostruito il Professore Paolo Militello e hanno raccontato nel 2013 Francesco Pellegrino su Ragusanews.com e Don Ignazio La China su Catholicaforma.blogspot.it.

Domingo de Cerratón, nato nel 1658 a Villanasur, un villaggio di Burgos, da ragazzo era entrato come paggio alla Corte del VII Duca di Veragua, Pedro Manuel Colón de Portugal (uno dei discendenti di Cristoforo Colombo). Ben presto si era guadagnato la fiducia e la stima del Duca, che gli aveva conferito il prestigioso incarico di Maggiordomo, seguendolo in tutti i suoi spostamenti. Quando il Duca divenne Vicerè, si era trasferito con lui a Valenza, dove aveva conosciuto e sposato Donna Tereza Izco Quincoces, che era diventata a sua volta damigella della Duchessa.

Infine, arrivò a Palermo, quando Veragua era diventato Viceré di Sicilia, nel maggio del 1696. De Cerratón resta con il Duca a Palermo diversi anni, fin quando, nel 1701, Veragua termina il suo incarico. Nel frattempo de Cerratón era diventato Comandante della Sargenzia di Scicli, una delle dieci piazze d’armi del Regno. Ha circa 40 anni e sua moglie circa 25. Con loro giungono anche il figlio Pedro, nato a Cartagena nel 1692, e una figlia ancora piccola, nata nel 1699 a Palermo, e per questo chiamata Rosalia. Con sé portarono anche il dipinto del “Cristo di Burgos”.

A Scicli, i de Cerratón si ambientano subito e contribuiscono alla crescita religiosa della comunità con lasciti e donazioni. Conducono una vita felice, che però viene sconvolta da una tragedia: nel 1708 entrambi i figli muoiono di “febbre maligna”. Due anni dopo viene mancare anche de Cerratón. La sua moglie entra come suora nel Monastero delle Benedettine di San Giovanni, attiguo alla chiesa di San Giovanni Evangelista, continuando a elargire le sue donazioni, non solo soldi e generi di prima necessità, ma anche drappi di seta e “tele colorite” di diversi pittori. Tra questi c’è anche il “Cristo di Burgos”, che rimase nel monastero per oltre un secolo e mezzo, fino a quando nel 1866 il monastero venne incamerato dal Regno d’Italia e all’inizio del Novecento abbattuto e sostituito con il nuovo Palazzo di Città (il Municipio, dove è ambientato il Commissariato di Montalbano). Il quadro venne relegato nella sacrestia della chiesa, dove era rimasto fino ai giorni nostri.