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Anche in Emilia-Romagna braccio di ferro sul suicidio medicalmente assistito

“Nascere, vivere, morire: tre verbi che disegnano la traiettoria dell’esistenza. La persona li attraversa, forte della sua dignità che l’accompagna per tutta la vita: quando nasce, cresce, come quando invecchia e si ammala. Sperimenta forza e vulnerabilità, intimità e vita sociale, libertà e condizionamenti. Gli sviluppi della medicina e del benessere consentono oggi cure nuove e un significativo prolungamento dell’esistenza. Si profila così la necessità di modalità di accompagnamento e di assistenza permanente verso le persone anziane e ammalate, anche quando non c’è più la possibilità di guarigione, continuando e incrementando l’ampio orizzonte delle “cure”, cioè di forme di prossimità relazionale e mediche”.

Così inizia il giudizio della Conferenza episcopale dell’Emilia- Romagna sulle ‘Istruzioni tecnico-operative’ con le quali la giunta regionale aveva tracciato lo scorso 9 febbraio il percorso per ottenere il suicidio medicalmente assistito. Nella nota i vescovi hanno sottolineato che procurare la morte contrasta con il valore della vita:

“Alla base di questa esigenza ci sono il valore della vita umana, condizione per usufruire di ogni altro valore, che costruisce la storia e si apre al mistero che la abita, e la dignità della persona, in intrinseca relazione con gli altri e con il mondo che la circonda”.

Per questo il valore della vita impone la difesa delle persone fragili: “Il valore della vita umana si impone da sé in ogni sua fase, specialmente nella fragilità della vecchiaia e della malattia. Proprio lì la società è chiamata ad esprimersi al meglio, nel curare, nel sostenere le famiglie e chi è prossimo ai malati, nell’operare scelte di politiche sanitarie che salvaguardino le persone fragili e indifese, e attuando quanto già è normato circa le cure palliative. Impegno, questo, che qualifica come giusta e democratica la società. Procurare la morte, in forma diretta o tramite il suicidio medicalmente assistito, contrasta radicalmente con il valore della persona, con le finalità dello Stato e con la stessa professione medica”,

Per i vescovi dell’Emilia-Romagna la proposta del ‘suicidio medicalmente assistito’ è sconcertante, proponendo un loro contributo: “Esprimiamo con chiarezza la nostra preoccupazione e il nostro netto rifiuto verso questa scelta di eutanasia, ben consapevoli delle dolorose condizioni delle persone ammalate e sofferenti e di quanti sono loro legati da sincero affetto.

Ma la soluzione non è l’eutanasia, quanto la premurosa vicinanza, la continuazione delle cure ordinarie e proporzionate, la palliazione, e ogni altra cosa che non procuri abbandono, senso di inutilità o di peso a quanti soffrono”.

Tali ragioni possono trovarsi nell’umanità del cristianesimo, che si fonda sulla vita: “Tale prossimità e le ragioni che la generano hanno radici nell’umanità condivisa, nel valore unico della vita, nella dignità della persona, e trovano sorgente, luce e forza ulteriore in Gesù di Nazareth che, proprio sulla Croce, nella fase terminale della esistenza, ci ha redenti e ci ha donato sua madre, scambiando con Lei, con il discepolo amato e con chi condivideva la pena, parole e un testamento di vita unico, irrinunciabile, non dissimili a quelle confidenze che tanti cari ci hanno lasciato sul letto di morte”.

A tale giudizio il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, è disponibile ad ogni approfondimento, affermando che “le sentenze della Corte Costituzionale si applicano, come prescrive la Costituzione italiana. Possono certamente essere discusse e non condivise, ma non disattese, in ossequio al principio di legalità.

Come noto, la Corte Costituzionale si è pronunciata per colmare un vuoto sulla materia prodotto dall’inerzia prolungata del Parlamento. E lo ha fatto, ancora una volta, chiedendo alle Camere di legiferare, di discutere e approvare una legge nazionale. E questo è anche il mio auspicio”.

Nel frattempo la regione ha disposto  le modalità di accesso all’istituto del suicidio medicalmente assistito: “E lo ha fatto perché ciò è dovuto in uno Stato di diritto, scongiurando viceversa quanto altrove già accaduto e ancora rischia di accadere: che un paziente, peraltro in condizioni drammatiche, debba ricorrere al giudice ordinario per vedersi riconosciuto quello che, va ribadito, è un diritto ora sancito dalla Corte costituzionale. Sono certo che sul principio di legalità anche la Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna non possa che convenire”.

Sotto la punta dell’iceberg

Tra vacanze, tempi di sosta e relax, la notizia di due donne e un uomo che si uccidono in carcere nel giro di due giorni, alle soglie del ferragosto, non possono essere ‘passate’ tra i tanti fatti di cronaca: meritano attenzione, rispetto, e preghiera.

L’anima è per Dio, non per lo spiritismo: la testimonianza di una ragazza finita sull’orlo del suicidio

Mio padre è morto quando ero piccola, avevo solo sei anni. È morto perché gli hanno sparato, mentre faceva un blitz. Era poliziotto e aveva un grande senso del dovere. Quel senso del dovere che mio fratello, allora undicenne, ha presto fatto suo, mentre io mi sono sempre arrabbiata con papà: la sua voglia di combattere il male lo aveva portato via da me. Non era anche questo un male?

Lo hanno chiamato ‘eroe’, hanno detto che aveva dato la vita per la comunità. L’uomo che lo ha ucciso è finito in carcere anche per merito suo. Ma a me importava poco, a sette anni: non me ne facevo nulla di un padre acclamato dalla gente rinchiuso in una tomba o della stella data a mia madre in suo onore, nel primo anniversario dalla sua scomparsa. Sono cresciuta con un vuoto. Un vuoto che mamma non ha saputo gestire.

Ben presto sono diventata la pecora nera della famiglia, la piccola ribelle e indomabile che faceva di tutto pur di attirare le attenzioni e far capire quanto soffriva. Mentre mio fratello cresceva identico a nostro padre (bravo a scuola, impegnato nel volontariato, pieno di buoni progetti e di ‘valori’), io cercavo l’amore e la sicurezza in mia madre, che però non mi capiva.

Facevo il diavolo a quattro, lo ammetto. Era il mio modo di dirle: ‘Guardami, ho bisogno di te’, ma lei vedeva solo le mie urla, i miei capelli viola, le mie unghie nere e si vergognava di me. Sì, la metteva in imbarazzo che la ‘figlia dell’eroe’ fumasse canne e si vestisse sempre di nero. Questa, forse, era la cosa che mi pesava di più. Non essere amata in modo incondizionato da lei.

Ogni tanto, quando sbattevo la porta dietro di me, mi diceva: ‘Se ci fosse stato qui tuo padre non saresti mai diventata così! Ti approfitti di me perché sono sola… Non ce la faccio più!’ Mentre io chiedevo aiuto (in modo sbagliato, sì, ma non conoscevo un’altra lingua a sedici anni), lei mi faceva capire che ero un peso. E così vivevo io: sentendomi un peso. Prima di tutto ero un peso per me stessa.

Una sera, ad una mostra d’arte (quella era la mia grande passione, tanto che frequentavo il liceo artistico), ho conosciuto una pittrice che dipingeva cose molto particolari: animali con la testa da donna, donne con la testa di uccelli, uomini con gli zoccoli di cavallo ai piedi.

Abbiamo iniziato a parlare. Le ho detto che amavo gli animali (trovavo più conforto in loro e nella natura che non nelle persone) e che volevo capire il significato dei suoi quadri. Mi ha detto che il regno degli uomini e il regno degli animali è più connesso di quanto crediamo e che nei suoi quadri vuole ricordarci che siamo chiamati a convivere e rispettarci. Mi ha detto di non tollerare la presunta superiorità dell’uomo sul creato.

Non so come dire, ma era ammaliante mentre parlava, attraente. Aveva quel fascino da artista, quel carisma. Era una signora (20 anni più di me) ma un aspetto così giovanile… La vedevo simile a me.

Abbiamo deciso di rivederci. Paola, si chiamava. Frequentandoci ha iniziato a farmi capire che scorgeva il mio ‘grande potenziale’: secondo lei, avrei dovuto sprigionare la mia creatività e mostrare al mondo tutto il mio splendore.

(Prima Parte)

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