Tag Archives: Sguardo
Un Sinodo verso visioni differenti
La parabola del Buon Samaritano come mappa del cammino sinodale: è su questo snodo che suor Maria Ignazia Angelini ha incentrato ieri la sua meditazione, preparando i partecipanti alla riflessione sulla seconda parte dell’Instrumentum laboris, sul tema delle relazioni attraverso una similitudine tra Buon Samaritano e Sinodo: “Nella parabola del samaritano, implicitamente troviamo come tracciata, in simbolo, una mappa del cammino sinodale. Che nelle relazioni ha la sua rete portante. Relazioni in cui, prima ancora che di ‘fare’, si tratta di ‘vedere’. Il vedere che è alla base della spiritualità sinodale: ‘Ubi amor ibi oculus’: dov’è amore si apre una nuova visione”.
Il cammino sinodale è un cammino verso Gerico: “E possiamo vedere raffigurato lo stesso cammino sinodale: la via che da Gerusalemme ‘scende’ a Gerico è l’orizzonte a tutti i possibili percorsi. Il cammino sinodale, partito a molti livelli, e in molte direzioni (a seconda dei continenti, delle nazioni, dei contesti, delle collaborazioni), è unico. Ma per coloro che lo percorrono (ci rivela il Vangelo), si aprono visioni diverse: vedere e passar oltre, distanziandosi dall’altra parte. Nei dialoghi sinodali, quante storie si incrociano, quante attese deluse, oppure (trasformante!) quale sguardo potrà maturare”.
Ma a quale missione la Chiesa è chiamata è spiegata dalla religiosa benedettina: “Quella discesa da Gerusalemme a Gerico è modello di tutti i tragitti della missione. Lo sguardo che ‘scendendo’ vede la sventura sconvolge le viscere e trasforma il samaritano in prossimo; trasforma i rapporti di colui che, per sé, era ritenuto non averne di buoni: non potrà più staccarsi dal ‘mezzo morto’ che d’improvviso gli si è parato dinanzi. Una dimensione materna, viscerale, trasforma il lontano in vicino. La Chiesa ‘misericordiata’, in misericorde”.
La parabola insegna a vedere: “La punta della parabola è in quel ‘vedere’ che riconosce l’altro e mi intima di farmi prossimo; il vedere che infligge la ferita, fa scattare il sommovimento interiore da cui parte l’atto dell’ ‘erede’ della vita eterna, l’atto propriamente divino: l’umile compassione. Il lampo di luce che opera questo vedere, è scoccato dall’uomo nella necessità. Il quale può essere perfino fenomeno ripugnante (san Francesco lo apprende bene dall’incontro col lebbroso); o rivelazione sconvolgente. Evidenze nuove maturate attraverso l’incarnazione, la con-corporeità”.
E la visione implica la cura: “Prendersi cura, da samaritano chino su anonimo giudeo sventurato; accettare e rielaborare le differenze, e subito tendere alla costituzione di un pandocheion: una rete di relazioni ospitali. Una cultura della gratuita, umile compassione. Solo la rivelazione del Figlio ‘che discese’ può aprire gli occhi e il cuore a vedere…; e può realizzare questa prossimità improbabile, intimando il ‘fare’ sorprendentemente semplice, capace di edificare una umanità fraterna. L’altro nel bisogno è rivelazione sconvolgente. Che converte il cuore e ridisegna il mondo. Crea una cultura”.
Insomma l’invito di Dio è quello di non ‘passare oltre’: “Lo Spirito di Dio ama dimorare nei luoghi della liminalità. I bordi della strada che da Gerusalemme scende a Gerico. E’ principio di un ribaltamento dell’orizzonte dello spirituale. Un ribaltamento che in Gesù di Nazaret ha trovato piena rivelazione. La liturgia non sacrale dell’incontro con l’altro, appresa dal Mistero della celebrazione liturgica, è il nucleo ardente dello stile dello Spirito. La nostra natura umana è in radice imbevuta di relazioni. Dunque, prima o poi, giunge un momento nella vita di ciascuno di noi, in cui dobbiamo scegliere se fermarci o passare oltre”.
Di seguito il relatore generale del Sinodo della Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, card. Jean-Claude Hollerich, ha presentato il Modulo II dell’Instrumentum Laboris: “La sfida per il nostro lavoro dei prossimi giorni è sintonizzarci con il movimento che anima l’Instrumentum laboris, capace di tenere insieme i diversi livelli e i diversi ambiti, e raggiungere così la vita e le pratiche concrete delle nostre comunità. Sarebbe semplice rimanere su un piano generale e limitarci a ribadire l’importanza delle relazioni per lo sviluppo delle persone e delle comunità… Il Popolo di Dio aspetta da noi indicazioni e suggerimenti su come è possibile rendere quella visione sperimentabile concretamente”.
Infine il relatore generale ha invitato i padri sinodali alla ‘concretezza’: “Come credo stiate intuendo, affrontando la Sezione delle “Relazioni” cerchiamo passi per rendere operativa oggi la prospettiva ecclesiologica delineata dal Concilio…
La sfida dei prossimi giorni sarà mantenere il delicato equilibrio che allontani il rischio di cadere in un eccesso di astrazione da una parte, o in un eccesso di pragmatismo dall’altra. Nei lavori di gruppo così come in quelli in plenaria cerchiamo dunque di dare adeguato spazio tanto al piano dell’ispirazione, in collegamento con quanto delineato nei Fondamenti, quanto a quello delle pratiche, senza rinunciare a nessuno dei due e senza aver paura di disegnare il profilo di proposte concrete che le singole Chiese saranno poi chiamate ad adattare alle diverse circostanze”.
Il racconto di Yamo Ansari, dalla fuga dall’Afghanistan a soccorritore nel Mediterraneo
Yamo Ansari, nei mesi scorsi, ha svolto l’attività di soccorritore a Lampedusa come sanitario nelle motovedette del Corpo italiano dell’Ordine di Malta, dopo essersi laureato in scienze infermieristiche e sta raggiungendo il traguardo della seconda laurea (mentre lavora come infermiere) in Scienze politiche a Firenze. A 7 anni Yamo Ansari è fuggito da Ta Kamar in Afghanistan, dove vive con la madre e la sorella, per raggiungere il padre in Inghilterra; e dopo un lungo viaggio, attraversando Iran, Turchia, Grecia, il Mediterraneo, sale su un camion clandestinamente, con cui, dopo due giorni, arriva al confine con l’Italia, dove è scoperto ed affidato ad un centro per minorenni nel maceratese, nelle Marche:
“Io e mio zio salimmo su un camion e ci nascondemmo tra i bancali; viaggiammo due giorni accucciati per non farci scoprire. Ma, purtroppo una mossa di troppo e l’autista sentì il rumore, chiamando la polizia di frontiera”. Qui incontra una famiglia affidataria (Onelio Cingolani e Paola Giacobelli) che lo accoglie nella casa di Tolentino, insieme ai loro tre figli. E nel 2021 si è laureato davanti ai ‘quattro genitori’, in quanto il padre è riuscito dalla Francia ad ottenere il ricongiungimento per la famiglia originaria.
Per quale motivo la scelta dell’infermiere a bordo di una nave dell’Ordine di Malta a Lampedusa?
“Il motivo principale che mi ha spinto a intraprendere questo viaggio è stato senza dubbio il desiderio di aiutare il prossimo. Sentivo l’esigenza di vivere un’esperienza diversa dalla quotidianità di una corsia ospedaliera. Volevo entrare in contatto diretto con la sofferenza umana, vederla e toccarla con mano, al di fuori delle mura protettive di un ospedale.
Credo fermamente che siano proprio queste esperienze a cambiare profondamente le nostre prospettive. L’interazione con persone in situazioni di grande difficoltà ci costringe a rivedere le nostre priorità, a rivalutare ciò che consideriamo importante nella vita quotidiana e a sviluppare una maggiore empatia e comprensione per le difficoltà altrui. Questo viaggio ha rappresentato per me, un’opportunità unica di crescita personale e professionale.
Inoltre, la possibilità di offrire il mio aiuto a chi ne ha davvero bisogno mi ha dato un senso di appagamento e di realizzazione che difficilmente avrei potuto sperimentare altrove. La sofferenza umana, osservata da vicino, ha la capacità di farci riscoprire il vero significato della solidarietà e dell’altruismo.
Ogni incontro, ogni sorriso ed ogni parola di gratitudine che ho ricevuto in questo viaggio hanno contribuito a rafforzare la mia convinzione che la mia scelta non solo fosse giusta, ma anche necessaria per il mio percorso di vita. In sintesi, questo viaggio non è stato solo un’opportunità di aiutare il prossimo, ma anche un’occasione per rinnovare e arricchire la mia visione del mondo, trasformando in maniera indelebile il mio modo di percepire la sofferenza e di interagire con essa”.
Come ha deciso di lasciare l’Afghanistan?
“All’età di 7 anni, non si ha alcuna capacità decisionale autonoma. A questa tenera età, si è felici in qualsiasi contesto ci si trovi, persino sotto le bombe. La percezione della realtà, infatti, è ancora incompleta e non pienamente sviluppata. E’una fase della vita in cui il mondo esterno è filtrato attraverso l’innocenza e la semplicità infantile. Le decisioni importanti, che possono determinare il corso della vita di un bambino, sono necessariamente prese dagli adulti che lo circondano. Genitori, familiari e tutori sono coloro che valutano e stabiliscono ciò che ritengono essere il meglio per il minore.
In un contesto di guerra, ad esempio, un bambino di 7 anni non può comprendere appieno la gravità e la pericolosità della situazione. La sua mente è ancora troppo giovane per afferrare concetti complessi come la violenza, la perdita e la distruzione. Per lui, un rifugio antiaereo potrebbe sembrare un luogo avventuroso, ignaro dei veri pericoli che lo circondano. Gli adulti, invece, devono prendere decisioni difficili e dolorose per garantire la sicurezza e il benessere del bambino, spesso senza poter spiegare in modo comprensibile le ragioni delle loro scelte”.
In quale modo è arrivato in Italia?
“Diciamo che ne ho fatti di chilometri a piedi, una maratona più lunga del normale: però, ripeto, non ci si rende conto ed è questa la bellezza: una maratona che va dall’Afghanistan all’Inghilterra, passando per Iran, Turchia, Grecia ed infine Italia, la destinazione non scelta, sogno dell’Inghilterra andata in frantumi”.
Quale è l’attività svolta su una nave che soccorre i migranti?
“A bordo delle navi della guardia costiera, è sempre presente il personale sanitario del CISOM, il Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta. L’attività principale che si svolge a bordo delle motovedette consiste nel monitorare la salute generale delle persone soccorse. Questo compito comporta una varietà di interventi, che vanno dalla rianimazione cardiopolmonare alle semplici medicazioni di ferite od ustioni riportate dai naufraghi. Le ferite trattate dai sanitari del CISOM sono spesso causate dalle azioni della guardia costiera libica o tunisina.
Inoltre, molte persone soccorse presentano ustioni, provocate dalla cosiddetta ‘miscela maledetta’, una combinazione di acqua e carburante che produce gravi lesioni cutanee. Questo tipo di ustione è particolarmente doloroso e richiede un trattamento immediato per prevenire ulteriori complicazioni”.
Quali sentimenti ha provato nel soccorrere i migranti?
“I sentimenti che emergono nel momento in cui si soccorrono le persone ammassate l’una sull’altra su un maledetto barchino di ferro, di appena cinque metri di lunghezza, sono complessi e contrastanti. Questi individui hanno affrontato un’odissea infernale, attraversando i Paesi dell’Africa centro-meridionale ed il deserto, con la sola speranza di raggiungere le coste del Nord Africa per poi affrontare l’incertezza della traversata verso l’Europa. Ogni passo di questo viaggio è stato segnato da immense difficoltà e pericoli, con la costante minaccia di fallimento o di morte.
Quando finalmente vengono avvistati e soccorsi dalla guardia costiera, la disumanità del presente diventa subito evidente. La vista di queste persone, stremate e disperate, ammassate su imbarcazioni del tutto inadatte, è un colpo al cuore. Questi esseri umani, che hanno sopportato inenarrabili sofferenze e privazioni, ci pongono di fronte alla cruda realtà delle loro vite.
L’inevitabile mescolanza di rabbia e gioia invade il cuore dei soccorritori: rabbia per le circostanze ingiuste e crudeli che hanno costretto queste persone a intraprendere un simile viaggio; gioia perché finalmente, dopo tante traversie, si sentono al sicuro, si sentono salvate. Il momento in cui salgono a bordo della motovedetta è carico di emozione.
La loro prima reazione è cercare con lo sguardo la bandiera presente sull’imbarcazione. ‘Italia?’, chiedono con speranza e timore nella voce. Non appena riconoscono la bandiera italiana, molti scoppiano in lacrime di sollievo. Questa bandiera rappresenta per loro la fine di un incubo e l’inizio di una nuova possibilità di vita. Le lacrime che scorrono non sono solo il frutto del sollievo fisico, ma anche dell’emozione intensa che deriva dalla consapevolezza di essere finalmente fuori pericolo.
Il personale della guardia costiera ed i sanitari del CISOM sono testimoni di queste scene strazianti ed, al contempo, toccanti. Essi comprendono profondamente la gravità della situazione e l’importanza del loro ruolo nel fornire soccorso e conforto. Ogni intervento non è solo un’operazione di salvataggio fisico, ma anche un atto di umanità e di speranza.
Queste persone, spesso traumatizzate ed indebolite, trovano nei soccorritori un punto di riferimento ed un primo segnale di accoglienza. Il lavoro svolto a bordo delle motovedette è essenziale non solo per curare le ferite del corpo, ma anche per iniziare a sanare le ferite dell’anima, causate da un viaggio disperato in cerca di salvezza.
Ogni passo del processo di soccorso è carico di significato. L’approccio iniziale; il salvataggio dall’acqua; il primo contatto umano che spesso si traduce in un semplice gesto di conforto; sono momenti di straordinaria intensità emotiva. Vedere le persone crollare in lacrime di fronte alla bandiera italiana rafforza nei soccorritori la consapevolezza della portata del loro intervento.
Queste lacrime rappresentano la fine di un calvario e l’inizio di una nuova speranza. Il compito di soccorrere queste persone non è solo un dovere professionale, ma un imperativo morale. Ogni singolo salvataggio rappresenta un trionfo della speranza sulla disperazione, dell’umanità sull’indifferenza. Ogni persona salvata porta con sé una storia di coraggio e sofferenza, ma anche di speranza e di resilienza.
Il viaggio di queste persone verso una nuova vita inizia con un gesto di compassione e di solidarietà, un gesto che rimarrà impresso nei loro cuori per sempre. Le esperienze vissute a bordo delle motovedette della guardia costiera non solo salvano vite, ma anche ripristinano la fiducia nell’umanità, dimostrando che, nonostante le difficoltà, esiste ancora la capacità di aiutare e di prendersi cura degli altri in modo significativo e profondo”.
Quali sono i progetti per il ‘futuro’?
“Ci sono molti progetti per il futuro, ma al momento il mio obiettivo principale è quello di crescere, di comprendere meglio il mondo che mi circonda e di arricchire il mio bagaglio di conoscenze. Attualmente, sto completando i miei studi presso la Scuola in Scienze Politiche ‘Cesare Alfieri’ dell’Università di Firenze. Questo percorso accademico mi offre l’opportunità di approfondire temi fondamentali per la comprensione delle dinamiche politiche, sociali ed economiche che governano la nostra società.
Riflettendo sulla mia esperienza e su quella dei miei coetanei, mi rendo conto che spesso non riusciamo a percepire appieno il grande privilegio che ci è stato concesso. Viviamo in un’epoca caratterizzata da un accesso senza precedenti ad informazioni, risorse educative e tecnologie avanzate. Abbiamo a nostra disposizione strumenti che le generazioni precedenti potevano solo sognare, eppure sembra che questa abbondanza ci stia rendendo sempre più pigri.
L’accesso immediato a qualsiasi tipo di informazione, pur essendo un grande vantaggio, ha portato molti di noi a perdere la capacità critica e l’inclinazione all’approfondimento. Ci accontentiamo di risposte superficiali e rapide, senza prendere il tempo necessario per analizzare, comprendere e formare opinioni solide e ben informate. Questo atteggiamento ci rende vulnerabili alle manipolazioni e ci espone al rischio di essere facilmente raggirati.
Inoltre, la comodità offerta dalle tecnologie moderne spesso ci induce ad evitare il confronto diretto e l’interazione personale. Preferiamo comunicare tramite schermi e social media, piuttosto che impegnarci in discussioni faccia a faccia, dove l’immediatezza e la complessità delle emozioni umane richiedono maggiore empatia e capacità di ascolto.
Il percorso di studi, che sto seguendo, mi ha aiutato a riconoscere l’importanza di sviluppare un pensiero critico e indipendente. La Scuola ‘Cesare Alfieri’ mi ha fornito gli strumenti per analizzare le questioni politiche e sociali con rigore e profondità, spingendomi a interrogarmi su temi complessi ed a cercare risposte basate su dati concreti e analisi ponderate”.
Eppoi anche un racconto della tua vita?
“E’ fondamentale che, come giovani, ci rendiamo conto del ruolo cruciale che abbiamo nella costruzione del futuro. Dobbiamo sfruttare al massimo le opportunità che ci vengono offerte, impegnandoci a sviluppare competenze e conoscenze che ci permettano di essere cittadini informati e responsabili. Solo così potremo contribuire in modo significativo alla società, evitando di diventare semplici spettatori passivi o, peggio ancora, vittime di manipolazioni.
Infatti un altro progetto che tengo particolarmente a cuore è quello di finire l’autobiografia e pubblicarla in futuro. Uscirà, ma non so esattamente quando; la mia vita è stata segnata da esperienze uniche e significative che credo possano offrire spunti di riflessione ed ispirazione per molti. Ma, per ora, il mio impegno attuale è rivolto non solo al completamento dei miei studi, ma anche alla crescita personale ed intellettuale.
Sono determinato a utilizzare le risorse a mia disposizione per diventare una persona capace di pensare con la propria testa, di comprendere le sfide del presente e di contribuire positivamente al cambiamento. La consapevolezza del privilegio che abbiamo deve spingerci a non accontentarci della superficialità, ma a cercare sempre una maggiore profondità e comprensione nelle nostre azioni e nelle nostre scelte”.
(Tratto da Aci Stampa)
Maria, Madre dei giovani: ecco cosa possiamo imparare da lei
1.Lasciatevi guardare da Dio (Lc 1,48) tali benedicenti e benevole parole costudite nel Magnificat ci invitano e supportano nel recuperare il benedicente e paterno guardo di Dio sulla nostra vita e sulla nostra esistenza. Occorre infatti, diffidare di sguardi profetici negativi che ci privano della libertà e non ci lasciano essere noi stessi e cercare invece, lo sguardo di chi incoraggia la nostra libertà, ci entusiasma, ci dilata il cuore e ci fa avere fiducia in noi stessi nutrendoci di ottimistica predilezione, sottoponendo la nostra biografia ad una narrazione profetica positiva.
Consenti dunque, a Dio e a Maria di scrutare sinceramente il tuo cuore, senza alcun timore o vergogna. Loro non ti guardano per indagare con austera, infeconda e giudicante. severità né tantomeno per colpevolizzarti, farti sentire in imbarazzo o inadeguato ma al contrario, sempre ed incondizionatamente accolto, amato e perdonato, ti guardano perché ti amano infinitamente, osservando e curando le tue ferite con autentica e concreta compassione e tenerezza: sei suo figlio! Lasciati guardare dalla misericordia di Dio e anche dalla sua santità, specchiati in lui: non ti accorgi di quanto vali? Forse no, perché tu stesso ti disistimi, ma lasciati guardare da Lui,
Egli ti ha creato, sa bene come sei e conosce il tuo intrinseco valore. Nessuno sguardo è così incoraggiante e benedicente come quello di Dio. Maria è stata guardata da Lui integralmente e perdutamente. Collocandoci dinnanzi al Signore, infatti, sappiamo che il suo sguardo ci avvolge e ci risolleva paternamente sopratutto quando ci sentiamo più demoralizzanti, persi e sbagliati, perché è proprio in quel momento che abbiamo più bisogno di Lui.
2. Lasciatevi amare e incontrare da Dio (Lc 1,28) Nell’episodio dell’annunciazione, il suo audace e suadente ‘Eccomi’, è proprio questo lasciarsi incontrare da Dio ed incontrarlo. L’aggettivo greco κεχαριτωμένη tradotto con Piena di Grazia, significa piuttosto colma del favore di Dio, amatissima da Dio, pertanto sottoposta alla sua narrazione profetica positiva e benedicente. La giovinezza è il tempo in cui devi lasciarti amare da qualcuno. Lasciati incontrare, cerca e scruta nel profondo, senza alcuna paura ma con autentica umiltà e perseveranza.
3. Lasciatevi coinvolgere da Dio (Lc 1,38) Dio ti coinvolge, ha bisogno di te. Maria assiste, incoraggia e supporta maternamente il meraviglioso ed arduo itinerario della crescita. È lei la Mediatrice di ogni Grazia, perché nulla passa da Dio a noi se non mediante le delicate e materne mani di Maria. Che confidenza allora possiamo esprimere ed avere in lei che, essendo autenticamente e teneramente Mamma, non si spaventa o scandalizza delle nostre umane fragilità e tantomeno le strumentalizza ma al contrario, ci comprende e ci guida con infinita tenerezza, sapienza, e delicatezza, senza farci sentire mai sbagliati, criticati, rimproverati o giudicati ma anzi ci aiuta a comprendere non solo che le cadute possono verificarsi, ma anche che esse fanno parte del percorso, poiché il fallire fa parte del tentare.
Maria è sempre presente ed in una modalità peculiarmente dirompente nell’epoca della giovinezza, poiché costituisce la delicatissima, entusiasmante e cruciale fase di una personalità in formazione, Lei è china su di noi, con pronta sollecitudine, comprensione e materna trepidazione.
Maria conosce, comprende ed accoglie con materna e paziente tenerezza e i nostri limiti, le nostre gioie, conquiste, innamoramenti, amicizie e quesiti ma anche i nostri dubbi, il nostro dolore, le nostre paure, reticenze e peccati. Proprio nei momenti di maggior fragilità, bisogna infatti, peculiarmente affidare e confidare a Lei tutto ciò che portiamo nel cuore, senza alcuna paura o soggezione, mediante un costante, sapiente ed intimo dialogo, colmo di fiducia confidenza, amore e speranza mediante il quale poter svelare e confidare i nostri più intimi segreti e nel quale Lei stessa ci parla al cuore. Maria sa, cura, vede, segue, palpita. Nessuno come lei è vicina ai giovani ed è bene che essi lo sappiano affinché possano entrare in una filiale, tenera, profonda, concreta e liberante intimità con Lei.
I giovani devono quindi sapere che Maria è costantemente al loro fianco, li conduce uno per uno per mano, non importa quanto i loro errori, fragilità o peccati siano intensi ed ingenti: Maria li ama, comprende, accoglie e perdona. Sempre e comunque. Mediante la sua presenza, Dio ha dunque, compiuto e consegnato a tutti ed a ciascuno ed in una modalità privilegiata ai giovani, il più ricco, arricchente ed essenziale dono: una Madre, a cui possiamo raccontare tutto e con la quale instaurare un rapporto così intimo, filiale e profondo da denominarla e considerarla, personalmente, concretamente e dolcemente Mamma.
(Fine)
Papa Francesco: alziamo lo sguardo
“Le donne vanno al sepolcro alle prime luci dell’alba, ma dentro di sé conservano il buio della notte. Pur essendo in cammino, sono ancora ferme: il loro cuore è rimasto ai piedi della croce. Annebbiate dalle lacrime del Venerdì Santo, sono paralizzate dal dolore, sono rinchiuse nella sensazione che ormai sia tutto finito, che sopra la vicenda di Gesù sia stata messa una pietra. E proprio la pietra è al centro dei loro pensieri”: nella veglia pasquale papa Francesco ha sottolineato i dubbi che assillavano le donne durante l’omelia.
Nell’omelia il papa ha evidenziato due momenti, che conducono alla gioia della Pasqua: “Anzitutto, primo momento, c’è la domanda che assilla il loro cuore spezzato dal dolore: chi ci farà rotolare via la pietra dal sepolcro? Quella pietra rappresentava la fine della storia di Gesù, sepolta nella notte della morte. Lui, la vita venuta nel mondo, è stato ucciso; Lui, che ha manifestato l’amore misericordioso del Padre, non ha ricevuto pietà; Lui, che ha sollevato i peccatori dal peso della condanna, è stato condannato alla croce.
Il Principe della pace, che aveva liberato un’adultera dalla furia violenta delle pietre, giace sepolto dietro una grossa pietra. Quel masso, ostacolo insormontabile, era il simbolo di ciò che le donne portavano nel cuore, il capolinea della loro speranza: contro di esso tutto si era infranto, con il mistero oscuro di un tragico dolore che aveva impedito ai loro sogni di realizzarsi”.
Ciò avviene ogni qualvolta si sperimenta la delusione: “Sono ‘macigni della morte’ e li incontriamo, lungo il cammino, in tutte quelle esperienze e situazioni che ci rubano l’entusiasmo e la forza di andare avanti: nelle sofferenze che ci toccano e nelle morti delle persone care, che lasciano in noi vuoti incolmabili; li incontriamo nei fallimenti e nelle paure che ci impediscono di compiere quanto di buono abbiamo a cuore; li troviamo in tutte le chiusure che frenano i nostri slanci di generosità e non ci permettono di aprirci all’amore; li troviamo nei muri di gomma dell’egoismo e dell’indifferenza, che respingono l’impegno a costruire città e società più giuste e a misura d’uomo; li troviamo in tutti gli aneliti di pace spezzati dalla crudeltà dell’odio e dalla ferocia della guerra”.
Eppure le donne sono state capaci di alzare lo sguardo per vedere Gesù risorto: “Risuscitato dal Padre nella sua, nella nostra carne con la forza dello Spirito Santo, ha aperto una pagina nuova per il genere umano. Da quel momento, se ci lasciamo prendere per mano da Gesù, nessuna esperienza di fallimento e di dolore, per quanto ci ferisca, può avere l’ultima parola sul senso e sul destino della nostra vita. Da quel momento, se ci lasciamo afferrare dal Risorto, nessuna sconfitta, nessuna sofferenza, nessuna morte potranno arrestare il nostro cammino verso la pienezza della vita”.
Questa è la Pasqua: “Fratelli e sorelle, Gesù è la nostra Pasqua, Lui è Colui che ci fa passare dal buio alla luce, che si è legato a noi per sempre e ci salva dai baratri del peccato e della morte, attirandoci nell’impeto luminoso del perdono e della vita eterna. Fratelli e sorelle, alziamo lo sguardo a Lui, accogliamo Gesù, Dio della vita, nelle nostre vite, rinnoviamogli oggi il nostro ‘sì’ e nessun macigno potrà soffocarci il cuore, nessuna tomba potrà rinchiudere la gioia di vivere, nessun fallimento potrà relegarci nella disperazione”.
E’ un invito ad alzare lo sguardo al cielo: “Fratelli e sorelle, alziamo lo sguardo a Lui e chiediamogli che la potenza della sua risurrezione rotoli via i massi che ci opprimono l’anima. Alziamo lo sguardo a Lui, il Risorto, e camminiamo nella certezza che sul fondo oscuro delle nostre attese e delle nostre morti è già presente la vita eterna che Egli è venuto a portare”.
(Foto: Santa Sede)
Mons. Mario Delpini: ci vuole coraggio
“Riconosciamo che la fiducia è la virtù doverosa di coloro che interpretano la vita come una vocazione. E’ un dovere per noi tutti e in modo speciale per coloro che hanno responsabilità per il bene comune. La fiducia è un dono che chiede di essere reciprocamente offerto. Significa: volgere lo sguardo con benevolenza verso l’altro. Fidarsi, avvicinandosi all’altro, mettere nelle mani dell’altro la propria speranza. Esprimere gratitudine, credere alla promessa che l’altro è per te”. Così l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha concluso il ‘Discorso alla Città’, pronunciato nella Basilica di Sant’Ambrogio alla vigilia della festa del Santo patrono.
Come è possibile scoprire Gesù nei poveri? ‘Bisogna conoscerli e parlarci’
“Soffermarci sul Libro di Tobia, un testo poco conosciuto dell’Antico Testamento, avvincente e ricco di sapienza, ci permetterà di entrare meglio nel contenuto che l’autore sacro desidera trasmettere. Davanti a noi si apre una scena di vita familiare: un padre, Tobi, saluta il figlio, Tobia, che sta per intraprendere un lungo viaggio. Il vecchio Tobi teme di non poter più rivedere il figlio e per questo gli lascia il suo ‘testamento spirituale’.
Papa Francesco a Marsiglia: fraternità od indifferenza
Papa Francesco: dal popolo mongolo un invito a guardare verso l’alto
Al termine dell’udienza generale odierna, salutando i fedeli di lingua inglese, papa Francesco ha pregato per le 74 vittime dell’incendio divampato la scorsa settimana in un palazzo nel centro di Johannesburg, in Sudafrica: “Con vivo dolore ho appreso dell’incendio scoppiato in un edificio di cinque piani scoppiato a Johannesburg in cui sono morte più di 70 persone tra cui diversi bambini. Vi invito a unirvi a me nella preghiera per le vittime. Ai familiari esprimo il mio cordoglio e invio una speciale benedizione per loro e a quanti si stanno prodigando per fornire assistenza e supporto”.
E, come di consueto dopo ogni viaggio pastorale, papa Francesco ha raccontato le motivazioni del suo viaggio apostolico in Mongolia, ringraziando per l’accoglienza: “Lunedì sono rientrato dalla Mongolia. Vorrei esprimere riconoscenza a quanti hanno accompagnato la mia visita con la preghiera e rinnovare la gratitudine alle Autorità, che mi hanno solennemente accolto: in particolare al Signor Presidente Khürelsükh,e anche all’ex Presidente Enkhbayar, che mi aveva consegnato l’invito ufficiale a visitare il Paese. Ripenso con gioia alla Chiesa locale e al popolo mongolo: un popolo nobile e saggio, che mi ha dimostrato tanta cordialità e affetto. Oggi mi piacerebbe portarvi al cuore di questo viaggio”.
Ed ecco il motivo per cui il papa è andato nel Paese al centro dell’Asia: “Perché è proprio lì, lontano dai riflettori, che spesso si trovano i segni della presenza di Dio, il quale non guarda alle apparenze, ma al cuore come abbiamo sentito nel brano del profeta Samuele. Il Signore non cerca il centro del palcoscenico, ma il cuore semplice di chi lo desidera e lo ama senza apparire, senza voler svettare sugli altri. E io ho avuto la grazia di incontrare in Mongolia una Chiesa umile ma una Chiesa lieta, che è nel cuore di Dio, e posso testimoniarvi la loro gioia nel trovarsi per alcuni giorni anche al centro della Chiesa”.
Ha raccontato la storia di una Chiesa missionaria, che è testimone di Gesù: “Quella comunità ha una storia toccante. E’ sorta, per grazia di Dio, dallo zelo apostolico (su cui stiamo riflettendo in questo tempo), di alcuni missionari che, appassionati del Vangelo, circa trent’anni fa sono andati in quel Paese che non conoscevano. Ne hanno imparato la lingua (che non è facile) e, pur venendo da nazioni diverse, hanno dato vita a una comunità unita e veramente cattolica”.
Proprio in Mongolia si può capire il significato della parola ‘cattolico’: “Questo infatti è il senso della parola ‘cattolico’, che significa ‘universale’. Ma non si tratta di un’universalità che omologa, bensì di un’universalità che s’incultura, è una universalità che si incultura. Questa è la cattolicità: un’universalità incarnata, ‘inculturata’ che coglie il bene lì dove vive e serve la gente con cui vive. Ecco come vive la Chiesa: testimoniando l’amore di Gesù con mitezza, con la vita prima che con le parole, felice delle sue vere ricchezze: il servizio del Signore e dei fratelli”.
Inoltre ha constatato che in Mongolia la Chiesa è nata nel solco delle opere di carità: “A compimento della mia visita ho avuto la gioia di benedire e inaugurare la ‘Casa della misericordia’, prima opera caritativa sorta in Mongolia come espressione di tutte le componenti della Chiesa locale. Una casa che è il biglietto da visita di quei cristiani, ma che richiama ogni nostra comunità a essere casa della misericordia: cioè luogo aperto, luogo accogliente, dove le miserie di ciascuno possano entrare senza vergogna a contatto con la misericordia di Dio che rialza e risana”.
Questa è testimonianza: “Ecco la testimonianza della Chiesa mongola, con missionari di vari Paesi che si sentono un’unica cosa con il popolo, lieti di servirlo e di scoprire le bellezze che già vi sono. Perché questi missionari non sono andati lì a fare proselitismo, questo non è evangelico, sono andati lì a vivere come il popolo mongolo, a parlare la loro lingua, la lingua di quella gente, a prendere i valori di quel popolo e predicare il Vangelo in stile mongolo, con le parole mongole. Sono andati e si sono ‘inculturati’: hanno preso la cultura mongola per annunciare in quella cultura il Vangelo”.
Eppoi ha apprezzato la ‘ricerca’ religiosa di quel popolo: “La Mongolia ha una grande tradizione buddista, con tante persone che nel silenzio vivono la loro religiosità in modo sincero e radicale, attraverso l’altruismo e la lotta alle proprie passioni. Pensiamo a quanti semi di bene, nel nascondimento, fanno germogliare il giardino del mondo, mentre abitualmente sentiamo parlare solo del rumore degli alberi che cadono!.. E per questo è importante, come fa il popolo mongolo, orientare lo sguardo verso l’alto, verso la luce del bene. Solo in questo modo, a partire dal riconoscimento del bene, si costruisce l’avvenire comune; solo valorizzando l’altro lo si aiuta a migliorare”.
Ha concluso l’udienza generale con l’invito ad ‘allargare’ lo sguardo: “Mi ha fatto bene incontrare il popolo mongolo, che custodisce le radici e le tradizioni, rispetta gli anziani e vive in armonia con l’ambiente: è un popolo che scruta il cielo e sente il respiro del creato. Pensando alle distese sconfinate e silenziose della Mongolia, lasciamoci stimolare dal bisogno di allargare i confini del nostro sguardo, per favore: allargare i confini, guardare largo e alto, guardare e non cadere prigionieri delle piccolezze, allargare i confini del nostro sguardo, perché veda il bene che c’è negli altri e sia capace di dilatare i propri orizzonti e anche dilatare il proprio cuore per capire, per essere vicino a ogni persona e a ogni civiltà”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco ai giornalisti: siate protagonisti della storia
Giornata dei Poveri: non distogliere lo sguardo
“La Giornata Mondiale dei Poveri, segno fecondo della misericordia del Padre, giunge per la settima volta a sostenere il cammino delle nostre comunità. È un appuntamento che progressivamente la Chiesa sta radicando nella sua pastorale, per scoprire ogni volta di più il contenuto centrale del Vangelo. Ogni giorno siamo impegnati nell’accoglienza dei poveri, eppure non basta… Per questo, nella domenica che precede la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo, ci ritroviamo intorno alla sua Mensa per ricevere nuovamente da Lui il dono e l’impegno di vivere la povertà e di servire i poveri”.