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Quarta Domenica di Pasqua: Io sono il buon Pastore

Chi è Gesù? Domanda legittima alla quale un giorno l’apostolo Pietro aveva risposto: ‘Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente’; domanda alla quale oggi Gesù stesso risponde affermando: ‘Io sono il buon Pastore’: immagine suggestiva quella del ‘Pastore buono’ che conosce le sue pecorelle, le chiama per nome, le conduce fuori e le pecore lo seguono perché riconoscono la sua voce. Pastore ‘buono’ non perché paziente e delicato con le sue pecorelle o agnelli, ma pastore vero ed autentico perché difende, conosce, ama le sue pecorelle e si contrappone al mercenario, che segue le pecore solo per la mercede, il salario, lo stipendio.

Gesù conosce le sue pecorelle una per una  e queste riconoscono Lui; per Gesù infatti non siamo una massa, una moltitudine, ma siamo persone ognuna con la propria storia e Gesù ci ama ed è pronto a dare la vita per ciascuno: l’amore per le sue pecore lo porta a morire in croce per loro, il tratto specifico che lo caratterizza come pastore buono è quello di ‘dare la vita per le pecore’. Il mercenario, colui che va dietro le pecore per la mercede pattuita, per il salario se vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge; il lupo le rapisce e le disperde, il vero Pastore dà la vita per le sue pecore, ha interesse di farle crescere sane  e sicure.

Ecco perché Gesù aggiunge: ‘Ho altre pecore che non appartengono a questo recinto: anche quelle io devo guidare; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore’. Davanti allo sguardo di Cristo Gesù è presente l’esperienza drammatica di una moltitudine di persone ‘stanche e sfinite come pecore senza pastore’. Da qui l’invito alla preghiera: ‘Pregate, Egli dice, il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe’; con la preghiera occorre anche l’azione.

Gesù infatti non solo prega, ma chiama gli Apostoli, li forma alla sua scuola per ben tre anni, li invia poi ad annunciare il Vangelo: ‘Come il Padre ha mandato me, io ora mando voi’. Ieri come oggi Gesù chiama giovani ed adulti all’apostolato attivo; invita ad impegnarsi  a seguirlo in modo totale: ‘Non abbiate paura; non vi lascio soli’. Gesù conosce le difficoltà dell’apostolato e dona ai ‘chiamati’ forza e coraggio per superarle.

Egli è quel pastore buono che vive ed attua il programma a cui fa riferimento papa Francesco  nell’enciclica ‘Fratelli tutti’: vivere e scoprire l’affascinante vocazione ricevuta ciascuno di noi nel Battesimo: la chiamata alla vera libertà che ci rende figli di Dio e fratelli e sorelle tra di noi. Chi è allora Gesù? Egli è il vero buon Pastore che offre la vita per le sue pecore; nessuno, Egli dice, me la toglie, ma la offro io da me stesso.

2.000 anni di cristianesimo ci hanno fatto incontrare capi di popolo che hanno mandato allo sbaraglio, al macello grandi masse di gente; agitatori politici che si sono insanguinati le mani, sotto l’egida di ideali veri o presunti, ma nessuno ha preferito sacrificare se stesso per il bene del popolo; il primo dovere del vero Pastore, sull’esempio di Gesù, è conoscere il proprio gregge, è custodire il gregge nella piena consapevolezza che comandare, guidare un popolo significa ‘servire il popolo’, come ha fatto Gesù, pronto anche a lavare i piedi ai suoi: ‘Mi chiamate Signore e Maestro e dite bene perché lo sono’, ma io vi ho lavato i piedi, vi ha dato l’esempio: ‘Come ho fatto io, fate voi’.

Con Cristo Gesù si viene ad instaurare l’era nuova, l’era dei figli di Dio, l’era della vera libertà. I dominatori oggi spesso concepiscono il rapporto con i sudditi in chiave di dominio e di sfruttamento: spremere dai sudditi tutto il possibile, come si spreme dalle pecore il latte, la carne, la lana lasciando le pecore sempre più deboli, malate, ferite per poterle meglio dominare. Questi sono falsi pastori, ladri e delinquenti; veri mercenari ai quali importa solo il loro tornaconto e non il bene delle pecore, del popolo: questo è quel quadro amaro del dominio dell’uomo sull’uomo radicato sull’orgoglio diabolico.

Il buon Pastore ci insegna: ‘Tra di voi chi comanda sia il servitore di tutti’. La Chiesa è chiamata a svolgere nel mondo le stesse funzioni di Cristo buon pastore. Il Padre celeste per realizzare la nostra felicità ha inviato Gesù, che nel Battesimo ci ha costituiti figli di Dio e lo siamo realmente; viviamo allora da figli di Dio, operiamo la nostra ‘conversione’ perché amore con amore si paga.

Troveremo Gesù con la braccia aperte ad accoglierci, come pecore del grande gregge del Signore. Ascoltiamo la sua voce   ed assicureremo per noi un posto nel regno dei cieli. La Madonna ci aiuti a seguire sempre Gesù, buon pastore., per cooperare alla sua missione di gioia, di pace, di salvezza.        

Il martirio di Don Giuseppe Diana, una storia da non dimenticare

“Desidero, dunque, rivolgere un pensiero paterno all’intera Comunità diocesana e specialmente ai fedeli della Parrocchia di Casal di Principe che, nel fare memoria di don Peppe, come affettuosamente veniva chiamato, vuole vivere la sua stessa speranza di camminare insieme incarnando la profezia cristiana, che ci invita a costruire un mondo libero dal giogo del male e da ogni tipo di prepotenza malavitosa. La mia riconoscenza va anche a coloro che continuano l’opera pastorale che don Diana ha avviato come assistente spirituale di associazioni e di gruppi di fedeli, in particolare di giovani e di realtà legate agli scout”: con queste parole papa Francesco ha ricordato il trentesimo anniversario di don Giuseppe Diana, richiamando l’omelia del sacerdote pronunciata nel Natale del 1991, ‘Per amore del mio popolo’.

Parole che richiamano altre parole: ‘Il 19 marzo è morto un prete, ma è nato un popolo’, quelle di  mons. Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, nei funerali di don Peppe Diana, assassinato dalla criminalità organizzata nel 1994. Infatti quel giorno nacque un popolo che si identifica nella lotta alla criminalità organizzata, alle ingiustizie, alle disparità, in nome di quel sacerdote che non aveva avuto paura di fronteggiare i ‘cattivi’, come ha detto il coordinatore del Comitato ‘Don Peppe Diana’, Salvatore Cuoci.

Don Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe il 4 luglio del 1958. Il papà, Gennaro e la mamma Iolanda di Tella, vivono lavorando la terra. Giuseppe è il primo di tre figli. Gli altri due sono Emilio e Marisa. Giuseppe entra nel seminario vescovile di Aversa nell’ottobre del 1968, appena compiuto i dieci anni di età,  dove consegue la licenza media e quella classica liceale. La famiglia faceva enormi sacrifici per farlo studiare. Il padre doveva pagare una retta. Ma ai genitori interessava innanzitutto toglierlo dalla strada. Casal di Principe era un paese difficile.  Tornava a casa solo a Pasqua e a Natale.

Conseguì la licenza liceale con ottimi voti. Tanto che vinse anche una borsa di studio. Il Vescovo dell’epoca, mons. Antonio Cece, diceva che Giuseppe non era un prete come gli altri e  che doveva fare carriera, doveva andare a Roma. Fu ordinato sacerdote il 14 marzo del 1982. Don Diana, da giovane prete, aveva un rapporto speciale con i ragazzi.

Anche perché nel frattempo era diventato uno scout. Era il responsabile diocesano dell’Agesci, gli scout cattolici, ed era anche cappellano dell’Unitalsi. Accompagnava i malati nei viaggi a Lourdes, perché era anche assistente nazionale del settore Foulard Blanc. Il 19 settembre del 1989 è nominato parroco della parrocchia di San Nicola a Casal di Principe.

Don Giuseppe Diana fu ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 19 marzo del 1994, poco dopo le ore 7,20 del mattino, nel giorno del suo onomastico nella sua chiesa della parrocchia di San Nicola di Bari. Gli spararono contro quattro colpi di pistola mentre si preparava per celebrare la messa. Per l’uccisione di don Giuseppe Diana, il 4 marzo 2004, la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti quali coautori dell’omicidio, mentre ha riconosciuto come autore materiale dell’omicidio il boss Giuseppe Quadrano condannandolo a 14 anni, perché collaboratore di Giustizia.  Decisiva la testimonianza di Augusto Di Meo.

A 30 dalla morte abbiamo chiesto a Salvatore Cuoci di spiegarci il significato di ricordare un uomo che ha lottato per il Vangelo: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce della Chiesa: così inizia la Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ‘Gaudium et Spes’, il documento conciliare promulgato da san Paolo VI nel 1965 che riflette, tra l’altro, sull’urgenza del tempo di manifestare un impegno comune per la pace e la giustizia.

Quella stessa pace e giustizia per cui si è battuto don Peppe Diana, accogliendo gli immigrati nella sua parrocchia, donando ai ragazzi del quartiere un orizzonte più vivibile, contrastando la camorra ed i soprusi di cui si nutriva, spezzando il cerchio dell’indifferenza e le catene che tenevano imprigionato un popolo. Perché la Chiesa non è cosa altra rispetto al territorio, ma lo vive fino in fondo, con le medesime urgenze e le stesse attese della gente. E per questo suo impegno di incarnare il Vangelo, don Peppe è stato ucciso dalla camorra. Farne memoria, significa rinnovare il suo impegno dentro un percorso di libertà”.

Per quale motivo non ha taciuto?

Nel documento ‘Per amore del mio popolo’, don Peppe scrive che ‘Dio ci chiama ad essere profeti. Il nostro impegno di denuncia non può venir meno. Il profeta fa da sentinella, vede l’ingiustizia e la denuncia’. Don Peppe ha incarnato fino in fondo il messaggio di Isaia, non nascondendosi dietro la tunica né voltandosi dall’altra parte di fronte allo strapotere dei camorristi, ma affrontando con le armi del Vangelo, con la forza della parola, il male che circondava il territorio, cercando nell’annuncio le parole da gridare dai tetti, nella testimonianza e nell’agire coraggioso, il senso pieno della vita. Non poteva tacere don Peppe, ha scelto di non farlo, per amore del suo popolo, solo per amore”.

Quale era il suo rapporto con i giovani?

“Don Peppe amava i giovani, erano il suo nutrimento, la sua gioia ed anche il suo tormento perché non ne riusciva a salvare abbastanza. La  parrocchia era piena di ragazzi, giovani che hanno imparato a saper stare con altri giovani, che hanno imparato, in quegli anni complicati, le prime regole di convivenza, a stare fuori casa ai primi campi scuola, che hanno imparato a camminare da soli. Li amava don Peppe i giovani, e li rimproverava anche, con il suo carattere forte, diretto, schietto, salvo poi prenderli per mano e con una carezza, continuare a camminare insieme”.

Quanti frutti sono nati dall’uccisione di don Peppe Diana?

“Quando i camorristi uccisero don Diana, lo fecero con l’intento di uccidere anche la speranza perché questi territori dovevano restare imprigionati dalla criminalità, condannati a restare terre di camorra e di malaffare. Invece quella morte, quel sangue versato ha cominciato a produrre frutti, cambiamenti, resistenze, lotte di libertà.

Ci siamo ripresi dapprima i terreni confiscati ai mafiosi, li abbiamo messi a coltura e abbiamo prodotto frutti buoni e giusti; dalla pasta al vino, dall’olio ai sottaceti, dalla cioccolata ai succhi di frutta, dalla passata di pomodoro fino al pacco alla camorra, un contenitore non solo di prodotti della terra, ma ricco di storie, di narrazioni sociali, di cambiamenti, di sogni, giunti perfino al Parlamento Europeo.

Poi ci siamo ripresi anche le loro case e ne abbiamo fatto centri di aggregazione, luoghi di incontro e di accoglienza, punti di lettura, di presentazione di libri e film, sedi di dibattiti, seminari, teatro, laboratori, mostre. E’ il segno concreto e tangibile che  ‘si può fare’ che è possibile sperare che un giorno possiamo essere tutti liberi dalla camorra”. 

A 30 anni dalla sua uccisione quale è l’eredità di don Diana?

“Don Diana ci lascia un patrimonio di impegno e di verità, uno sguardo fiero, autentico, rivolto al futuro che viene e al presente che viviamo. Ci lascia la voglia di esserci, il grido di libertà e la risalita sui tetti per annunciare parole di vita. Don Peppe ci lascia tutto se  stesso, la sua vita per riscattare le nostre imprigionate dalle mafie e dalle camorre”. 

A quale punto si trova la causa di beatificazione di don Diana?

“Siamo tra i promotori dell’inizio del percorso di beatificazione di Don Peppe. Otto anni fa abbiamo presentato una lettera accolta dal vescovo, con cui si diede il via ad una raccolta di testimonianze, scritti, documenti. E’ una strada che tutto sommato appare già tracciata. A noi interessa il riconoscimento della storia di un sacerdote che viene ucciso da camorristi, il riconoscimento di un martirio accertato. Ma guai a pensare a don Peppe su un piedistallo! Noi vogliamo don Peppe che continui a stimolarci, che continui a prenderci per mano per spronarci. Un ‘don Peppe’ vivo!”

Cosa è il Festival dell’impegno civile?

“Il Festival dell’Impegno civile, promosso dal Comitato ‘Don Peppe Diana’ e da ‘Libera’ Caserta, è una manifestazione unica in Italia che promuove il riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata lungo il solco di una economia sociale come antidoto dell’economia criminale. E’ un festival itinerante che fa tappa in diversi beni confiscati o beni comuni per sensibilizzarne il riutilizzo sociale attraverso concerti, dibattiti, seminari, film e che vede la partecipazione delle comunità locali, delle associazioni e di tanti artisti che animano le serate. Ha ricevuto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica”.

Per quale ragione nasce il Comitato don Peppe Diana?

“L’associazione di promozione sociale ‘Comitato don Peppe Diana’ è nata ufficialmente il 25 aprile 2006, come frutto di un percorso di diversi anni, che ha coinvolto persone e organizzazioni unite dal desiderio di non dimenticare il martirio di un sacerdote morto per amore del suo popolo. Il comitato ‘Don Peppe Diana’ fu costituito da sette organizzazioni attive nel sociale, che avevano degli obiettivi comuni: la costruzione della memoria di don Giuseppe Diana, contestualizzando la sua vita di persona comune in una realtà problematica; la realizzazione di azioni educative e didattiche sui temi dell’impegno civile e sociale per una cittadinanza attiva; la promozione nelle nuove generazioni della speranza, dell’impegno e dell’assunzione di responsabilità per continuare a costruire comunità alternative alla camorra”.

(Tratto da Aci Stampa)

Ramadan nel Sahara

Sette colpi di cannone risuonano gravi in tutta Laayoune, circa 400.000 abitanti, in pieno deserto del Sahara. Sono le ore 19.05 precise.  E’ l’inizio della guerra santa dei musulmani con sè stessi: il Ramadan. Niente acqua, nè cibo per l’intero giorno. La città si fa deserta, i ragazzi sono esenti da scuola. Qualche raro abitante, all’ombra di una palma, immerso nelle pagine del Corano. Poi, ogni giorno alla sera un colpo  fortissimo, all’ora precisa della rottura del digiuno, che qui si chiama ‘ftur’.

“E’ per me un momento mistico”, mi fa Danilo, giovane gesuita. Ed è quando tutta la gente, riunita in famiglia, in un silenzio assorto, attende il colpo di cannone.  Si inizia, allora, come un vero rito collettivo ad aprire la bocca: si mangia, finalmente. Subito un dattero e poi la ‘harira’, una minestra ricca e densa, che apre e ammorbidisce la gola. E’ come se tutti fossero seduti alla tavola di Dio, dopo una lunga carestia. Sì, in una grandiosa comunione.

Per tutto un popolo è un momento sacro per eccellenza, mentre la moschea canta lunghi pezzi di Corano, per terminarne la lettura a fine Ramadan. La notte, poi, si anima all’inverosimile: una frenesia collettiva si riversa sulle strade e le piazze. Un giornata intera di digiuno, tra preghiera, lettura del Corano e solidarietà, non è una vittoria da poco. Trasforma l’anima. Perchè ‘è cieco chi guarda soltanto con gli occhi’, come si dice qui. In piena notte, poi, riprendo il bus per la città più vicina, a cinquecento chilometri, otto ore di deserto…

Alle prime luci del mattino, ecco una sottile striscia di terra, lunga 40 km, si stacca dal continente africano formando una laguna. Come una insolita, enorme strada di sabbia immersa nel mare, essa termina in una città: Dakhla. Posizione unica e suggestiva, viene definita ‘porta del paradiso’. Il buon clima, il vento, il surf, la sabbia dorata tutta circondata di mare le danno ragione. Turismo e pesca la fanno vivere, come i suoi due polmoni. Moltissimi migranti subsahariani lavorano in particolare nella pesca. Ma per loro è quasi un inferno: lavoro notturno nelle celle frigorifere per 120dh (11€). Lavoro duro e stressante.

Da qui sognano l’Europa: le Canarie sono a due passi, nonostante le tremende correnti. Per questo la prima cosa che mi si porta a vedere è il cimitero. Cumuli e cumuli di terra con una semplice pietra sopra: senza nome, senza data, senza più giovinezza. Le loro famiglie, a migliaia di km. nel pianto. Sono i morti in mare negli interminabili naufragi. Osservo queste pietre poste sopra ogni speranza, ogni sogno per volti e storie venuti da lontano, dopo un estenuante cammino.

Tutto è ormai sotterrato: più di 6.000 morti nel 2023. Poi, visita alla zona industriale con interminabili camion-cisterna bianchi. I banchi di sardine qui vengono aspirati insieme all’acqua di mare, per conservarne la freschezza, e immediatamente congelati nei frigo: ‘Peccato che il mare si impoverisce, il lavoro diminuisce, il salario si riduce’, commenta la mia guida. Ed è un punto interrogativo sul domani. A differenza di altrove qui i migranti godono di un lavoro e di una certa stabilità.

A sera, con Valerio, missionario congolese, camminando per le strade della città bussiamo a una porta di povera gente, la famiglia sarahoui di Saida: “L’uomo sarà anche il capo della casa, precisa qualcuno, ma la donna ne è il cuore”.

Siamo accolti tra tappeti, the e dolci di ramadan. Per tradizione, i bicchieri di the che qui si offrono sono tre. Il primo gradevole, ma un pò amaro, per l’ospite di passaggio, il secondo dolce  per l’ospite che si trattiene e il terzo, dolce come il miele, per l’amico che si confida. Tre tempi dell’accoglienza. Sapendo che ‘il dolore o l’amore è come un tesoro; lo si mostra solo agli amici”, ricorda un proverbio.

“Se dai il cuore, mi commenta sottovoce Valerio, loro ti daranno il cuore!”, presentandomi come ospite alla prima famiglia in città. Brillano loro gli occhi per l’onore. Poi, alla partenza, con una tazza di profumi Aya, la ragazza più giovane, vi verrà a spruzzarvi i vestiti. Per la tradizione saraoui, un segno di appartenenza alla famiglia. Sotto la finestra un gruppo di bambini si arresta, cantando una nenia d’occasione, per avere qualche dirham. Mentre i poveri affollano i dintorni delle moschee, per approfittare della solidarietà abituale del Ramadan. ‘Chi dà ai poveri presta a Dio’, si dice comunemente.

Le moschee, infatti, in questo tempo sono frequentatissime, con tappeti distesi largamente anche fuori, e tanta gente sia dentro che fuori la moschea durante la preghiera. Questa è intercalata ogni tanto da ‘Allah akbar’ (Dio è grande) lanciato dal muezzin, subito ripreso sommessamente da tutto un popolo attorno.

Sia a Laayoune che a Dakhla nelle due chiese, dallo stile anni ‘30 al tempo della presenza spagnola, la Caritas è in piena attività. Struttura efficiente e ben motivata, composta di personale volontario e non, è attenta a tutte le persone vulnerabili, senza distinzione, cioè migranti musulmani o cristiani. Sostiene, inoltre, un’opera di assistenza sociale marocchina per migranti come Shakiel El Ambra e l’Association Dakhla des Handicapés, un’assistenza di eccellenza per un centinaio di bambini del territorio. Si, tutto sembra dire: la grandezza di Dio è l’amore.

I giovani migranti subsahariani di Rabat vi offrono il ‘sapone alla lavanda di Quaresima’ con un messaggio di Isaia. Domenica lo hanno fatto alle chiese di Rabat, Mohammedia, Meknes, Casablanca, dopo la messa. ‘Lavatevi, purificatevi… Cessate di fare il male…’. (Is.1,16) Sì, lavarsi il corpo e l’anima, con il profumo della lavanda, come una vera preghiera…

A Roma un popolo contro le mafie

“Nata nella società civile, cresciuta grazie ai valori di cui è portatrice, la ‘Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie’ è ricorrenza significativa per la comunità nazionale. Un giorno che sottolinea l’impegno per liberare le popolazioni e i territori dalle mafie, per vincere l’indifferenza e la rassegnazione che giovano sempre ai gruppi criminali. Quando difendiamo la dignità di essere cittadini liberi, quando ci ribelliamo alle violenze e alle ingiustizie, quando davanti ai soprusi non ci voltiamo dall’altra parte, contribuiamo alla lotta contro le mafie…

Le Istituzioni sono chiamate a fare il loro dovere per contrastare, su ogni piano, le organizzazioni del crimine e l’azione dei cittadini e delle forze sociali è coessenziale per costruire e diffondere la cultura della legalità e della libertà. Le mafie sono una pesante zavorra per l’Italia, insinuate come sono in ogni attività illegale dei traffici criminali. La Giornata ci rammenta che la lotta alle mafie è compito e dovere di tutti coloro che amano la Repubblica e intendono renderne migliore il futuro”.

Con questo messaggio del presidente della Repubblica italiana la XXIX Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, organizzata ieri a Roma da Libera con la partecipazione di 100.000 persone per chiedere verità e giustizia con uno striscione, ‘Roma città libera’, che ha scandito il ricordo di tutte le vittime innocenti di mafia, come ha sottolineato don Luigi Ciotti: “Vogliamo un’Italia libera dalle mafie, dalla corruzione e dell’ingiustizia. Libera di parlare di pace, di curare chi sta male e di accogliere chi arriva da lontano. Un paese libero e cittadini liberi perché responsabili”.

Nel suo intervento don Ciotti ha messo in guardia il Parlamento dalla modifica di due leggi, l’autonomia differenziata e la legge 185: “L’autonomia non può essere differenziata perché i diritti sono un bene comune… E’ un guaio la modifica della legge 185, una legge con norme stringenti per il mercato delle armi. Ci sono momenti in cui parlare diventa un obbligo morale e una responsabilità civile, è in gioco la pace”.

Ha concluso con un appello sul valore della memoria: “Fare memoria vuol dire impegnarsi non una giornata, ma ricordare i nomi di tutti quanti, con la stessa dignità e con la stessa forza. Dobbiamo raccogliere e custodire le memorie di queste nomi, di questi volti e sentirli qui dentro, sentire rinascere quelle memorie finite nell’oblio e trasformarle in pungolo, responsabilità. E’ importante impegnarsi tutti i giorni. Bisogna fare un lavoro nelle scuole, nelle università e nei territori. Non dobbiamo dimenticarci che le mafie sono forti, anche più di prima. Sparano di meno ma ci sono”.

Infine ha chiesto alla politica di non distruggere ciò che era stato costruito per sconfiggere le mafie: “Alcuni provvedimenti ci pongono domande, interrogativi. Bisogna evitare di demolire dei pilastri, dei meccanismi che in questi anni hanno dimostrato di essere efficaci nel contrasto alla criminalità, alla corruzione, all’illegalità. Vedo che alcuni provvedimenti viaggiano un pochettino nella direzione opposta”.

(Foto: Libera)

L’Italia ricorda don Peppe Diana

“Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere ‘segno di contraddizione’. Coscienti come chiesa che dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

Così inizia il documento diffuso a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana da don Peppe Diana e dai parroci della forania di Casal di Principe, per spingere a prendere coscienza del problema camorristico, affermando che essa è una forma di terrorismo: “I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario;

traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”.

Era un appello ai cristiani ad essere sentinelle nel denunciare l’illegalità: “Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti… Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa; alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo ‘profetico’ affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili”.

Don Giuseppe Diana è stato parroco di Casal di Principe (nei pressi di Aversa) che si è battuto contro la camorra, denunciando i traffici illeciti di sostanze stupefacenti, le tangenti sui lavori edili, gli scontri violenti tra le fazioni della criminalità organizzata del suo paese. Egli ha pagato con la vita la propria coraggiosa attività: è stato assassinato a soli trentacinque anni nella sacrestia della sua Chiesa, mente si accinge a celebrare la messa.

Don Giuseppe nasce il 4 luglio del 1958 a Casal di Principe, vicino ad Aversa, da una famiglia che vive lavorando la terra. Dopo aver compiuti studi teologici ed essersi laureato in filosofia, entra nell’Agesci (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) ed è consacrato sacerdote.

Si batte contro la criminalità organizzata della sua città, nel periodo in cui imperversano in Campania i casalesi, camorristi legati al boss Francesco Schiavone (detto ‘Sandokan’), infiltrati negli enti locali, nell’imprenditoria. Contro questo stato di cose, don Diana scrive una lettera, intitolata ‘Per amore del mio popolo’, diffusa nel giorno di Natale del 1991 in tutte le chiese, pagando il coraggioso gesto con la vita: la mattina del 19 marzo 1994 un assassino lo raggiunge, mentre si prepara a dir messa, nella sagrestia della sua chiesa, e gli spara quattro colpi di pistola, mettendo segno una vera e propria esecuzione camorristica.

Ed a 30 anni dall’uccisione papa Francesco ha inviato una lettera al vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo, in cui ha invitato a ravvivare la ‘evangelica’ inquietudine dei cristiani: “Ancora oggi si ripete la triste vicenda narrata dalla Sacra Scrittura del primo fratricidio di Caino contro il fratello Abele… Pertanto, la commemorazione del sacrificio di don Giuseppe ci sprona a ravvivare in noi quella evangelica inquietudine che ha animato il suo sacerdozio e lo ha portato senza alcuna esitazione a contemplare il volto del Padre in ogni fratello, testimoniando a chi si sente ferito il progetto di Dio, perché ciascuno potesse vivere nella giustizia, nella pace e nella libertà”.

Il messaggio del papa è stato un incoraggiamento ai giovani per costruire una società fraterna: “Prima di concludere, mosso da sentimenti di fiducia, esorto Voi giovani, volto bello e limpido di codesta terra: non lasciatevi rubare la speranza, coltivate ideali alti e costruite un futuro diverso con mani non sporche di sangue ma di lavoro onesto, senza cedere a compromessi facili ma illusori, raccogliendo l’eredità spirituale di Don Peppe per divenire, a vostra volta, artigiani di pace”.

Anche il presidente della Cei, card. Matteo Zuppi, ha invitato a non dimenticare la testimonianza di don Diana: “Ricordare Don Peppino ci aiuta a capire che non si può servire Dio e mammona. E di questo ringrazio voi che avete conservato la sua memoria. Don Peppino è una luce di speranza. Il suo sacrificio è il seme caduto a terra per la viltà di un assassino e del sistema di morte che si portava dentro e lo accecava. Il seme continua a dare frutto: l’amore per i poveri, l’attenzione ai fragili, la giustizia nei comportamenti, l’onesta che non accetta opportunismi, rendere il mondo migliore di come lo abbiamo trovato, come ricorda la legge scout che ha amato”.

Mentre il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha sottolineato che è difficile far tacere una ‘voce scomoda’: “La testimonianza di don Diana è divenuta un simbolo potente di liberazione, una spinta al riscatto sociale. Don Giuseppe ai ragazzi insegnava che la via della libertà passa dal non piegare la testa al ricatto mafioso e che è possibile costruire un mondo migliore. Pagò con la vita il coraggio e la coerenza personale e la sua vita è diventata lezione, patrimonio per il Paese”.

‘E’ Gesù che cercate quando sognate la felicità’: la Missione Popolare dei Missionari del Preziosissimo Sangue a Celano

“La Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue fondata da San Gaspare del Bufalo il 15 agosto 1815, fedele al carisma del Fondatore e alla tradizione secolare delle missioni popolari, continua anche oggi, da oltre 200 anni, questo servizio alla Chiesa attraverso l’attività apostolica e missionaria del ministero della Parola”: spiega don Flavio Calicchia, direttore del Centro per la Predicazione della Provincia Italiana. 

“La missione popolare, continua don Flavio, è un tempo di predicazione straordinaria che mira a raggiungere tutti, non lasciando indietro nessuno: famiglie, scuole, associazioni sportive, ospedali, RSA, persone anziane o comunque in condizioni di fragilità, carceri… e poi ancora, i luoghi di vita quotidiana: attività commerciali, piazze, bar, sale giochi, centri di aggregazione…

I missionari, in stretta collaborazione con i Vescovi e i Parroci, organizzano il tempo e il modo dello svolgimento della missione tenendo conto della motivazione di tale richiesta e i bisogni reali della parrocchia e del territorio dove essa quotidianamente svolge il suo servizio. L’obiettivo centrale della missione? La prossimità, che nasce dalla consapevolezza di un bisogno e l’incontro personale con Gesù, il prossimo per eccellenza! E’ Lui l’unica fonte di ogni nostra ispirazione! La missione è un vero e proprio tempo di Grazia!”

Don Gabriele Guerra, parroco del Sacro Cuore, a Celano, in una lettera rivolta a tutta la comunità parrocchiale condivide: “Carissimi, la missione popolare che vivremo qui in Parrocchia dal 2 al 17 marzo, è un momento di Grazia che il Signore ci offre. Mi torna alla mente il versetto del Libro dei Re, quando Elia cerca di cogliere la presenza di Dio nei grandi segni e invece Dio si rende presente in un leggero soffio di vento.

Sappiamo riconoscere in questi giorni il Signore che passa nelle nostre vite. Saranno molti gli appuntamenti che ci vedranno coinvolti e saremo cosi aiutati dai Missionari del Preziosissimo Sangue a saper cogliere quello che Dio vuole dirci, affidando a Maria la nostra vita. Faccio mio quello che san Gaspare del Bufalo scrisse: Maria, non abbia mai da accadere che questa Missione che è riposta sotto il vostro patrocinio debba finire restando qualche peccatore interessato ma non convertito.

 Dicono i Dottori che come quella buona donna Ruth andava dietro ai mietitori, raccogliendo le spighe sfuggite di mano ad essi, così la Madonna ha questo uffizio nella Chiesa di convertire quelle Anime che son sfuggite di mano ai predicatori. Voi crederete che per chi non si è convertito a quest’ora non rimanga altra possibilità per lui. Ma che dite mai? Rimane l’arma più potente! Rimane Maria!”

Durante le due settimane di predicazione, ci sarà la presenza di nove Missionari del Preziosissimo Sangue, due seminaristi della stessa Congregazione, una suora Adoratrice del Sangue di Cristo, una famiglia missionaria e numerosi laici.

Il prof. Palini: mons. Angelelli è martire della fede

“Scrivere un libro su Enrique Angelelli è proprio come spedire una lettera rimasta per molto tempo dimenticata da qualche parte, farla pervenire a coloro che testardamente continuano a credere al sogno di Isaia di un mondo in cui il diritto e la giustizia abbiano stabile dimora. Ed in effetti il sacrificio di questo vescovo argentino è ben presto caduto nel dimenticatoio. Nessun libro in italiano su di lui. Solo testi in spagnolo, pubblicati in Argentina. Eppure, come ci ha ricordato l’allora cardinale di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, la sua testimonianza, il suo impegno per la giustizia e per la pace, la sua fede, sono di assoluto spessore e la sua figura si può porre sullo stesso piano di quelle degli altri grandi vescovi latinoamericani, da Hélder Câmara a Oscar Romero, da Juan Gerardi a Pedro Casaldáliga, da Leonidas Proaño ad Antonio Fragoso, e così via”.

Papa Francesco: Dio libera dalla condizione servile

‘Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile’: con questo passo tratto dal libro dell’Esodo, che è il ‘cappello’ del Decalogo, papa Francesco inizia il messaggio per la Quaresima, ‘Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà’, in cui invita a passare dalla schiavitù alla libertà, passaggio che avviene sperimentando il deserto: “Il popolo sa bene di quale esodo Dio parli: l’esperienza della schiavitù è ancora impressa nella sua carne. Riceve le dieci parole nel deserto come via di libertà. Noi li chiamiamo ‘comandamenti’, accentuando la forza d’amore con cui Dio educa il suo popolo”.

La rivoluzione di sabbia del Sahel

Mamon o Mammona, secondo l’etimologia aramaica, significa ciò su cui si può contare, qualcosa che dà certezza e sicurezza. Questo è stato il dio denaro e potere scelto come protagonista nella fase politica del Niger prima che avvenisse l’ultimo colpo di stato militare nel passato 26 luglio. Molti osservatori concordano nel definirlo, all’inizio, un colpo di stato da ‘palazzo’ e cioè concepito all’interno del sistema stesso.

XXVII Domenica Tempo Ordinario: La vigna di Dio. Ieri Israele, oggi la Chiesa cristiana

La parabola del Vangelo, in forma sintetica ma assai chiara, evidenzia la storia della salvezza: Antino e Nuovo Testamento.  Nella parabola Gesù ricorre al simbolo della vigna: il padrone della vigna infatti è Dio stesso. I vignaiuoli appaiono personaggi cattivi, quasi feroci. Si levano  contro i profeti imprigionandoli o uccidendoli; si levano contro il Figlio del padrone della vigna mettendolo in croce e gridando a Pilato: ‘Crocifiggilo, non abbiamo altro re che Cesare’. Eppure il padrone della vigna pensa solo a perdonare, ad amare e, angosciato, dirà: ‘Cosa potevo fare ancora per la mia vigna e non l’ho fatto?’

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