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Fabio Nardelli racconta un popolo missionario e sinodale per il cammino della Chiesa
“L’accostamento tra missione e sinodalità: un accostamento per così dire ‘sistematico’, messo in evidenza fin dal titolo. E questo perché missione e sinodalità non stanno l’una senza l’altra: si sostengono reciprocamente, crescono di pari passo e insieme concorrono a delineare il cammino della Chiesa nel Terzo Millennio. Di fronte all’annuncio di un Sinodo sulla sinodalità, qualcuno aveva paventato il pericolo di «introversione ecclesiale», per dirla con le parole di Evangelii Gaudium (n. 27), cioè di una specie di ripiegamento della Chiesa su se stessa e sui suoi meccanismi interni, in contraddizione con le esigenze di quella conversione missionaria cui l’ora presente chiama i credenti in tutto il mondo. Ma, in realtà, il cammino sinodale in corso non è che la coerente prosecuzione del ‘sogno’ missionario che papa Francesco illustrava così nello stesso paragrafo di quel documento”.
Così inizia la prefazione del card. segretario generale del Sinodo dei Vescovi, card. Mario Grech, al libro ‘Un popolo missionario e sinodale. Il cammino della Chiesa nel Terzo Millennio’ del frate minore, p. Fabio Nardelli, che nasce dalle ‘riflessioni che le Conferenze Episcopali, le Chiese Orientali Cattoliche e altre realtà ecclesiali internazionali hanno presentato oltre ai rapporti redatti dai parroci nella tre-giorni di lavoro dell’incontro Parroci per il Sinodo’.
Ed in occasione di questa seconda sessione della XVI Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi (2-27 ottobre), il volume di p. Fabio Nardelli, docente di Ecclesiologia all’Istituto Teologico di Assisi ed alla Pontificia Università ‘Antonianum’ di Roma, nonché assistente presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense,‘Un popolo missionario e sinodale. Il cammino della Chiesa nel Terzo Millennio’, si presenta come uno strumento di natura teologico-pastorale che evidenzia un accostamento tra missione e sinodalità, particolarmente significativo nell’attuale contesto ecclesiale. La prefazione del card. Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei Vescovi, che arricchisce l’opera, ribadisce che l’aggettivo ‘missionario-sinodale’ concorre a delineare il cammino della Chiesa nell’attuale contesto.
Perché la Chiesa è un popolo missionario e sinodale?
“Nel corso della riflessione teologica, lungo i secoli, diverse sono state le categorie utilizzate per esprimere la realtà ecclesiale. Ma quella che sembra particolarmente adatta per correlare missione e sinodalità, è il ‘Popolo di Dio’. Chiamato da Dio, il popolo si mette in cammino vivendo ‘in uscita’ e nello stile della comunione. Questi due atteggiamenti caratterizzano l’essere della Chiesa nel Terzo Millennio, secondo quanto affermava papa Francesco, dicendo che ‘la sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione’”.
Quale correlazione esiste tra partecipazione e missione?
“Come afferma il card. Grech, nella prefazione del volume, ‘una Chiesa più capace di partecipazione e corresponsabilità è una Chiesa ultimamente più capace di missione’. In realtà, la dimensione partecipativa è già espressione della sua missionarietà in quanto ogni battezzato, in forza del ‘sensus fidei’, diventa un membro attivo della Chiesa realizzando concretamente nel suo contesto e con la forma della sua vita l’imperativo missionario del Risorto: ‘Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura’, come narrato nel vangelo di san Marco”.
Per quale motivo la Chiesa è pellegrina di speranza?
“La Chiesa ‘pellegrina di speranza’ è icona di ogni persona che, mettendosi in cammino nella fede, ha davanti a sé una meta e una direzione indicata dalla Parola. Come ripete papa Francesco, nella Bolla ‘Spes non confundit’: ‘mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita’ e, perciò, essa è chiamata a vivere da pellegrina per ricordare all’uomo contemporaneo che tutti sono in ‘cammino’ verso il Regno”.
In quale modo il cammino della Chiesa sinodale si fonda sulla Trinità?
“Essa si presenta come ‘soggetto’ della fede che come comunità e assemblea di credenti ha quale “oggetto” della sua fede il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Questo è ciò che voleva mostrare anche il Concilio Vaticano II, nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa ‘Lumen gentium’, quando ha evidenziato l’azione ad extradella Trinità specificando il compito del Padre, il ruolo del Figlio e dello Spirito Santo. Il volume, infatti, mette in evidenza che il cammino sinodale intrapreso dalla Chiesa sta facendo emergere una vera ‘ecclesiologia pneumatologica’, in cui lo Spirito unifica nella comunione e nel ministero diversi doni gerarchici e carismatici che operano in essa”.
Missione richiama la parola ‘evangelizzazione’: con quale stile?
“Naturalmente, quello della ‘partecipazione’, in quanto la missione è nel DNA del cristiano. Quindi nessuno può sentirsi escluso da una Chiesa tutta missionaria, in cui, nella diversità delle funzioni, ogni battezzato è chiamato a vivere in pienezza la sua identità. In verità, la riscoperta della radice battesimale ha liberato la Chiesa da un’eccessiva clericalizzazione dei laici e da un’impropria secolarizzazione dei pastori. Ed, in questo nuovo contesto, la sinodalità, intesa come ‘stile ecclesiale’, consente a tutti di cogliere meglio le caratteristiche e la funzione dei differenti protagonisti dell’evangelizzazione”.
(Tratto da Aci Stampa)
Papa Francesco: la presenza di cristiani in Terra Santa è speranza
“Cari fratelli e sorelle, penso a voi e prego per voi. Desidero raggiungervi in questo giorno triste. Un anno fa è divampata la miccia dell’odio; non si è spenta, ma è deflagrata in una spirale di violenza, nella vergognosa incapacità della comunità internazionale e dei Paesi più potenti di far tacere le armi e di mettere fine alla tragedia della guerra. Il sangue scorre, come le lacrime; la rabbia aumenta, insieme alla voglia di vendetta, mentre pare che a pochi interessi ciò che più serve e che la gente vuole: dialogo, pace. Non mi stanco di ripetere che la guerra è una sconfitta, che le armi non costruiscono il futuro ma lo distruggono, che la violenza non porta mai pace. La storia lo dimostra, eppure anni e anni di conflitti sembrano non aver insegnato nulla”.
In questo giorno, ad un anno dall’attacco di Hamas ad Israele, papa Francesco ha scritto una lettera ai cristiani della Terra Santa in cui ha ribadito che la violenza non conduce alla pace, ringraziandoli della loro testimonianza: “E voi, fratelli e sorelle in Cristo che dimorate nei Luoghi di cui più parlano le Scritture, siete un piccolo gregge inerme, assetato di pace. Grazie per quello che siete, grazie perché volete rimanere nelle vostre terre, grazie perché sapete pregare e amare nonostante tutto. Siete un seme amato da Dio”.
Questa presenza in Terra Santa è un germoglio di speranza: “E come un seme, apparentemente soffocato dalla terra che lo ricopre, sa sempre trovare la strada verso l’alto, verso la luce, per portare frutto e dare vita, così voi non vi lasciate inghiottire dall’oscurità che vi circonda ma, piantati nelle vostre sacre terre, diventate germogli di speranza, perché la luce della fede vi porta a testimoniare l’amore mentre si parla d’odio, l’incontro mentre dilaga lo scontro, l’unità mentre tutto volge alla contrapposizione”.
Con questa lettera il papa si è rivolto specificamente a queste Chiese ‘martiri’, chiedendo di essere testimoni di una pace ‘non armata’: “Gli uomini oggi non sanno trovare la pace e noi cristiani non dobbiamo stancarci di chiederla a Dio. Perciò oggi ho invitato tutti a vivere una giornata di preghiera e digiuno. Preghiera e digiuno sono le armi dell’amore che cambiano la storia, le armi che sconfiggono il nostro unico vero nemico: lo spirito del male che fomenta la guerra, perché è ‘omicida fin da principio’, ‘menzognero e padre della menzogna’. Per favore, dedichiamo tempo alla preghiera e riscopriamo la potenza salvifica del digiuno!”
Ed ha espresso ‘vicinanza’ ai popoli del Medio Oriente: “Ho nel cuore una cosa che voglio dire a voi, fratelli e sorelle, ma anche a tutti gli uomini e le donne di ogni confessione e religione che in Medio Oriente soffrono per la follia della guerra: vi sono vicino, sono con voi. Sono con voi, abitanti di Gaza, martoriati e allo stremo, che siete ogni giorno nei miei pensieri e nelle mie preghiere. Sono con voi, forzati a lasciare le vostre case, ad abbandonare la scuola e il lavoro, a vagare in cerca di una meta per scappare dalle bombe.
Sono con voi, madri che versate lacrime guardando i vostri figli morti o feriti, come Maria vedendo Gesù; con voi, piccoli che abitate le grandi terre del Medio Oriente, dove le trame dei potenti vi tolgono il diritto di giocare. Sono con voi, che avete paura ad alzare lo sguardo in alto, perché dal cielo piove fuoco. Sono con voi, che non avete voce, perché si parla tanto di piani e strategie, ma poco della situazione concreta di chi patisce la guerra, che i potenti fanno fare agli altri; su di loro, però, incombe l’indagine inflessibile di Dio”.
Infine una richiesta agli altri popoli a non dimenticare chi abita in Terra Santa: “Grazie a voi, figli della pace, perché consolate il cuore di Dio, ferito dal male dell’uomo. E grazie a quanti, in tutto il mondo, vi aiutano; a loro, che curano in voi Cristo affamato, ammalato, forestiero, abbandonato, povero e bisognoso, chiedo di continuare a farlo con generosità. E grazie, fratelli vescovi e sacerdoti, che portate la consolazione di Dio nelle solitudini umane.
Vi prego di guardare al popolo santo che siete chiamati a servire e a lasciarvi toccare il cuore, lasciando, per amore dei vostri fedeli, ogni divisione e ambizione. Sono con voi, assetati di pace e di giustizia, che non vi arrendete alla logica del male e nel nome di Gesù amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”.
In una lettera a ‘Mondo e Missione’ suor Mariolina Cattaneo, missionaria comboniana della comunità di Betania, racconta la vita in Terra Santa: “Vivendo qui a Gerusalemme non possiamo dire di avere paura. I missili dell’altra sera sono stati più una curiosità che vera e propria paura; anche se le sirene della città, le strade completamente vuote, hanno sicuramente avuto un impatto anche su di noi. Ma poi, il giorno dopo la vita è ricominciata come se nulla fosse successo.
Eppure a un centinaio di chilometri da noi, a Gaza, il 95% delle costruzioni sono distrutte, un popolo è costretto a vivere da rifugiato ‘interno’… che poi oramai cosa significa? Vivere sulla spiaggia? Buttarsi direttamente in mare? Eppure nel vicino Libano si fa esperienza dell’incursione di un esercito straniero.
Eppure dall’altra parte del muro, nei territori occupati, i coloni sono sempre più violenti e sempre meno sanzionati dalle autorità. Così villaggi e popolazioni locali vengono minacciate in continuazione, gli ulivi pronti per la raccolta vengono distrutti. Certamente non dimentichiamo la profonda ferita del popolo israeliano che ha vissuto il 7 ottobre come reminiscenza di una possibilità di sterminio, come una ferita al proprio cuore”.
Ed ha raccontato la ‘forza’ di chi ha deciso di restare nella speranza della pace: “Ci sono però altre storie importanti che dobbiamo raccontare: la resilienza di un popolo che vive nell’apartheid ma che ha deciso di non fuggire, di resistere, di continuare a vivere; la forza del popolo di Gaza che continua a vivere malgrado le condizioni sempre più disumane in cui è costretto; l’opposizione ad un’ideologia che nega il diritto all’altro e all’altra di vivere, da qualunque parte ci si trovi.
Siamo qui nella speranza e nella convinzione che ci sarà un dopo, che sarà difficile e doloroso ma l’odio e la violenza non avranno l’ultima parola. Siamo qui nella fede che ci sarà la possibilità di costruire una Terra Santa migliore, un Israele, una Palestina in cui si può vivere in pace e nella mutua accoglienza”.
Giornata del Migrante: Dio si fa migrante
“L’accento posto sulla sua dimensione sinodale permette alla Chiesa di riscoprire la propria natura itinerante, di popolo di Dio in cammino nella storia, peregrinante, diremmo ‘migrante’ verso il Regno dei cieli (‘Lumen gentium’, 49). Viene spontaneo il riferimento alla narrazione biblica dell’Esodo, che presenta il popolo d’Israele in cammino verso la terra promessa: un lungo viaggio dalla schiavitù alla libertà che prefigura quello della Chiesa verso l’incontro finale con il Signore. Allo stesso modo, è possibile vedere nei migranti del nostro tempo, come in quelli di ogni epoca, un’immagine viva del popolo di Dio in cammino verso la patria eterna”.
Attingendo dalla parte iniziale del messaggio (‘Dio cammina con il suo popolo’) di papa Francesco per la 110^ Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si celebra domenica 29 settembre, abbiamo domandato al missionario scalabriniano e presidente dell’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo (ASCS), prof. Gioacchino Campese, docente di ‘Teologia della mobilità umana’ alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, di narrarci il motivo per cui Dio cammina con il suo popolo:
“ Il messaggio della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato di quest’anno è fondamentale, perché affermando che ‘Dio cammina con il suo popolo’ ci parla della natura stessa di Dio. Dio cammina con l’umanità migrante, Dio si fa migrante, perché Dio è amore, bontà e compassione infinite e quindi accompagnare il suo popolo non è altro che l’espressione della sua stessa natura. Il messaggio di papa Francesco cita diversi passaggi biblici che spiegano che Dio non abbandona mai l’umanità e, in particolare, non fa mai mancare la sua protezione e grazia alle persone più vulnerabili, al punto da identificarsi con queste persone come il brano di Matteo (‘Giudizio universale’: 25, 31-46) illustra chiaramente. La sua presenza con e nel suo popolo migrante è semplicemente una costante della rivelazione biblica”.
Per quale motivo i migranti possono un ‘segno dei tempi’?
“I migranti e i rifugiati sono sempre stati un segno dei tempi. In altre parole, i migranti e i rifugiati non sono solo un segno dei ‘nostri’ tempi, ma un segno di ‘tutti’ i tempi, un segno di una delle costanti antropologiche dell’umanità, cioè le migrazioni, la mobilità umana. Qui è bene citare san Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905) il quale alla fine del XIX secolo affermava che ‘L’emigrazione…è legge di natura. Il mondo fisico come il mondo umano soggiacciono a questa forza arcana che agita e mescola, senza distruggere, gli elementi della vita…’. I migranti sono un segno dei tempi perché ci ricordano l’essenza migrante del cosmo e dell’essere umano creato ad immagine e somiglianza di Dio. I migranti sono un segno dei tempi perché rappresentano l’abbondante e preziosa diversità con la quale Dio vuole arricchire l’esistenza e l’esperienza di ogni persona”.
In quale modo i migranti aprono all’incontro con Dio?
“Incontrare i migranti e i rifugiati vuol dire incontrare persone che rappresentano con la loro esistenza una delle dimensioni principali della natura umana e, di conseguenza, ci rimandano al Dio creatore, al Dio migrante; al Dio che ha creato il cosmo e l’umanità nella sua incredibilmente ricca diversità; al Dio che bussa alla nostra porta nei migranti e rifugiati per chiedere accoglienza, comprensione, compagnia, comunità; al Dio che ci ricorda che siamo e dobbiamo vivere come un’unica famiglia umana”.
Fino a quale punto il Giudizio finale narrato nel Vangelo di Matteo è punto importante per i cristiani?
“Il racconto del giudizio universale in Matteo 25 non è solo importante, ma fondamentale per tutti i cristiani. E’ uno dei brani evangelici che meglio descrive chi è il Dio di Gesù Cristo il quale, come osserva giustamente papa Francesco nel suo messaggio, continua ad incarnarsi nelle persone più vulnerabili, tra i quali ci sono anche i migranti e i rifugiati; allo stesso tempo questo passaggio esprime palesemente una delle sfide essenziali per la vita dei cristiani: riconoscere nelle persone vulnerabili (i migranti, i carcerati, gli affamati, gli ammalati…) la sua presenza e rispondere agendo di conseguenza a seconda delle loro necessità. E’ in questo incontro che sfida le nostre paure, pregiudizi, egoismi, e pigrizie, che avviene la salvezza, come Matteo 25 afferma senza mezzi termini”.
In quale modo la Chiesa può fare sinodo con il migrante?
“Un sinodo senza i migranti non può chiamarsi sinodo, perché se sinodo vuol dire camminare insieme come chiesa, l’assenza dei migranti ridurrebbe questo evento ad una semplice assemblea tra persone che credono di avere un certificato di appartenenza esclusiva alla chiesa. Purtroppo, spesso i migranti e i rifugiati cattolici e cristiani si sentono esclusi dalla chiesa perché parlano una lingua differente, perché hanno usi e costumi culturali differenti, perché pregano e celebrano in modo differente.
Non bisogna dimenticare un elemento essenziale in questo discorso, elemento che spesso viene dimenticato: la chiesa deve e può fare sinodo con i migranti e i rifugiati prima di tutto perché essi sono la chiesa e la provocano continuamente ad essere veramente cattolica, cioè una chiesa formata da tutti i popoli della terra; e anche quando non sono cristiani essi richiamano la chiesa ad essere fedele alla sua vocazione fondamentale: essere il ‘segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano’, secondo la Costituzione dogmatica sulla Chiesa ‘Lumen gentium’ n. 1.. E’ la sfida della fraternità universale nella quale la chiesa deve essere sempre in prima linea”.
Quali sono gli ambiti di intervento di ASCS?
“La filosofia di intervento dell’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo (ASCS) si manifesta nell’atteggiamento e la pratica di ‘essere con’ i migranti, i rifugiati, e le comunità locali in Italia e nel mondo. L’ASCS si ispira al carisma di san Giovanni Battista Scalabrini, uno dei pionieri della pastorale con i migranti nella chiesa cattolica, e ai quattro verbi che papa Francesco ha proposto a tutta la chiesa come i pilastri di una pastorale integrale con i migranti e i rifugiati: accogliere, proteggere, promuove e integrare. Sulla scia di queste ispirazioni le tre aree di intervento principali dell’ASCS sono: accoglienza integrale, animazione interculturale e cooperazione allo sviluppo. Per ulteriori informazioni sulla visione, missione e attività dell’ASCS si può consultare il sito www.ascs.it”.
(Foto: ASCS)
Alcide De Gasperi: un profeta non moderato
“A settant’anni dalla sua morte, la Repubblica rende omaggio ad Alcide De Gasperi, uno dei suoi Padri fondatori, onorandone lo straordinario contributo alla causa della libertà, alla costruzione della democrazia e di un ordine internazionale pacifico e più giusto”: lo ha dichiarato in un messaggio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 70^ anniversario della scomparsa di Alcide De Gasperi.
Nel messaggio il presidente della Repubblica italiana ha sottolineato la sua fermezza negli ideali: “Pagò con la carcerazione la sua opposizione nei confronti dell’affermazione del regime fascista, e non rinunciò mai a perseguire quegli ideali volti a pervenire a un ordinamento statale basato sul rispetto delle libertà fondamentali che lo portarono in seguito ad essere riconosciuto come ricostruttore della Patria”.
Ideali corroborati dalla sua abilità di statista: “Le sue abilità di statista si rivelarono impareggiabili all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, dove in seno a complessi negoziati internazionali, seppe raggiungere equilibri che affermarono nuovamente la dignità dell’Italia gravemente compromessa dalla dittatura, con l’attenuazione delle conseguenze di trattati imposti a una Nazione i cui destini il fascismo aveva voluto unire a quelli del Terzo Reich nazista”.
E nella lectio degasperiana tenuta a Pieve Tesino, l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, mons. Ivan Maffeis, ha sottolineato che De Gasperi guidò l’Italia verso una nuova stagione della democrazia: “La sua grandezza non si misura solo con quello che ha fatto come statista, ma soprattutto per la testimonianza che ci ha offerto. Come gli antichi profeti, ha indicato una strada e un metodo politico che vanno oltre la sua stessa esistenza.
Ha accettato di mettersi alla guida del suo popolo, senza garanzie e senza esitazioni. Prima è stata la volta del popolo trentino, orfano e disperso durante la Prima guerra mondiale, poi quella del popolo italiano che imparò a conoscere. Quando nel 1945 assunse il compito di guidare l’Italia fuori dal deserto in cui la democrazia si era smarrita, De Gasperi aveva 64 anni”.
Ha sottolineato il valore della sua profezia non ‘moderata’: “Come tutti i profeti, non era un moderato. Senza mai tirarsi indietro nelle battaglie elettorali, ha contribuito a riscattare la politica dai suoi aspetti più materiali e duri. Voleva fornirle un’anima, fare in modo che avesse sentimenti e principi. Ha praticato l’arte di comporre le differenze in modo tale che esse non diventassero opposizioni preconcette, ma si integrassero in quell’amicizia politica che è l’anima della democrazia. Non si trattò di una concordia oltre la discordia, ma di una concordia nella discordia. Sapeva che sarebbe venuto il tempo delle scelte di campo”.
La sua profezia non è ‘idealistica’: “Ha delle caratteristiche peculiari e memorabili. Basterebbe riprendere le sue pagine contro l’idealismo astratto della politica e contro le manipolazioni della sofferenza e della disperazione dei poveri. Con la medesima forza, anche all’interno del suo partito ha combattuto ogni forma di messianismo e ogni pulsione utopistica. Non amava le cosiddette terze vie: sapeva che cosa significhi operare dentro e non contro la storia.
Era consapevole che il destino dell’Italia solo in minima parte è nelle mani dei suoi governanti. Conosceva bene, fin dai tempi in cui da giovane giornalista scriveva di politica estera, le dinamiche delle alleanze. Non le subiva come limitazioni, ma anzi le valutava come opportunità. Era davvero entrato nello spirito europeo. Lo guidava un acuto senso della realtà e della fragilità umana. Sapeva che non c’era futuro per chi inganna le masse”.
Ed ha concluso la ‘lectio con un discorso che Alcide De Gasperi tenne a Bruxelles nel 1948: “In democrazia non bisogna scoraggiarsi: lo scoraggiamento è il pericolo principale delle democrazie. Non occorrono mezzi artificiosi, promesse mirabolanti, per infondere coraggio, questi sono mezzi degli assolutismi. Basta la coscienza profonda e la certezza di attuare il proprio proposito. La pazienza è la virtù dei riformatori; riformare vuol dire superare il passato e la pazienza è virtù dei forti, virtù di chi ha fede, di chi ha coscienza dei problemi e li segue con tutta l’attenzione”.
Olga di Kiev: la diffusione del cristianesimo nella Rus’
Nacque tra l’890 e il 925 d.C. Quando aveva circa 15 anni il principe Igor la vide e se ne innamorò, prendendola in moglie. Igor era figlio di Rurik, una figura leggendaria, fondatore della federazione tribale Rus’ di Kyiv, un territorio che comprendeva parte dell’attuale Russia, Ucraina e Bielorussia e che aveva la sua capitale a Kiev. Il termine ‘Rus’, da cui derivano i termini di Russia e Bielorussia, è probabilmente di origine finnica e significa ‘uomo venuto dal mare’. Igor intraprese due campagne militari contro Costantinopoli, entrambe fallimentari.
Giornata del Migrante e del Rifugiato: Dio cammina con il suo popolo
“L’accento posto sulla sua dimensione sinodale permette alla Chiesa di riscoprire la propria natura itinerante, di popolo di Dio in cammino nella storia, peregrinante, diremmo ‘migrante’ verso il Regno dei cieli. Viene spontaneo il riferimento alla narrazione biblica dell’Esodo, che presenta il popolo d’Israele in cammino verso la terra promessa: un lungo viaggio dalla schiavitù alla libertà che prefigura quello della Chiesa verso l’incontro finale con il Signore. Allo stesso modo, è possibile vedere nei migranti del nostro tempo, come in quelli di ogni epoca, un’immagine viva del popolo di Dio in cammino verso la patria eterna”.
Così inizia il messaggio per la 110^ giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, ‘Dio cammina con il suo popolo’, che sarà celebrata domenica 29 settembre, e presentata lunedì 3 giugno da suor Patricia Murray, segretaria esecutiva dell’UISG e delegata alla XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi; Blessing Okoedion, sopravvissuta alla tratta, mediatrice culturale, presidente di ‘Weavers of Hope’; da Emanuele Selleri, direttore esecutivo dell’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo; e dal card. Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che ha sottolineato la dimensione itinerante del popolo di Dio, narrato nel libro dell’Esodo:
“Il popolo di Dio è sempre in cammino verso la patria celeste. Sperare per il Paradiso oggi è una speranza reale, ma si pone in netto contrasto con la disperata e pericolosa ricerca di tanti per un luogo di sopravvivenza, sicurezza e prosperità”.
Anche la Chiesa è sempre in cammino, come è ricordato nel messaggio papale (“L’accento posto sulla sua dimensione sinodale permette alla Chiesa di riscoprire la propria natura itinerante, di popolo di Dio in cammino nella storia, peregrinante, diremmo ‘migrante’ verso il Regno dei cieli”): “La Chiesa è in cammino, come lo fu il popolo di Israele nel libro dell’Esodo, liberato dalla terra della schiavitù e a quel punto libero di cercare la Terra Promessa.
Questo lungo esodo dalla schiavitù e verso la libertà richiede una vita intera, e prefigura il cammino di ciascuno verso il regno di Dio. La nota storia di Esodo è istruttiva. Per il popolo di Israele, sia la spinta (il lavoro forzato, la schiavitù, la repressione) sia il richiamo (la Terra Promessa) erano fattori irresistibili. Nulla avrebbe potuto dissuaderli dal pianificare quel viaggio pericoloso”.
E’ questo il senso del libro biblico: “Gli itineranti, gli esuli, i rifugiati, i migranti di oggi, come quelli di ieri, sono crudelmente provati dalle avversità. Possono essere tentati dal perdere la speranza. Eppure, sull’orlo della disperazione, tanti di loro portano la Bibbia e altri oggetti religiosi…
Il senso fondamentale del libro dell’Esodo, e di ogni esodo, è che Dio precede e accompagna i suoi figli e le sue figlie, di ogni tempo e luogo, che lo invocano. Il Messaggio di quest’anno spiega che il Signore è presente nel suo popolo e in ogni persona vulnerabile in cammino che bussa alla porta del nostro cuore e spera di incontrarci, di incontrare Dio in noi”.
Mentre Blessing Okoedion ha raccontato la sua storia: “Come tante altre donne vittime/sopravvissute alla tratta di esseri umani, anche io sono stata ingannata e fatta venire in Europa nel 2013, dove sono stata portata su una strada e messa in vendita. Mi era stato chiesto di restituire un ‘debito’ di € 65.000…
Grazie all’istruzione che mi ha permesso di conoscere i miei diritti fondamentali, e grazie a Dio che mi ha dato la forza e il coraggio, sono riuscita a scappare e denunciare. Dopo la denuncia, sono stata portata in un centro anti tratta: Casa Rut di Caserta, dove ho conosciuto suor Rita Giaretta, che è attualmente responsabile di Casa Magnificat a Roma, e che mi ha accompagnata in un percorso di rinascita che mi ha fatto ritrovare me stessa”.
E’ un invito a conoscere meglio il mondo ‘sommerso’ della prostituzione e della ‘tratta’: “Spesso si parla di volontarietà, si parla della prostituzione come del mestiere più antico nel mondo, ma dimentichiamo la vulnerabilità di migliaia di bambine, ragazze e donne, che spesso partono da contesti difficili e che non sono libere ma ridotte in schiavitù, sono vittime della tratta di esseri umani, un fenomeno che è ampiamente frainteso…
Bisognerebbe conoscere meglio e capire la situazione delle vittime, da dove vengono, quali sono le condizioni di miseria, degrado, mancanza di opportunità che le spinge a lasciare i loro Paesi. Ma bisognerebbe ascoltare di più anche le sopravvissute alla tratta di esseri umani, i loro vissuti di paura e dolore, ma anche di resistenza e di coraggio nei Paesi di destinazione in cui vengono sfruttate”.
Infine Emanuele Selleri ha presentato le attività dell’Agenzia Scalabriniana per lo Sviluppo Umano Integrale (ASCS), ‘nata dal carisma e dal cuore di san Giovanni Battista Scalabrini, uno dei pionieri della pastorale con i migranti nella chiesa cattolica’:
“Quindi noi siamo chiamati a camminare sulla strada che Dio ci indica, a fare del nostro meglio per essere e fare con i migranti e i rifugiati nei loro percorsi, ma nella consapevolezza che noi siamo al servizio di questa missione, non suoi protagonisti… E’ questa la certezza che ci dà la forza e la speranza per proseguire con la missione che ci è stata affidata”.
Il messaggio è chiuso da una preghiera di papa Francesco: “Dio, Padre onnipotente, noi siamo la tua Chiesa pellegrina in cammino verso il Regno dei Cieli. Abitiamo ognuno nella sua patria, ma come fossimo stranieri. Ogni regione straniera è la nostra patria, eppure ogni patria per noi è terra straniera. Viviamo sulla terra, ma abbiamo la nostra cittadinanza in cielo.
Non permettere che diventiamo padroni di quella porzione del mondo che ci hai donato come dimora temporanea. Aiutaci a non smettere mai di camminare, assieme ai nostri fratelli e sorelle migranti, verso la dimora eterna che tu ci hai preparato. Apri i nostri occhi e il nostro cuore affinché ogni incontro con chi è nel bisogno, diventi un incontro con Gesù, tuo Figlio e nostro Signore”.
Papa Francesco alle Acli per essere una voce di pace
Oggi papa Francesco ha ricevuto in udienza speciale le Acli in occasione dei festeggiamenti per l’80° anniversario delle Acli, “un traguardo significativo per l’Associazione che, dalla sua fondazione, si impegna per promuovere i valori del lavoro, della solidarietà e della giustizia sociale”, alla presenza di 6000 aclisti presenti in Vaticano provenienti da tutta Italia, oltre ai rappresentanti delle Acli dall’estero.
Durante l’incontro le Acli hanno portato al papa la statua di san Giuseppe Lavoratore che papa Pio XII benedisse nel 1955: “E’ una storia lunga e ricca, che testimonia il vostro impegno e la vostra dedizione nel servizio alla comunità. Avendo ottant’anni siete un po’ più giovani di me, ma il vostro percorso è molto significativo; e questo anniversario è una buona occasione per rileggere la vostra storia, con le sue gioie e i momenti difficili, e per esprimere gratitudine.
Ringrazio con voi il Signore che vi ha accompagnato e sostenuto lungo questo cammino, anche ispirando tante persone che, attraverso le ACLI, hanno dedicato la loro vita al servizio dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani, degli stranieri e di tanti che si trovano in situazioni di bisogno. Le ACLI sono un luogo dove è possibile incontrare dei ‘santi della porta accanto’, che non finiscono sulle prime pagine dei giornali, ma a volte cambiano concretamente le cose, in bene!”
Le Acli sono un patrimonio, perché ha uno stile popolare: “Si tratta non solo di essere vicini alla gente, ma di essere e sentirsi parte del popolo. Significa vivere e condividere le gioie e le sfide quotidiane della comunità, imparando dai valori e dalla saggezza della gente semplice. Uno stile popolare implica riconoscere che i grandi progetti sociali e le trasformazioni durature nascono dal basso, dall’impegno condiviso e dai sogni collettivi.
Ma la vera essenza del popolo risiede nella solidarietà e nel senso di appartenenza. Nel contesto di una società frammentata e di una cultura individualista, abbiamo un grande bisogno di luoghi in cui le persone possano sperimentare questo senso di appartenenza creativo e dinamico, che aiuta a passare dall’io al noi, a elaborare insieme progetti di bene comune e a trovare le vie e i modi per realizzarli”.
Inoltre il suo stile è sinodale: “Lavorare insieme, collaborare per il bene comune è fondamentale. Questo stile sinodale è testimoniato dalla presenza di persone che appartengono a diversi orizzonti culturali, sociali, politici e anche ecclesiali, e che oggi sono qui con voi… E’ bello questo: voi siete pluriformi e inquieti, e questo è una cosa bella. E’ bello questo: la varietà e l’inquietudine (in senso positivo), che vi aiuta a camminare insieme tra voi e anche a mescolarvi con le altre forze della società, facendo rete e promuovendo progetti condivisi. Vi chiedo di farlo sempre più e di avere attenzione verso quelli che nella società sono deboli, perché nessuno sia lasciato indietro”.
Le Acli inoltre evidenziano uno stile di pace: “In un mondo insanguinato da tante guerre, so di condividere con voi l’impegno e la preghiera per la pace. Per questo vi dico: le ACLI siano voce di una cultura della pace, uno spazio in cui affermare che la guerra non è mai ‘inevitabile’ mentre la pace è sempre possibile; e che questo vale sia nei rapporti tra gli Stati, sia nella vita delle famiglie, delle comunità e nei luoghi di lavoro”.
E’ un invito a costruire la pace: “Costruisce la pace chi sa prendere posizione con chiarezza, ma al tempo stesso si sforza di costruire ponti, di ascoltare e comprendere le diverse parti in causa, promuovendo il dialogo e la riconciliazione. Intercedere per la pace è qualcosa che va ben oltre il semplice compromesso politico, perché richiede di mettersi in gioco e assumere un rischio. Il nostro mondo, lo sappiamo, è segnato da conflitti e divisioni, e la vostra testimonianza di operatori di pace, di intercessori per la pace, è quanto mai necessaria e preziosa”.
Tutte queste caratteristiche confluiscono nello stile cristiano: “Assumere uno stile cristiano, allora, vuol dire non soltanto prevedere che nei nostri incontri ci sia un momento di preghiera: questo va bene, ma dobbiamo fare di più; assumere uno stile cristiano vuol dire crescere nella familiarità con il Signore e nello spirito del Vangelo, perché esso possa permeare tutto ciò che facciamo e la nostra azione abbia lo stile di Cristo e lo renda presente nel mondo… E’ il sogno di San Francesco di Assisi e di tanti altri santi, di tanti cristiani, di tanti credenti di ogni fede. Fratelli e sorelle, sia anche il vostro sogno!”
All’inizio dell’udienza il presidente delle Acli, Emiliano Manfredonia, ha ringraziato il papa, ribadendo la fedeltà dell’associazione al magistero della Chiesa: “Siamo e rimarremo sempre sulla soglia della nostra Chiesa, non per difenderla, ma per provare a far avvicinare quante più persone al messaggio del Vangelo. Per contribuire a tenere le porte delle chiese sempre più aperte perché vi si possa anche uscire. Rimaniamo sulla soglia perché il nostro intento non è creare un’utopica società cristiana, ma formare cristiani nella società.
Dalla tutela dei lavoratori e delle lavoratrici, alla lotta alle diseguaglianze fino all’impegno per le famiglie, per i poveri, per la pace: su questi che sono i nostri temi, senza essere un partito siamo di parte, non abbiamo timore di prendere posizione. Perché abbiamo fame e sete di giustizia”.
(Foto: Santa Sede)
Il popolo introvabile e la democrazia di sabbia
Dov’è passato il popolo nei Paesi del Sahel? Si tratta dei bambini, i giovani e gli adulti che hanno riempito lo stadio un paio di volte dopo il golpe di fine luglio dell’anno scorso? Oppure dei gruppi di vigilanza nelle rotonde della capitale? O allora delle migliaia di cittadini che hanno ottenuto la partenza incondizionata dei militari francesi prima e americani poi nella piazza battezzata della ‘Resistenza’?
Parliamo delle qualche decine di militanti delle organizzazioni della società civile che hanno ‘sposato ‘ e ‘orientato’ la causa della giunta? C’è popolo e popolo, come dappertutto in giro per il mondo, beninteso. Coloro che ne accaparrano i vizi e le virtù e coloro che, diciamo così, non ne faranno mai parte.
Ad esempio i bambini e adulti che a centinaia mendicano sulle strade della capitale o che sono ‘esportati’ nei Paesi confinanti per esercitare il mestiere di salvare le anime dei peccatori. In effetti, anche grazie a loro i fedeli potranno praticare la virtù dell’elemosina e sperare nella misericordia divina. Nella zona ‘grigia’ tra il popolo e il non popolo ci sono le moltitudini dei contadini, degli allevatori di bestiame e la folla immensa di giovani che sopravvivono del lavoro informale per il cibo quotidiano. A meno che non si chiami ‘popolo’ solo chi sta dalla parte’ giusta’.
C’è il popolo dei commercianti, i grandi che vanno a Dubai o altrove, i medi che si industriano per riemergere dalla crisi, i piccoli delle frontiere e i minimi che vendono i sacchetti d’acqua di un’improbabile sorgente del Sahel, pura e minerale per tutti i gusti. Ci si ricorda del popolo dei politici del passato, in situazione di stallo con la sospensione delle attività dei partiti politici o per via dei compromessi con l’antico regime presidenziale del Rinascimento.
Il popolo dei funzionari statali, gli insegnanti, gli impiegati nelle Ong locali, i superstiti delle cooperazioni bilaterali e l’indefinita lista di chi cerca lavoro e colleziona domande di assunzione per concorsi che non arrivano mai a tempo. Si dovrebbe aggiungere il popolo degli imprenditori religiosi che organizzano la vita religiosa del popolo dei credenti a sua volta suddiviso tra stranieri e autoctoni.
Poi c’è il popolo dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati espropriati delle terre, le case e il futuro che immaginavano diverso. Il popolo dei militari fa storia a sé soprattutto se si prendono in considerazioni i gradi, le affinità, le conoscenze e l’attuale posto nell’amministrazione politica del Paese. Anche le donne formano, a modo loro, un popolo a parte speciale coi suoi riti, attese, prerogative e poteri sul quotidiano dei figli e quello, meno evidente, sui mariti.
Il popolo è dunque un’idea nata da qualche parte tra il concetto di nazione e quello di stato. Oppure non si tratta che di un’invenzione che solo la scelta di nominarlo permette di farlo esistere. ‘In nome del popolo sovrano’ suona quasi come un proclama assoluto dal sapore divino. La giustizia, la legge e la carta costituzionale si fondano sul popolo e così la sovranità che gli appartiene per natura.
Sono i cittadini riconosciuti come tali che sembrano costituire il popolo in base all’appartenenza storica, geografica, culturale e politica ad un ordinamento accettato e riconosciuto. C’è poi, infine, il popolo di sabbia o meglio il popolo che della sabbia è una creatura a parte.
Spazzato via dal vento e dai pulitori di strade, ai margini delle corsie transitabili dai veicoli oppure allontanato dagli orientamenti strategici del Paese, venduto e occasionalmente ostaggio delle nuove bandiere sistemate nelle rotonde della capitale. Fanno bella mostra quelle dei Paesi dell’Alleanza del Sahel assieme a quella della Russia. Forse il popolo introvabile si trova, nascosto, nella polvere che il vento porta lontano.