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Mons. Muser racconta 60 anni della diocesi di Bolzano-Bressanone

Giovedì 6 agosto 1964 a Castel Gandolfo papa Paolo VI firmava tre bolle pontificie, riguardanti le diocesi di Trento e di Bolzano: la bolla ‘Quo aptius’ stabiliva che i territori dell’arcidiocesi di Trento situati nella Provincia di Bolzano fossero uniti alla diocesi di Bressanone, che da allora porta il nome di Bolzano-Bressanone; la bolla ‘Tridentinae Ecclesiae’ fissava Trento sede metropolitana e Bolzano-Bressanone diocesi suffraganea; infine la bolla ‘Sedis Apostolicae’ trasformava l’amministratura apostolica Innsbruck-Feldkirch in diocesi di Innsbruck.

Infatti dal 1964 i confini della diocesi di Bolzano-Bressanone e dell’arcidiocesi di Trento coincidono con i confini delle due Province e Innsbruck e la diocesi è diventata una diocesi autonoma, come ha ricordato in una lettera pastorale mons. Ivo Muser, vescovo di Bolzano e Bressanone:

“Sono passati 60 anni: un motivo per ricordare e riflettere. Ben tre volte la nostra diocesi ha cambiato nome nel corso della sua lunga storia: Sabiona, Bressanone, Bolzano-Bressanone. Questo fatto da solo dimostra quanto gli sconvolgimenti, la tradizione e il cambiamento, la continuità e la discontinuità caratterizzeranno sempre il cammino della Chiesa nella storia. Il nostro Dio è un Dio della storia: è sempre in cammino con il suo popolo, e quindi con noi, la sua Chiesa”.

Per quale motivo è stata istituita la diocesi di Bolzano – Bressanone?

“Quando il 6 agosto 1964 la bolla papale “Quo aptius” annunciò quello che molti attendevano da tempo, cioè la costituzione della diocesi di Bolzano-Bressanone, l’entusiasmo fu grande. L’unificazione di tutto l’Alto Adige in una diocesi fu un evento gioioso, a lungo desiderato e sperato. La diocesi di Bolzano-Bressanone nasce dal desiderio di fornire vicinanza spirituale a tutta la popolazione dell’Alto Adige nella maniera più equa possibile.

La sua erezione è stata realizzata, nonostante le tensioni politiche, in primo luogo grazie all’azione pastorale del vescovo Gargitter, che allo stesso tempo rese merito all’arcivescovo di Trento come a colui che ‘con amore pastorale disinteressato e lungimirante non solo ha reso possibile il nuovo ordinamento diocesano, ma l’ha anche promosso con tutte le sue forze’”.

‘Questo fatto da solo dimostra quanto gli sconvolgimenti, la tradizione e il cambiamento, la continuità e la discontinuità caratterizzeranno sempre il cammino della Chiesa nella storia. Il nostro Dio è un Dio della storia: è sempre in cammino con il suo popolo, e quindi con noi, la sua Chiesa’: ha scritto nel messaggio ai fedeli. In quale modo la diocesi coniuga tradizione e cambiamento?

“Nel corso della sua lunga esistenza, la nostra diocesi ha cambiato denominazione tre volte: da Sabiona a Bressanone e infine a Bolzano – Bressanone. Questo cambiamento stesso evidenzia come l’inizio, la trasformazione, la tradizione e la continuità, insieme ai mutamenti, influenzino costantemente il percorso della Chiesa nella storia. Cambiamento e trasformazione sono parte integrante dell’essenza della Chiesa. Il nostro Dio è un Dio che vive la storia.

Egli cammina sempre insieme alle sue persone, e quindi con noi, la sua Chiesa. I cristiani credono in un Dio che si è fatto storia in Gesù Cristo. Pertanto, la nostra storia umana non è solo una serie di eventi anonimi, ciechi, banali e spesso contraddittori e crudeli, ma rappresenta il luogo in cui le persone possono incontrare Dio”.

Come la Chiesa di Bolzano e Bressanone si prepara ad ‘essere’ nel mondo?

“La società, con le sue dimensioni sociali e politiche, affronta oggi sfide e tensioni significative. La preoccupazione per la salvaguardia del Creato e le angosce sollevate dai conflitti e dalle guerre in corso nel mondo destano ansia e scoraggiamento in molti. Emergono interrogativi sociali e antropologici, le cui risposte tendono a divergere sempre di più. Le nostre comunità celebranti hanno vissuto un radicale ridimensionamento; la Chiesa appare meno rilevante e meno accettata socialmente.

Abbiamo imparato a convivere con questa realtà, interpretandola alla luce del Vangelo. Abbiamo compreso che è in questo contesto che Dio ci incontra, ci chiama e ci invia. Man mano che diventiamo più umili e impotenti, ci rendiamo conto che Dio è il nostro sostegno e la nostra forza. La diminuzione della nostra influenza sociale ci ha portato a trasformarci in una Chiesa delle Beatitudini, che trae credibilità dalla sua vulnerabilità”.

‘La lunga storia della nostra diocesi di Sabiona, Bressanone e Bolzano-Bressanone non ha donato solo grandi momenti, santi e martiri, tra cui vorrei citare Josef Freinademetz e Josef Mayr Nusser a nome di tutti loro. Ci sono anche ore e periodi bui, colpe e fallimenti. Anche questo fa parte della nostra memoria, della nostra identità.’: cosa significa per la Chiesa locale fare memoria di Josef Freinademetz e Josef Mayr Nusser? 

“San Giuseppe Freinademetz ci insegna ad avere il vangelo come punto di riferimento anche nelle questioni quotidiane, a porre Cristo al centro della nostra vita e a vivere nella patria terrena con fede convinta e profonda nella patria celeste, per la quale siamo voluti e creati.

Il beato Josef Mayr-Nusser ha vissuto la sua identità cristiana fino in fondo. È una figura coraggiosa e scomoda, che ci spinge a confrontarci con un capitolo assai doloroso della nostra storia, caratterizzato da fascismo, nazionalsocialismo e opzioni. Il nostro Beato rimane uno stimolo attuale, scomodo e profondamente cristiano per tutti noi in mezzo alle domande, alle sfide, alle discussioni e alle posizioni contrastanti del nostro tempo”.

Pochi giorni fa è terminata la seconda sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità. In quale modo la diocesi vive la sinodalità?

“Quando pensiamo alla Chiesa, pensiamo innanzitutto alla comunità viva che noi stessi sperimentiamo a livello locale: siamo ispirati dal Vangelo, troviamo nella fede la nostra gioia e condividiamo un’esperienza positiva di comunione ecclesiale. Se saremo in grado di comprendere il vero significato di sinodalità saremo anche capaci di superare le lamentele su ciò che manca, affrontando ed elaborando apertamente problemi ed errori, grandi e piccoli condividendo la responsabilità. La sinodalità è il nostro stile pastorale e ci aiuterà a superare i blocchi, le polarizzazioni e i circoli viziosi che in passato hanno talvolta distolto lo sguardo dalla bellezza del Vangelo”.

Allora, cosa significa ‘festeggiare’ 60 anni di diocesi?

“Festeggiare i 60 anni della nostra diocesi significa rivolgere uno sguardo credente sulla sua storia passata e uno sguardo pieno di speranza su quella a venire. Allora sarà chiaro quanto il nostro Dio si impegni con noi esseri umani, quanto egli desideri e abbia bisogno di noi, fino a quale grandezza siano capaci le persone credenti e quanto Dio possa scrivere dritto anche su righe storte e umane. Possa alla nostra Chiesa locale, all’Arcidiocesi di Trento ed alla Diocesi di Innsbruck, con le quali siamo legati da una lunga tradizione storica, non mancare mai la presenza di persone pronte a scrivere insieme il piano di salvezza di Dio per noi”.

(Foto: Diocesi Bolzano – Bressanone)

Oratori: Vino nuovo in otri nuovi. Educatori per l’oratorio che verrà

Riprende dopo una pausa di alcuni anni il Seminario di Pastorale Oratoriana, appuntamento tradizionale del Centro Oratori Romani dedicato a educatori e responsabili di oratorio, laici, religiosi e sacerdoti, per uno sguardo al mondo dell’oratorio da diversi punti di vista e in dialogo con le sempre nuove sfide pastorali. Titolo dell’incontro sarà ‘Vino nuovo in otri nuovi. Educatori per l’oratorio che verrà’ per una mattinata di approfondimento presso il Seminario Romano Maggiore (Piazza San Giovanni in Laterano, 4), dalle ore 8:30 alle ore 13:00 di sabato 12 ottobre. 

Aprirà i lavori don Fabio Rosini, Direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale Universitaria, che approfondirà il carisma educativo del catechista di oratorio. Seguirà una intervista a Roberto Mauri, autore del libro ‘Campo Base. L’oratorio che verrà?’ per lanciare la sfida di ricercare nuove forme pastorali. Concluderà, infine, la riflessione Fabrizio Lo Bascio, coordinatore del Centro Studi Pastorali del COR, che accompagnerà i partecipanti in una sintesi della giornata e nella riflessione sul sogno missionario del COR per gli oratori di Roma all’inizio di un nuovo anno pastorale.

“Il Seminario ha l’intenzione di riattivare una riflessione pastorale sull’oratorio” sottolinea Lo Bascio invitando l’intera comunità diocesana coinvolta negli oratori a partecipare per portare il proprio contributo. “Vogliamo aiutarci reciprocamente per la comprensione e la realizzazione efficace dell’oratorio, come esperienza educativa ecclesiale, con una tradizione tutta sua nel passato, con sfide educative e sociali nel presente, con un futuro da immaginare.

Abbiamo scelto di tratteggiarne tre: l’educatore, l’oratorio come esperienza educativa ed infine l’azione pastorale per l’oratorio a livello diocesano o cittadino. In qualche modo tutte e tre possono e devono rinnovarsi: un educatore che riscopre il suo carisma, un ‘vino nuovo’, un oratorio che assume una forma paradigmatica rinnovata, un ‘otre nuovo’ ed, infine, una prospettiva più ‘ampia’ che si interroga su come promuovere e diffondere tutto questo oggi nel tessuto ecclesiale e urbano di Roma”.

Da Benevento i vescovi chiedono attenzione per le aree interne

“Riuniti a Benevento, com’è ormai tradizione, ringraziamo anzitutto Dio per il dono dell’esperienza che ci ha dato di vivere, fatta di comunione e sinodalità concreta: l’amicizia, lo scambio sereno e fecondo, i momenti di distesa fraternità condivisi sono il valore aggiunto, la cifra peculiare di questa esperienza che porteremo con noi. Giorni nei quali abbiamo sentito risuonare le parole rivolte al profeta: O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele”.

Così inizia il messaggio conclusivo dell’incontro dei vescovi delle Aree interne riuniti a Benevento fino al 17 luglio, appuntamento che da cinque anni vede i vescovi delle zone interessate (quest’anno ben 30 da 14 regioni) confrontarsi sulle esigenze pastorali e sui risvolti sociali della Chiesa in zone in cui altre presenze istituzionali latitano, soprattutto per via dello spopolamento:

“Le Aree interne costituiscono la parte consistente e fragile di tutto il Paese (nord, centro, sud), pur custodendo esse potenzialità straordinarie. In un tempo in cui la distanza relazionale crea vere e proprie disconnessioni umane e lo spazio, quello verde soprattutto, va rarefacendosi, queste vaste porzioni di territorio, dotate di paesaggio e di un ricco patrimonio storico-artistico ed enogastronomico, dove le relazioni umane sono vissute in modo autentico, si rivelano infatti di una ricchezza sorprendente anche allo sguardo più distratto”.

Tale incontro nasce dal desiderio di una pastorale, che scaturisce dal battesimo: “Abbiamo in questi giorni riflettuto sul modo migliore per avviare una pastorale il più possibile idonea alle Aree interne, interrogandoci soprattutto sulla ministerialità che nasce dal battesimo; una ministerialità che coinvolge tutte le membra del Popolo di Dio e la molteplicità delle vocazioni, nella consapevolezza che non possiamo continuare a ripetere stereotipi ormai da tempo superati, ma aprirsi alla voce dello Spirito, che non fa tanto cose nuove, ma fa nuove tutte le cose”.

E’ un invito a superare il campanilismo: “E’ necessario, perciò, superare l’ottica ristretta del campanile, per aprirci a forme nuove, capaci di valorizzare al meglio le risorse a nostra disposizione. Esprimiamo viva e sincera gratitudine ai sacerdoti e agli operatori pastorali che con generosità lavorano nei territori interni affrontando non poche difficoltà: anche la formazione nei seminari dovrà tener conto di queste problematiche”.

Però l’impegno della Chiesa è quello di non abbandonare i territori, come ha ribadito in apertura dell’incontro il presidente della Cei, card. Matteo Zuppi: “Le aree interne del Nord e del Sud sono accomunate dalle stesse difficoltà con qualche variante in negativo per il Mezzogiorno, dove ci sono ulteriori mancanze di strutture e opportunità. Se non ci sono possibilità, infrastrutture, collegamenti, si vanno a cercare altrove. Ma tutte le comunità, anche le più piccole, sono importanti. Il grande vantaggio delle aree interne è che spesso c’è più comunità che altrove, luoghi dove i legami si rinsaldano e ci si ritrova”.

Quindi a conclusione dell’incontro il segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari, ha ritenuto opportuno “un discernimento, una lettura dei fenomeni storici che riguardano le aree interne ed un’attenzione specifica all’uso di alcune categorie normative… A noi interessano i problemi di una marginalità della popolazione, del costituirsi di comunità, della modificazione dei ritmi di lavoro e dell’ambiente naturale”.

Al vescovo di Benevento, mons. Felice Accrocca, membro della Commissione Episcopale per l’Evangelizzazione dei Popoli e la Cooperazione tra le Chiese della Cei, abbiamo chiesto il motivo per cui tale convegno si è svolto in questa diocesi: “Si è svolto a Benevento, perché è a Benevento che esso si svolge sin dall’inizio: siamo ormai alla quarta edizione. Nel maggio 2019, infatti, i vescovi della Metropolia di Benevento sottoscrissero un documento (‘Mezzanotte del Mezzogiorno? Lettera agli Amministratori’) che metteva a fuoco il persistente e grave ritardo nello sviluppo delle cosiddette ‘aree interne’.

Non volevano arrogarsi compiti non propri, piuttosto proporre un metodo che, in politica come in economia, tenesse fermo il primato della comunione. Prese avvio allora un percorso che ha avuto i suoi sviluppi: cammin facendo, infatti, si è andata manifestando in maniera crescente l’esigenza di mettere a fuoco la questione anche da un punto di vista più strettamente pastorale, poiché le aree interne si trovano a fronteggiare problemi del tutto diversi da quelli con cui sono chiamate invece a misurarsi le aree urbane o metropolitane o turistiche. Nacquero così i convegni dei vescovi, che cominciarono a svolgersi nel 2021”.

Perché la Chiesa si interessa delle aree interne?

“Semplicemente perché essa si interessa dell’uomo, di tutto l’uomo e di ogni uomo. Prende parte, quindi, ai problemi dell’uomo là dove l’uomo vive: plagiando la ben nota affermazione di Terenzio, possiamo dire che la Chiesa non reputa da sé niente di estraneo di tutto ciò che è umano. La Chiesa che vive nei territori interni si fa quindi carico dei problemi che in quei territori sono pane quotidiano”.

Come evitare lo spopolamento delle interne?

“Anzitutto con una chiara politica da parte del Governo, tesa a promuovere un progetto globale per le cosiddette ‘Aree interne’, che costituiscono la parte maggiore del suolo italiano: quindi, diversi criteri nell’assegnazione delle risorse, una tassazione differenziata, non per Regioni, ma per fasce territoriali; inoltre, come ha detto il card. Zuppi, ‘politiche serie e stabili a sostegno della natalità e della famiglia’. Bisogna puntare sulle potenzialità di questi territori, perché sono questi i luoghi (come ha detto ancora il presidente della Cei) ‘che hanno la forza di essere comunità, luoghi dove i legami si rinsaldano e ci si ritrova’”.

Quale accoglienza può dare speranza alle aree interne?

“Non spetta certo a me definire criteri in proposito; ritengo però, rubando ancora una volta le parole a Zuppi, che ‘un’idea seria di accoglienza può dare futuro alle Aree interne e anche al nostro Paese’”.

Quale pastorale per le aree interne?

“E’ proprio su questo che nei nostri convegni stiamo interrogandoci, di anno in anno. Certo, in queste zone (soprattutto al Sud) sembra avere ancora una forte presa la religiosità popolare: come valorizzare l’esistente, purificando evidenti anomalie ed evitando, al tempo stesso, di gettare quanto vi è di buono assieme all’acqua sporca? Inoltre, i flussi migratori richiedono di pensare una pastorale attenta alle relazioni ecumeniche e interreligiose che, allo stato attuale, è in gran parte ancora sulla carta. Negli ultimi tre anni tre importanti relazioni, di mons. Mariano Crociata, mons. Roberto Repole, mons. Franco Giulio Brambilla hanno posto alcuni punti fermi. Si tratta ora di continuare il percorso, per giungere ad abbozzare una sintesi, anche se provvisoria”.

Come ripensare alla presenza sacerdotale nelle aree interne?

“Andrebbe intanto presa sul serio una proposta di Repole, secondo il quale la presidenza del presbitero è ‘da leggersi più nella logica della episcopé, ovvero della sorveglianza, che non dell’azione diretta e immediata su ogni questione’”.

(Foto: Diocesi di Benevento)

XVI Domenica Tempo Ordinario: una pastorale che è servizio all’amore

La liturgia oggi evidenzia due temi: una invettiva contro i pastori infedeli e una relazione nuova, stabile e sistematica tra il pastore e il suo gregge. Il primo tema evidenzia la presenza nel gregge di pastori infedeli che disperdono il gregge: pastore infedele è chi dimentica che comandare, guidare significa “servire”, vivere ed adoperarsi per gli altri. Il Profeta si riferisce oggi a chiunque si presenta come pastore (religioso, politico etc. ) e invece di servire il gregge del Signore pensa solo a sé. Gesù è il primo che si autodefinisce ‘buon pastore’ con i relativi attributi di guida ricolma solo di amore e compassione per il gregge. Egli conosce le sue pecore, le chiama per nome e queste ascoltano la sua voce.

Oggi nella Chiesa: vescovi, presbiteri, autorità religiose o politiche sono veri collaboratori se attuano i comandi del Signore dove  guidare è ‘servire’: ognuno, conforme ai talenti e ai carismi ricevuti dallo Spirito Santo, è chiamato ad  attuare la propria missione  di guida credibile in nome di Cristo e non per tornaconto personale. Nel brano del Vangelo i discepoli di Gesù erano ritornati felici per avere incontrato tanta gente; ora Gesù li invita all’incontro con se stessi: ‘Venite in disparte e riposatevi’.

Gesù li invita in disparte, in un luogo solitario per riposarsi; Egli infatti si preoccupa della loro stanchezza fisica ed interiore; non è solo riposo  fisico ma anche del cuore.  Riposarsi per l’apostolo significa ritemprare lo spirito attingendo alla fonte dell’acqua viva: Cristo, che è Via, Verità e Vita. Come nel Vangelo tante volte Gesù si ritirava in preghiera per ritrovare il Padre e rinnovare le forze fisiche, così l’uomo, l’apostolo solo in Gesù ogni giorno deve trovare  la forza che lo rinnova.

Gli Apostoli infatti non sono collaboratori esterni ma veri amici di Gesù; non sono impiegati o mercenari ma chiamati a dare la vita, se è necessario, per le pecore e per il Regno di Dio. Vi ho dato l’esempio, dice Gesù, e come ho fatto io , fate voi. Gesù crea nei suoi discepoli l’anima del buon pastore. Gli Apostoli si dirigono con la barca in un luogo deserto, la folla se ne  accorge: li videro, li capirono e li precedettero.

L’amore è servizio ma è anche compassione: Gesù vide ed ebbe compassione della folla perché erano come pecore senza pastore e si mise ad insegnare loro molte cose. Da buon pastore  Gesù riserva alla folla il dono migliore: la sua parola che illumina e dà gioia al cuore. La folla infatti non era venuta perché Gesù l’aveva saziata con la moltiplicazione dei pani, ma perché si sentiva amata   e non disprezzata o messa da parte. 

Gesù non fa discorsi politici o di alta economia; il Regno di cui parla è solo il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. La folla cerca Gesù perché ha fame e sete di giustizia e Gesù appresta l’opportuno rimedio: ‘convertitevi’, collaborate per restaurare il regno dell’amore e si avrà la pace vera. La pace si costruisce solo cercando con coraggio di eliminare le disuguaglianze generate da sistemi ingiusti ed attuando quanto necessita per realizzare una esistenza degna dell’uomo e prospera.

Giustizia e pace non sono possibili senza la purificazione del cuore, senza un rinnovamento di pensiero, senza una reale conversione all’amore verso Dio, verso la famiglia, verso tutti. Tale novità deve coinvolgere anche la dimensione politica. ‘Se il Signore è il mio pastore non manco di nulla’. La pace è il frutto della solidarietà globale finalizzata al bene della grande famiglia umana. La Madonna, la madre di Gesù e nostra, ci aiuti a vivere il grande e nobile mistero dell’amore.

Giornata del Mare: gli operatori siano al centro della pastorale

Ogni anno nella seconda domenica di luglio si celebra la Domenica del Mare, in cui le comunità cattoliche di tutto il mondo pregano per coloro che lavorano nel settore marittimo e per chi si prende cura di loro. Per l’occasione, il Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, card. Michael Czerny, ha inviato un messaggio a tutte le persone impegnate in questo comparto e a cappellani e volontari attivi nella pastorale del mare. 

Infatti la Domenica del Mare è un’occasione per richiamare l’attenzione su uno dei settori di cui poco si parla ma che è al centro della vita di ognuno: come è stato sottolineato nel messaggio, prendendo spunto dalla Prima Lettera ai Corinzi, in cui san Paolo paragona la Chiesa ad un Corpo con molte membra:

“Egli osserva che anche le membra meno visibili contribuiscono in maniera necessaria e significativa al funzionamento ed al benessere dell’insieme. I marittimi sono tra i membri meno visibili di tutta l’umanità. Eppure, è attraverso i loro sforzi invisibili che possiamo far fronte a molte delle nostre necessità. In mare, essi sperimentano la bellezza sconfinata della natura, ma attraversano anche l’oscurità fisica, spirituale e sociale”.

 Dal 1920, l’Apostolato del Mare è diventata una realtà ‘istituzionalizzata’ nella Chiesa, e ogni anno si celebra la domenica del mare nella seconda domenica di luglio. L’Apostolato del Mare, conosciuto come Stella Maris, era prima inserito all’interno del Pontificio Consiglio dei Migranti, ed è stato poi assorbito dal Dicastero guidato dal Cardinale Czerny:

“Il numero totale di questi lavoratori e delle loro famiglie è di svariati  milioni. La Domenica del Mare rende visibili le loro realtà quotidiane, che sono invisibili. Oggi come in passato, la navigazione marittima può comportare l’assenza da casa e dalla terraferma per mesi e persino per anni. Tanto i marittimi quanto le loro famiglie possono perdere momenti significativi della vita gli uni degli altri”.

Il prefetto del Dicastero vaticano denuncia le ingiustizie e la mancanza di dignità: “Sacrifici, questi, che il salario può giustificare, tuttavia tale beneficio può essere minacciato da ingiustizie, sfruttamento e disuguaglianza. E’ meraviglioso, perciò, quando i volontari, i cappellani ed i membri delle chiese locali portuali, che si impegnano nella pastorale marittima, difendono la dignità e i diritti dei marittimi”.

Il card. Czerny sottolinea l’importanza della pastorale marittima: “La pastorale marittima può aiutare a riportare la periferia al centro in molti modi, per esempio: incontrando la gente del mare di persona e nella preghiera; migliorando le condizioni materiali e spirituali di questi lavoratori; difendendone la dignità e i diritti; promuovendo relazioni internazionali e politiche volte a salvaguardare i diritti umani di coloro che navigano e lavorano lontano dalle famiglie e dal proprio Paese di origine”.

Inoltre ha sottolineato il compito della Chiesa: “La Chiesa è chiamata a servire ciascun membro della famiglia umana. Dal momento che i marittimi provengono da tutti i Paesi del mondo e professano tutte le religioni del mondo, includerli nella vita e nella pastorale della Chiesa favorisce la crescita nella comprensione reciproca e nella solidarietà fra tutti i popoli e le religioni”.

Per questo le parole di san Paolo è un incoraggiamento per la Chiesa: “Queste parole incoraggiano oggi la Chiesa a lavorare per una maggiore unità, non solo tra persone diverse tra di loro, ma anche tra quelle che sperimentano divisioni e tensioni reciproche. Come ci ricorda san Paolo, la Chiesa non deve rifuggire queste sfide, se vuole essere fedele alla missione affidatale dal Signore. Una maggiore unione tra i credenti contribuisce a una maggiore unità tra tutti i popoli e i Paesi”.

E’ un invito a diffondere il cristianesimo anche attraverso il mare: “Il cristianesimo si diffuse in terre lontane proprio attraverso il mare. Non c’era altra scelta. La Chiesa, oggi, può trarre ispirazione da quegli abitanti delle comunità costiere che furono i primi a sentire il messaggio nuovo di Cristo per bocca degli apostoli che viaggiavano per mare e di altri missionari. Ogni nuova imbarcazione che arrivava significava maggiori incontri e scambi, maggiore apertura alle novità e alle immense possibilità che si aprivano oltre le coste locali. La chiamata ad accogliere lo straniero può sfidarci quando preferiamo rimanere socialmente e spiritualmente isolati”.

E’ un invito alla cura del mare, affinchè tutti i lavoratori si sentano partecipi nella Chiesa: “Invitiamo tutti e ciascuno a fare la propria parte per riparare, con coraggio, la nostra Casa comune e crescere nella fraternità e nell’amicizia sociale. Riconosciamo, quindi, il contributo essenziale di coloro il cui lavoro potrebbe altrimenti rimanere invisibile. Sosteniamo il ministero di accoglienza di quanti hanno bisogno di ascolto e di un luogo a cui appartenere, un porto sicuro, una comunità che accolga tutti coloro che desiderano tornare a casa. Lasciamoci ispirare dall’esempio degli scambi reciproci nella vita dei marittimi. La gente del mare possa sentirsi parte della Chiesa ovunque vada”.

‘Spera e agisci con il creato’ per portare il lieto annuncio

“Spera e agisci con il creato: è il tema della Giornata di preghiera per la cura del creato, il prossimo 1° settembre. E’ riferito alla Lettera di San Paolo ai Romani 8,19-25: l’Apostolo sta chiarendo cosa significhi vivere secondo lo Spirito e si concentra sulla speranza certa della salvezza per mezzo della fede, che è vita nuova in Cristo.  Partiamo allora da una domanda semplice, ma che potrebbe non avere una risposta ovvia: quando siamo davvero credenti, com’è che abbiamo fede? Non è tanto perché ‘noi crediamo’ in qualcosa di trascendente che la nostra ragione non riesce a capire, il mistero irraggiungibile di un Dio distante e lontano, invisibile e innominabile”.

In questo modo inizia il messaggio di papa Francesco per la Giornata di preghiera per la cura del creato, presentata a fine giugno da suor Alessandra Smerilli, segretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che ha sottolineato che la speranza esiste se sono possibili i cambiamenti delle condizioni: “Il ministero di Gesù, profeticamente orientato ‘a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore’, annuncia una vicinanza di Dio che chiede conversione”.

In tale speranza si può annoverare anche la conversione ecologica: “La conversione ecologica, come ogni esperienza di conversione, è un avvenimento spirituale con ripercussioni visibili, concrete. Il messaggio di quest’anno, che noterete avere un contenuto marcatamente teologico, vuole sostenere questa consapevolezza che rende la speranza quasi un miracolo di Dio in noi, ma anche attorno a noi: una meraviglia della grazia che va ben oltre l’ottimismo (o il pessimismo) con cui possiamo sentimentalmente rispondere alle circostanze storiche”.

Ed ha esaminato il capitolo della lettera paolina, da dove è stata presa la frase per il tema di quest’anno: “Il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, cui il messaggio fa riferimento, è un capolavoro della teologia paolina. Come spesso avviene leggendo le lettere dell’Apostolo, sembra di ascoltare la viva voce con cui Paolo doveva dettare allo scriba ciò che usciva dal suo cuore ispirato. In particolare, colpisce qui la sua capacità di sentire l’intera creazione che geme e soffre.

Le condizioni del Pianeta non erano certo quelle attuali, ma già nel Nuovo Testamento un radicale senso di comunione con tutte le creature rende ascoltabile il grido della terra e dei viventi: un bisogno di salvezza e di redenzione che oggi si è fatto solo infinitamente più acuto, per responsabilità degli esseri umani. E non di tutti gli esseri umani allo stesso modo, ma particolarmente di chi più dalla creazione ha avuto, ha preso. Di chi ha scavalcato gli equilibri su cui si fonda la giustizia”.

Mentre don Alberto Ravagnani, collaboratore della Pastorale Giovanile diocesana ambrosiana, ha sollecitato a porre la cura del creato nelle proposte della pastorale giovanile: “Per questo motivo, il tema della cura del Creato andrebbe a buon diritto inserito nella pastorale giovanile per la formazione della fede delle nuove generazioni. Una fede che sia sempre più incarnata e che sappia entrare ‘nella carne sofferente e speranzosa della gente’ di oggi. Una fede che accenda la speranza e mobiliti l’agire, in modo da generare opere nuove per il bene dell’ambiente”.

Don Ravagnani ha denunciato una mancanza di attenzione al tema della cura del creato: “Nei nostri contesti ecclesiali il tema della cura del Creato non è sempre adeguatamente portato all’attenzione dei ragazzi e dei giovani come tema di fede. Al di là delle buone prassi a cui educarsi, infatti, per noi cristiani il tema ambientale è imprescindibile perché innanzitutto ha a che fare con la nostra identità di creature, di figli, di fratelli. E se proposto a questo livello, allora sarà questo tema di fede ad alimentare la speranza dei giovani cristiani, a stimolare la loro creatività, a mobilitare nuove e più virtuose prassi”.

Infine María Lía Zervino, membro dell’associazione Servidora, Membro del Consiglio del ‘Movimento Laudato sì’, ha sottolineato che la speranza ha bisogno della nostra azione: “Ma la speranza da sola non basta. Il messaggio di oggi solleva il tema ‘aspetta e agisci con la creazione’. Come dice chiaramente papa Francesco, lo Spirito Santo mantiene noi credenti vigili e ci chiama continuamente ad una conversione degli stili di vita. Questa ‘conversione ecologica’, come dice ‘Laudato sì’, dimostra gli effetti del nostro incontro con Gesù Cristo sul nostro rapporto con il mondo che ci circonda.

In azione, diamo vita alla nostra speranza e gettiamo le basi per una rinnovata speranza in tutto il pianeta. Il papa ci ricorda nel suo messaggio che il primo frutto dello Spirito è l’amore, l’amore che scaccia ogni paura perché Cristo è risorto e ha redento tutta la creazione, e che è la nostra speranza che ci spinge ad agire. Pertanto, ogni segno di speranza e di azione è motivo di celebrazione”.

(Foto: Vatican News)

Come annunciare il Kerygma? La risposta da 150 catechisti di Marche ed Umbria

Nello scorso maggio circa 150 catechisti dell’Umbria e delle Marche hanno partecipato al convegno, che si è tenuto alla Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli di Assisi, sul tema ‘Celebrate il Signore perché è buono? Una comunità che celebra e testimonia il Kerygma’, le cui riflessioni saranno consegnate alla CEI che, dopo aver ricevuto tutte le proposte delle altre regioni d’Italia, avvierà una nuova progettazione per la catechesi a livello nazionale, come ha affermato mons. Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e di Foligno, delegato della Conferenza Episcopale Umbra per la catechesi:

“Adesso si tratta di non dissipare questo patrimonio che abbiamo messo insieme. Delle tante proposte effettuate, mi piace sottolineare quella di non desistere da questa collaborazione e provare a creare un forum interregionale Umbria-Marche sulla catechesi, che potrebbe essere anche appoggiato da quale laboratorio di rinnovamento pastorale, nel quale fare un costate aggiornamento, un approfondimento e anche una operatività verificata per evitare che i nostri convegni siano solo parole”.

In conclusione della sessione don Calogero Di Leo, direttore dell’Ufficio Catechistico della diocesi di Perugia-Città della Pieve, coordinatore della commissione per la catechesi della Conferenza episcopale umbra, ha sintetizzato in tre parole quelle giornate: “La prima è bellezza: abbiamo vissuto un’esperienza di gioia, di gaudio, di amicizia, di pace, di condivisione. La seconda è lavoro: abbiamo lavorato molto bene, abbiamo condiviso idee, esperienze, buone pratiche, ma soprattutto la vita. E infine la terza parola è proposta: dai tre grandi settori su cui ci siamo confrontanti (la comunità, la liturgia e l’annuncio) sono emersi suggerimenti su come poter essere Chiesa nuova, con i piedi saldi nella tradizione, in questo cambiamento di tempo”.

In quale modo celebrare la bontà del Signore?

“Certamente la bontà del Signore si celebra in tantissimi modi, grazie all’infinita fantasia dello Spirito. Il nostro convegno ha voluto sottolineare alcune tra le più importanti modalità espresse nel sottotitolo: ‘Celebrate il Signore perché è buono? Una Comunità che celebra e testimonia il Kerygma’. La liturgia e la vita pulsante di una comunità sono vie per comunicare la bontà del Signore. E’ opportuno però che venga riformulato sia il concetto di ‘celebrazione’ che quello di ‘testimonianza’.

Per celebrazione non intendiamo soltanto il culto liturgico sacramentale, che ha nella Eucarestia domenicale il suo punto di ‘fons’ e ‘culmen’, secondo la costituzione sulla sacra liturgia ‘Sacrosanctum Concilium’; occorre anche riscoprire il culto nel suo significato paolino, ‘offrire i vostri corpi in sacrificio soave a Dio, questo è il vostro culto spirituale’.

Non ci dimentichiamo che i gesti liturgici sacramentali provengono da parole, riti e materiali presi in prestito dalla vita quotidiana: il mangiare, il bere, il lavarsi, lo stare a tavola, il riposo, la festa, il pane, il vino, l’olio…

Facciamo un esempio concreto con i sacramenti della Iniziazione Cristiana (battesimo, cresima ed eucarestia) che definiscono sia l’identità cristiana che l’ingresso nella vita della comunità. I gesti e i materiali provengono dalla ‘Iniziazione della vita’. Nel battesimo veniamo purificati dall’acqua, con la cresima veniamo profumati dall’olio e con l’eucarestia veniamo nutriti. Non sono i tre momenti della venuta al mondo di ciascuno di noi? Dopo essere nati veniamo lavati con l’acqua, veniamo profumati con l’olio ed infine veniamo portati al seno della mamma per essere nutriti. Culto liturgico e culto della vita camminano insieme: l’uno illumina e rimanda all’altro.

Da qui comprendiamo allora dove è nato il corto circuito nelle nostre comunità: l’aver anteposto (forse sostituito) al culto della vita (culto spirituale), quello prettamente liturgico sacramentale.

Riscoprire che la bontà del Signore viene celebrata non soltanto in chiesa, nel culto liturgico, ma anche nella vita mediante la testimonianza nei vari ambiti della quotidianità (relazione di coppia, genitorialità, lavoro, responsabilità civile) significa sanare una grande ferita. Ma si celebra la fede anche nella carità verso i fratelli e le sorelle in condizioni di bisogno attraverso la vicinanza affettiva, il servizio generoso e la condivisione materiale. Un lavoratore che fa bene il proprio mestiere esprime la bontà del Signore nel servizio al bene comune, espressione dell’amore al prossimo che ha in Dio la sua sorgente e il suo modello. Così un genitore che sa ben educare i figli, è a tutti gli effetti celebrazione della paternità e maternità della bontà del Signore. Gli esempi posso essere tantissimi.

Il nostro Convegno, tenutosi nei giorni 10-12 maggio, è stato un tentativo di far ri-camminare insieme l’unica bontà del Signore attraverso l’unico culto comprendente sia quello liturgico che quello della vita, allargando la consapevolezza che la missione di rendere presente e sperimentabile la bontà di Dio non è prerogativa di preti o suore, ma di ogni battezzato, cioè di tutta la comunità cristiana, seppur nella specificità delle competenze”.

Come una comunità può testimoniare il kerigma?

“A mio avviso una comunità cristiana può testimoniare il Kerygma se parte dalla consapevolezza (senza meravigliarsi o scandalizzarsi) che anche l’Italia, come il resto del mondo occidentale, è di nuovo terra di missione. Per cui la postura che ogni comunità – ma anche ogni famiglia o ogni singolo battezzato – deve assumere è quella della missionarietà.

Questa situazione è stata compresa e prefigurata a suo tempo nella felice espressione del documento ecclesiale dell’episcopato italiano più significativo e concreto di questi ultimi anni: ‘Di primo annuncio vanno innervate tutte le azioni pastorali’ (Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 6).

Il primo annuncio in senso stretto non consiste solamente nella proclamazione verbale del kerigma, come si è fatto per intere generazioni, riducendo il cristianesimo a dottrina o a morale. Qui ci viene incontro papa Francesco quando nell’esortazione apostolica ‘Evangelii Gaudium’ esplicita in un modo creativo il contenuto del kerygma stesso: ‘Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti’ (164). Ci sono ‘alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna’ (165)’.

Una comunità può testimoniare il kerygma in modo autentico e credibile solamente se ha fatto esperienza dell’amore di Cristo, che è per sua natura diffusivo, non soltanto mediante gesti di carità ma soprattutto mediante relazioni di fraternità che sappiano toccare le corde fondamentali del cuore umano. E’ nella prossimità fattiva che il cristianesimo diventa credibile quale risposta alle domande, alle esigenze e ai desideri dell’animo umano, altrimenti Cristo viene ridotto a un bel discorso in chiave morale.

Per questo una delle caratteristiche del Convegno è stata quello di non rimanere incastrati nelle analisi che da decenni stanno zavorrando la Chiesa italiana, ma di indicare proposte nuove e creative nel campo della evangelizzazione e della catechesi, soprattutto per famiglie e giovani”.

In quale modo essere Chiesa in un tempo che cambia repentinamente?

“Oggi viviamo in un cambiamento d’epoca come ci ricorda papa Francesco. Il segno evidente di questo cambiamento è che siamo arrivati all’apice di quel processo iniziato dopo il Medioevo, con il Rinascimento, l’Umanesimo e soprattutto l’illuminismo, di separazione tra vita e fede. Questo fenomeno, che ha generato il relativismo e la scristianizzazione, ha portato al collasso quel tipo di società in cui siamo nati e cresciuti e che si riconosceva nei valori cristiani; in poche parole non viviamo più in un regime di società cristiana. Come scriveva lo scrittore francese Charles Peguy nella sua opera ‘Veronique’: ‘Noi siamo la prima generazione di una società dopo Gesù, senza Gesù’, l’affermazione finale fa tremare i polsi, perché dice ‘la verità è che ci sono riusciti’. Dentro questo panorama, la questione della «Comunità» oggi è la questione per eccellenza, al punto tale che uno dei relatori (il vescovo di Gubbio – Città di Castello, mons Luciano Paolucci Bedini), ha affermato che: ‘Occorre non tanto puntellare quelle esistenti mettendo una toppa qua e là, ma generane di nuove’. Infatti dice Gesù, che non si può mettere una stoffa nuova su un vestito vecchio. Questo è il grande problema che come Chiesa occidentale stiamo vivendo. Occorre partire da una domanda: Quale modello di comunità oggi ci aiuta meglio a rendere sperimentabile il volto di Gesù?

Papa Francesco ha indicato alcune caratteristiche di questa nuova comunità, quali: ‘Chiesa in uscita’, ‘Ospedale da campo’ o/e ‘Chiesa sinodale’. Il rischio è però quello di ridurre il tutto a puro slogan. Credo in un mondo che cambia rapidamente come quello odierno, il volto nuovo della Chiesa deve essere quello di una ‘Comunità della prossimità’, dove ‘I care’ di don Milani o il sogno della ‘Chiesa del Grembiule’ di don Tonino Bello diventano il segno distintivo.

Durante la Settimana Santa di quest’anno diversi mezzi di comunicazione (cattolici e non) hanno evidenziato il fenomeno che sta accadendo in Francia e in Belgio, dove migliaia di giovani e di adulti hanno abbracciato la fede cristiana. Intervistati, molti di loro hanno detto che l’incontro con Gesù è avvenuto mediante comunità ‘gioiose e dinamiche’. Dobbiamo tendere a generare comunità gioiose e dinamiche in Umbria, nelle Marche e nel resto d’Italia. Comunità che ritornano a radunarsi attorno all’altare del Signore nel giorno del Signore, dove i pilastri della celebrazione eucaristica (Parola, Eucarestia e Fraternità) diventino i pilastri di una vita cristiana ed ecclesiale autentica”.

Quindi comunità capaci di essere ‘generative’?

“Io credo fermamente che il volto di Chiesa verso la quale stiamo andando, non per una convinta scelta pastorale ma per una realtà che si sta imponendo, è quello profetizzato dall’allora card. Joseph Ratzinger in un ciclo di trasmissioni radiofoniche in Germania nel lontano 1969, quando affermava che il futuro della Chiesa sarà nell’essere un ‘piccolo gregge’. Affermazione che poi da papa ha chiarito definendo questo piccolo gregge una ‘minoranza creativa’. Penso che come Chiesa italiana dovremmo approfondire questa modalità di Chiesa del futuro. Infatti in varie parti d’Europa è già una realtà, anche in quei paesi di antica tradizione cristiana. Interessante è l’esperienza vissuta in questi anni in Olanda e contenuta in un libro intervista al card. Willem Jacobus Eijk, ‘Dio vive in Olanda’”.

Come annunciare il Vangelo in un mondo sempre più social?

“Il mondo dei social è una realtà presente nella nostra vita e ogni giorno che passa conquista sempre più spazio, tanto che assistiamo anche a situazioni di totale dipendenza. Trascorriamo sempre più ore sui social e per molti quello non è un mondo parallelo a quello reale ma è una vera e propria realtà, anche se virtuale. Nessuno nega i tanti vantaggi che la tecnologia comunicativa ha portato nella nostra vita, diventando per tanti anche un lavoro ben retribuito come quello di ‘influencer’. Questo però non deve farci dimenticare anche i rischi che in tale mondo si annidano. Venendo alla domanda del come annunciare il Vangelo in un mondo sempre più social, non posso non citare un passaggio del discorso di papa Francesco in occasione del 60° anniversario di costituzione dell’Ufficio Catechistico Nazionale nel gennaio 2021 in cui afferma: ‘Non dobbiamo aver paura di parlare il linguaggio della gente, di ascoltare le domande, le questioni irrisolte, ascoltare le fragilità, le incertezze, di elaborare strumenti nuovi, aggiornati, che trasmettono all’uomo di oggi la ricchezza e la gioia del Kerygma e la gioia dell’appartenenza alla Chiesa’.

Elaborare strumenti nuovi e aggiornati, che trasmettono all’uomo di oggi la ricchezza e la gioia del Kerygma e la gioia dell’appartenenza alla Chiesa. In questa affermazione finale papa Francesco pone due importanti questioni:

a. Il giudizio positivo sui nuovi mezzi social. Questo è un nuovo campo di evangelizzazione e non solo di socializzazione; non è un mondo solo virtuale ma anche reale; milioni di persone vi trascorrono a vari livelli la loro vita, tanto che negli ultimi tempi è stata coniata l’espressione ‘on life’.

b. Nel suo discorso però papa Francesco utilizza una parola quanto mai significativa, di cui non possiamo non tenere conto, cioè la parola ‘strumento’. I social sono strumenti; seppur importanti, ma sempre strumenti.

Non dimentichiamoci che il cuore del cristianesimo è Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi «carne» in una località ben precisa della geografia mondiale ‘Nazareth’. I padri della Chiesa affermavano “Caro Cardo Salus”, cioè la salvezza viene dalla carne. Non possiamo delegare in toto l’annuncio del Vangelo e la bellezza della vita cristiana al mezzo tecnico. In questo senso tutti abbiamo sperimentato il disastro ottenuto durante il periodo della pandemia Covid, quando abbiamo ‘abituato’ la gente a ‘vedere’ in Tv la santa Messa, ed ora facciamo fatica a farla tornare in chiesa.

Per alcune cose i mezzi social sono ottimi «strumenti», ma la fede cristiana si trasmette come il virus, da persona a persona. Questo significa che è imprescindibile il rapporto umano e l’appartenenza ad una comunità ‘gioiosa e dinamica’, non per un gusto vintage, ma perché è il metodo stabilito e vissuto da Dio in Cristo Gesù.

La Chiesa è la carne di Cristo, è il suo corpo; nessun mezzo tecnico può sostituire questo metodo. Noi siamo chiamati a mangiare un corpo e a bere un sangue che sono espressione massima di un rapporto carnale con il Signore, e quindi tra di noi.

Certamente le nuove tecnologie sono una opportunità, ma anche una sfida nel diventare nuove frontiere di evangelizzazione. Pensiamo ad esempio all’Intelligenza Artificiale, realtà presente nella nostra vita ad es. con il navigatore. Una sfida al rapporto uomo – macchina – fede. Ripeto non possiamo fare a meno della dimensione fisica della fede anche all’interno del mondo dei social”.

E’ possibile una collaborazione tra le due regioni ecclesiastiche per una nuova progettazione della catechesi?

“Non solo è possibile, ma di fatto si è realizzata. Il Convegno ne è una testimonianza ed anche un frutto certamente di un cammino e di un lavoro di più largo respiro. Per questo il primo sentimento con il quale tutti i partecipanti hanno vissuto quei giorni è stato quello di una grande gratitudine a Dio per la bella esperienza «sinodale»: due regioni ecclesiastiche che celebrano un convegno insieme, evento unico in Italia. Questo evento è, senza ombra di dubbio e a pieno titolo, frutto del percorso sinodale che come Chiesa italiana stiamo vivendo, così come ci ricorda papa Francesco ‘il Cammino sinodale è ciò che Dio si aspetta dalla Chiesa del Terzo Millennio’.

Ma è stato anche un evento di gioia e di bellezza: vedere tanti delegati, provenienti da città, storie ed esperienze diverse ascoltarsi e confrontarsi avendo come unico scopo quello di conoscere e di far conoscere Gesù. Per questo sono risuonate nel cuore e nelle orecchie le parole del salmista quando celebra la gioia nel Signore: ‘Come è bello e come è gioioso che i fratelli stiano insieme’ (Sal 133).

La fraternità che si era creata è stata di fatto una modalità di testimonianza della bontà del Signore; in poche parole, senza accorgerci, stavamo ‘realizzando’ il tema del convegno con il semplice esserci prima ancora del fare o del dire certe cose.

Certamente il cammino ci proietta anche nel futuro e i prossimi passi saranno:

– innanzitutto l’elaborazione della sintesi da inviare alla Segreteria dell’Ufficio Catechistico Nazionale, quale contributo (insieme a quello delle altre regioni) per la elaborazione di un progetto catechistico e di eventuali strumenti catechistici a livello nazionale;

– la pubblicazione degli atti del Convegno, da cui prendere elementi significativi per un lavoro di iniziative comuni. C’è ancora tanta strada da fare ma, come comunemente si dice, ‘chi ben comincia è a metà dell’opera’.

In tutto questo percorso non posso non ringraziare due amici in modo particolare, con i quali abbiamo formato l’equipe dei responsabili e che sono: don Emanuele Piazzai, delegato per la regione Marche, membro della Consulta Nazionale dell’UCN, e la dott.ssa Sabrina Guerrini, direttrice dell’Ufficio Catechistico Diocesano di Spoleto e membro della Consulta dell’UCN.

Siamo stati una squadra meravigliosa, affrontando gioie e dolori, fatiche e speranze. Anche qui abbiamo celebrato la bontà del Signore nel segno della nostra amicizia e della condivisione del lavoro”.

(Foto: CEU)

Voltare pagina, che difficile!

‘Voilà, ecco la tua parrocchia, ormai ho fatto i miei 75 anni!’: con fare deciso, père Robert si presenta così al vescovo, per rinunciare alla conduzione del suo gregge. E ne spiega anche il motivo: “Ormai, in pensione, voglio camminare, contemplare, passeggiare… allenarmi per i prati del paradiso!” Bella questa libertà, ancor di più il suo programma. E, se volete, pure questo spirito deciso, nel saper voltar pagina del libro della vita. Dicendosi, tuttavia, sempre disponibile a dare una mano se serve, ma una sola… 

E’ vero, continuare a essere leader non è sano per sè, nè per gli altri. Tempi nuovi avanzano al galoppo. Restare sulla cresta dell’onda, allora, non si rivela salutare. Necessitano, a volte, in una comunità, una sensibilità differente, delle energie nuove o uno sguardo diverso. E sarà sempre – non bisogna preoccuparsene – un arricchimento, un completamento di quello che si è fatto fino allora…

Sarà pure seguire la ‘regola d’oro dell’alternanza’, come  recita un bel passaggio della Bibbia, in quel procedere a due tempi: “C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare, un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli.. E si potrebbe aggiungere al testo sacro: un tempo per essere leader e un tempo solamente per consigliare…”.

Perchè il consiglio serve spesso ad anticipare le cose. Sì, si è così presi dal presente, o fissati al passato che non si ha il tempo di scrutare sufficientemente il futuro, i segni dei tempi. Come si scruta il cielo, per vedere che tempo farà, come ricorda il Vangelo. Inoltre, ‘i tuoi figli e figlie profetizzeranno, i tuoi vecchi sogneranno e i tuoi giovani avranno visioni’ (cfr Gl 3,1). Dare, così, spazio al sogno, oltre al fare.

Ricordo il vescovo di Ginevra di anni fa, città dove mi trovavo in missione: “Le unità pastorali sono il futuro della nostra diocesi?  – si interrogava, rivolgendosi ai suoi collaboratori – Sì, allora lo anticipiamo!” E ne fissava subito l’entrata in vigore per decreto, cioè l’accorpamento di tutte le parrocchie di città o di campagna tre a tre. Per imparare da subito a condividere ricchezze e fragilità, sfide e difficoltà. Questo quando si preferisce anticipare i tempi. E si comprende teologicamente come il Regno di Dio avanza con i suoi passi verso di voi, più che l’inverso.

Preferendo, così, non vedere sfilacciarsi le situazioni, logorarsi gli animi od irrigidirsi le dinamiche, presi da quell’ansia di trattenere nelle nostre mani il passato. Aprirle per accogliere i segni del Regno, il clima di tempi nuovi, sa sempre di miracolo. Penso ancora all’enorme sorpresa che provavo, quando tempo fa, recandomi per l’ennesima volta al monastero benedettino di St Benoit s/Loire, in Francia, dove apprezzare un abate dallo stile paterno, dolce ed equilibrato, di un’autorevolezza naturale, che traspariva dai pori della pelle.

Lo ritrovavo, invece quella volta, in piedi alle mie spalle, alla mensa degli ospiti, con due bottiglie in mano, una di acqua e una di vino, per servire durante il pranzo e versare quando necessario ai commensali. Un giovane abate, invece, troneggiava al centro del grande refettorio… Plastica immagine, allora, per me delle parole del Cristo,venuto per servire, non per essere servito e che Benedetto identificava nel forestiero stesso, che bussa alla porta.

Così ricordo le raccomandazioni del nostro vescovo di Versailles, quando rivolgendosi al presbyterium, a tutti i preti riuniti, suggeriva di coltivare degli interessi, degli hobbies, delle passioni, come il giardinaggio, uno strumento musicale, la lettura di un libro, un collezionismo…  ‘Quando vi toglierò la parrocchia,- concludeva così – non vi sentirete perduti o in depressione…’.

Voltare pagina per un leader è spesso una sfida, un gesto di coraggio e un grande atto di fiducia in Dio, che accompagna il nostro cammino in tutte le stagioni dell’esistenza. Allora sì che si avrà il tempo di seguire il consiglio di un vicario episcopale francese, che raccomandava ai preti di coltivare sempre tra i tanti impegni e programmi anche degli incontri liberi, spontanei e casuali. Dio è, per davvero, sorpresa!

Ad Arezzo circa 600 persone alla prima assemblea pastorale con mons. Andrea Migliavacca

L’incontro si è svolto in Cattedrale, Seminario e San Domenico ed è stato dedicato al tema della vita spirituale. Dopo una celebrazione comunitaria e i laboratori in piccoli gruppi, sono state indicate alcune nuove responsabilità in diocesi.  

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