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Caritas: in Italia gli italiani sempre più poveri
“E’ compito statutario di Caritas Italiana realizzare studi e ricerche sui bisogni delle persone, per aiutare a scoprirne le cause, per preparare piani di intervento, soprattutto in un’ottica di prevenzione. Questo è l’intento del Report che presentiamo. Una raccolta di dati che è stata realizzata grazie all’impegno degli operatori e dei volontari dei nostri Centri di ascolto e con la collaborazione delle persone in stato di bisogno che ci hanno consegnato la loro situazione”: questa è la conclusione del presidente di Caritas Italiana, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, alla presentazione del report statistico nazionale 2024 sulla povertà in Italia.
Tale report statistico valorizza le informazioni provenienti da 3.124 Centri di ascolto e servizi delle Caritas diocesane, dislocati in 206 diocesi in tutte le regioni italiane con una fotografia drammatica, come ha evidenziato il direttore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello: “Questo secondo Report statistico si colloca in un tempo particolare, segnato da vicende che toccano le nostre comunità. Da un lato le crisi internazionali che condizionano pesantemente i rapporti tra i Paesi e lo sviluppo di percorsi di pace, dall’altro l’incessante aumento della povertà e la forte incidenza di situazioni di rischio e vulnerabilità. Di fronte a questi scenari la Chiesa continua a sognare e ad affermare un umanesimo autentico, secondo cui ogni essere umano possa realizzarsi pienamente, vivendo in un mondo più giusto e dignitoso”.
Dal Report risulta che nel 2023 cala la quota dei nuovi poveri ascoltati, che passa dal 45,3% al 41,0%, mentre crescono le persone con povertà ‘intermittenti’ e croniche, riguardanti in particolare quei nuclei che oscillano tra il ‘dentro-fuori’ la condizione di bisogno o che permangono da lungo tempo in condizione di vulnerabilità: una persona su quattro è infatti accompagnata da una Caritas diocesana da 5 anni e più. Sembra quindi mantenersi uno zoccolo duro di povertà che si trascina di anno in anno senza particolari scossoni e che è dovuto a più fattori; il 55,4% dei beneficiari nel 2023 ha manifestato contemporaneamente due o più ambiti di bisogno.
Si rivolgono alla Caritas, in maggioranza, donne (51,5%) ed uomini (48,5%), con un’età media che si attesta sui 47,2 anni (46 nel 2022). Cala l’incidenza delle persone straniere che si attesta sul 57,0% (dal 59,6%). Alta invece l’incidenza delle persone con figli: due persone su tre (66,2%) dichiarano di essere genitori. Oltre i due terzi delle persone in povertà, secondo i dati dei Centri di ascolto Caritas consultati, hanno livelli di istruzione bassi o molto bassi (67,3%), condizione che si unisce a una cronica fragilità occupazionale, in termini di disoccupazione (48,1%) e di ‘lavoro povero’ (23%).
Inoltre la percentuale dei percettori del Reddito di Cittadinanza, la misura di contrasto alla povertà sostituita dall’Assegno di Inclusione, si attesta al 15,9%, dato in calo rispetto al 2022 e soprattutto al 2021: allora i beneficiari corrispondevano rispettivamente al 19,0% e al 22,3%.
In termini di risposte, le azioni della rete Caritas sono state numerose e diversificate: sono stati erogati oltre 3.500.000 interventi, una media di 13 interventi per ciascuna persona assistita (considerate anche le prestazioni di ascolto). In particolare: il 73,7% ha riguardato l’erogazione di beni e servizi materiali (distribuzione di viveri, accesso alle mense/empori, docce, ecc.); l’8,9% gli interventi di accoglienza, a lungo o breve termine; il 7,3% le attività di ascolto, semplice o con discernimento; il 5,2% il sostegno socio-assistenziale; l’1,7% interventi sanitari.
Dal report si evidenzia che la povertà è ai massimi storici: le stime preliminari dell’Istat rilasciate lo scorso marzo, e riferite all’anno scorso, attestano che il 9,8% della popolazione, un residente su dieci, vive in uno stato di povertà assoluta. Complessivamente risultano in uno stato di povertà assoluta 5.752.000 residenti, per un totale di oltre 2.234.000 famiglie. A loro si aggiungono poi le storie di chi vive in una condizione di rischio di povertà e/o esclusione sociale: si tratta complessivamente di circa 13.391.000 persone, pari al 22,8% della popolazione; dato che risulta in riduzione rispetto al 2022 quando si attestava al 24,4%. Il Mezzogiorno risulta l’area del Paese con la più alta incidenza delle persone a rischio povertà e/o esclusione sociale (39%) in linea con i dati della povertà assoluta.
La situazione appare ancora più controversa se si guarda alla grave deprivazione materiale che contrariamente al rischio di povertà e/o esclusione sociale tende a crescere (+4,4%). Le stesse stime preliminari Istat sui consumi delle famiglie, mettono in luce che nel 2023 si è registrata una crescita della spesa media delle famiglie (+ 3,9%) che però per effetto dell’inflazione si è tradotta in un calo dell’1,8%.
Nel 2023, nei soli centri di ascolto e servizi informatizzati (complessivamente 3.124 dislocati in 206 diocesi di tutte le regioni italiane) le persone incontrate e supportate sono state 269.689. Complessivamente si tratta di circa il 12% delle famiglie in stato di povertà assoluta. Rispetto al 2022 si è registrato un incremento del 5,4% del numero di assistiti; una crescita che si attesta su valori più contenuti rispetto a un anno fa, segnale di una progressiva distensione rispetto alle tante emergenze susseguitesi dopo lo scoppio della pandemia.
Alta come di consueto l’incidenza delle persone con figli: due persone su tre (66,2%) dichiarano di essere genitori. In alcune regioni l’incidenza dei genitori risulta ancor più elevata, ad esempio nel Lazio (91%), in Calabria (82,2%), Umbria (81,4%), Puglia (80,6%), Basilicata (79%) e Sardegna (75,3%). Se si guarda alle famiglie con minori, queste rappresentano il 56,5% del totale; in valore assoluto si tratta di oltre 150.000 nuclei, a cui corrispondono altrettanti o più bambini e ragazzi in stato di grave e severa povertà.
Un altro fattore che accomuna la gran parte degli assistiti è la fragilità occupazionale, che si esprime per lo più in condizioni di disoccupazione (48,1%) e di “lavoro povero” (23%). Non è solo dunque la mancanza di un lavoro che spinge a chiedere aiuto: di fatto quasi un beneficiario su quattro è un lavoratore povero. Tra i lavoratori poveri si contano per lo più: persone di cittadinanza straniera (65%); uomini (51,6%) e donne (48,4%); genitori (78%) e coniugati (52,1%); impiegati in professioni non qualificate; domiciliati presso case in affitto (76,6%). Infine il 78,8% delle persone manifesta uno stato di fragilità economica, legato a situazioni di ‘reddito insufficiente’ o di ‘totale assenza di entrate’.
In morte di Satnam Singh contro il lavoro nero
“Contro questa grande civiltà stridono, gravi ed estranei, episodi e comportamenti come quello avvenuto tre giorni fa, quando il giovane Satnam Singh, lavoratore immigrato, è morto, vedendosi rifiutati soccorso e assistenza dopo l’ennesimo incidente sul lavoro. Una forma di lavoro che si manifesta con caratteri disumani e che rientra in un fenomeno, che affiora non di rado, di sfruttamento del lavoro dei più deboli e indifesi, con modalità e condizioni illegali e crudeli. Fenomeno che, con rigore e con fermezza, va ovunque contrastato, totalmente eliminato e sanzionato, evitando di fornire l’erronea e inaccettabile impressione che venga tollerato ignorandolo”.
Con questo inciso in un discorso sul valore del volontariato il presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, ha parlato in un incontro a Solferino (Mantova) in occasione dei 160 anni dalla fondazione della Croce Rossa, contro quelle forme di sfruttamento del lavoro che si manifestano ‘con caratteri disumani’, come è successo a Satnam Singh, bracciante indiano di 31 anni, lasciato agonizzante in strada dopo aver perso il braccio destro in un incidente sul lavoro in un’azienda agricola a Borgo Santa Maria, nelle campagne della provincia di Latina.
Una morte di lavoro ‘nero’, che succede molto spesso in Italia, con la complicità di uno Stato immobile contro il caporalato, come ha spiegato il direttore della Caritas diocesana, Angelo Raponi, ad Avvenire: “Nel territorio pontino il caporalato purtroppo è una dimensione strutturale del lavoro in agricoltura, oggi con gli stranieri ma in passato con gli stessi italiani per quei pochi giorni di picco l’imprenditore agricolo prendeva la manovalanza necessaria e la pagava a tu per tu. Si va avanti così ancora oggi”.
A luglio dello scorso anno l’ong ‘Save the Children’ aveva denunciato le condizioni drammatiche di vita in cui si trovano i minori e le loro famiglie vittime dello sfruttamento lavorativo nel settore agricolo, in due tra le aree italiane a maggior rischio: la provincia di Latina e la Fascia Trasformata di Ragusa:
“Il fenomeno dello sfruttamento lavorativo nel settore agricolo si concentra dove c’è più lavoro, come nel caso di alcuni distretti strategici per l’agroalimentare italiano, proprio come le province di Latina e Ragusa, dove ci sono terreni che consentono la coltivazione intensiva, e che richiedono una forte presenza di manodopera anche per la raccolta e l’imballaggio dei prodotti agricoli, e dove sono nati due dei mercati ortofrutticoli più importanti del Paese, il MOF – Centro Agroalimentare all’Ingrosso di Fondi (LT), e l’Ortomercato di Vittoria.
Secondo una stima del 2021, gli occupati irregolari nel settore dell’agricoltura in Italia erano circa 230.000, con una massiccia presenza di stranieri non residenti e un numero consistente di donne coinvolte, ovvero 55.000. La maggior parte delle vittime di tratta e sfruttamento nel mondo restano invisibili: quelle identificate nel periodo 2017-2020 a livello globale non hanno superato i 190.000 casi. Chi ha sofferto di più per mano dei trafficanti, secondo gli ultimi dati, sono state le donne, cioè il 42% e i minori, il 35%, mentre le principali forme di sfruttamento sono state di tipo lavorativo o sessuale”.
Il fenomeno non è una novità, anche se è comodo per le nostre coscienze crederci, tanto è che nel 2019 era stato avviato il progetto ‘Diagrammi Nord’ approvato dal ministero del Lavoro all’interno dell’Avviso 1/2019 “che vuole provare a misurarsi su un percorso che ha al centro la persona migrante vittima di sfruttamento in agricoltura e che, attraverso interventi integrati e armonici, si vuole rendere protagonista del proprio presente e futuro.
Questo coinvolgendo reti istituzionali e imprese agricole, sviluppando un’azione di emersione che individui situazioni concrete di sfruttamento, proponendo un percorso progressivo di motivazione, affrancamento, protezione sociale, orientamento, formazione linguistica e professionale. Tutto per poter davvero sviluppare una proposta di dignità, di qualità, di sfida nell’ambito dello sfruttamento lavorativo in agricoltura”.
Fabio Sorgoni, responsabile dell’area ‘Tratta e sfruttamento’ della cooperativa sociale ‘On the road’ ha denunciato che ogni giorno muoiono tre lavoratori in agricoltura: “Satnam Singh era un lavoratore indiano, come altre decine di migliaia nelle campagne laziali dell’Agro Pontino. Molti di loro per venire in Italia hanno pagato trafficanti, intermediari, datori di lavoro. Hanno debiti enormi da restituire e devono accettare di lavorare per due o tre euro all’ora.
Nelle serre in cui lavorano ogni tanto qualcuno si impicca, perché non ce la fa più. Gli vengono somministrate anfetamine od altre droghe prestazionali (doping lavorativo) per sopportare il lavoro, il caldo, il dolore, Vengono picchiati, insultati, minacciati. A volte uccisi. E la stessa sorte subiscono le famiglie a casa, se non vengono pagati i debiti… Abbiamo in carico decine di persone sfruttate nelle regioni dove lavoriamo: Marche, Abruzzo e Molise. Sfruttate nell’agricoltura, nell’edilizia, nelle fabbriche”.
Mentre il CNCA (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza) ha chiesto più ispezioni, un nuovo atteggiamento da parte di istituzioni e comunità locali, attenzione non solo sui caporali ma anche su commercialisti e consulenti del lavoro compiacenti: “Se vogliamo porre termine a situazioni come questa, occorre in primo luogo aumentare notevolmente il numero delle ispezioni dell’Ispettorato del lavoro, mandando un segnale chiaro di svolta a tutto il territorio.
Questo cambiamento è perciò possibile solo se le istituzioni e le comunità locali decidono di affrontare le situazioni si sfruttamento fin qui tollerate. E’ poi importante cominciare a colpire tutta la filiera che sta tra il datore di lavoro e il lavoratore: non solo i caporali, ma anche quei consulenti del lavoro e commercialisti compiacenti che creano le condizioni per rendere possibile lo sfruttamento.
Infine riteniamo che si debba agire sulle cosiddette ‘procedure illegittime’, cioè su quelle richieste delle istituzioni o di altri enti non necessarie a norma di legge che rendono più difficile alle persone migranti ottenere il permesso di soggiorno, un IBAN presso le Poste o le banche o un altro documento rilevante per la propria vita personale e sociale, rendendo così più difficile la loro integrazione nel contesto locale”.
Save the Children: in Italia 336.000 ragazzi tra i 7 e i 15 anni lavorano per aiutare la famiglia
In Italia si stima che 336.000 minori tra i 7 e i 15 anni abbiano avuto esperienze di lavoro e che 58.000 adolescenti tra i 14-15 anni siano stati coinvolti in attività lavorative dannose per i percorsi scolastici e per il benessere psicofisico: sono i dati di una ricerca di Save the children dedicata al tema della povertà minorile e delle aspirazioni degli adolescenti, intitolata ‘Domani (Im)possibili’, attraverso interviste ad un campione rappresentativo di giovani tra i 15 e i 16 anni, in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile che ricorre oggi, 12 giugno.
Dal rapporto emerge che il 43,7% degli adolescenti tra i 15 e i 16 anni aiuta in vario modo la famiglia ad affrontare le spese e, tra questi, il 18,6% ha svolto e svolge qualche attività lavorativa per non gravare sulla famiglia in difficoltà (uno su due ha meno di 16 anni). Le testimonianze sono state raccolte da un gruppo di 25 adolescenti tra i 15 e i 21 anni individuati nell’ambito dei progetti promossi da Save the children e da altre organizzazioni e realizzate con la metodologia della ‘ricerca tra pari’ a Palermo, Scalea, Roma e Torino, tramite interviste singole o di gruppo e video reportage che hanno consentito di raccogliere 40 storie che restituiscono la grande eterogeneità delle situazioni legate al fenomeno.
Tra i motivi e le cause che spingono ragazzi e ragazze ad intraprendere percorsi di lavoro ci sono l’avere soldi per sé, che riguarda il 56,3%, la necessità o volontà di offrire un aiuto materiale ai genitori, per il 32,6%. Non trascurabile è il 38,5% di chi afferma di lavorare per il piacere di farlo. Il livello di istruzione dei genitori, in particolare della madre, è significativamente associato al lavoro minorile.
La percentuale di genitori senza alcun titolo di studio o con la licenza elementare o media è significativamente più alta tra gli adolescenti che hanno avuto esperienze di lavoro, un dato che deve far riflettere sulla trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione.
La maggioranza dei minori, 53,8%, ha dichiarato di aver lavorato durante l’ultimo anno o in passato, ha iniziato dopo i 13 anni, mentre il 6,6% prima degli 11 anni. Circa due terzi dei minorenni che hanno sperimentato forme di lavoro sono di genere maschile (65,4%) e il 5,7% ha un background migratorio. Molti i racconti che parlano di minorenni che combinano la frequenza scolastica con l’attività lavorativa, una scelta motivata in alcuni casi da una necessità economica, in altri dalla concezione del ‘lavoro come valore’ che integra il percorso educativo. La conciliazione di studio e lavoro si rivela però difficile da sostenere per la maggior parte dei ragazzi intervistati.
Dall’indagine ‘Non è un gioco’ è emerso che tra i 14-15enni intervistati che lavorano, quasi 1 su 3 (29,9%) lo fa durante i giorni di scuola, tra questi il 4,9% salta le lezioni per lavorare. Dai dati si evince che la percentuale di minori bocciata durante la scuola secondaria di I o di II grado è quasi doppia tra chi ha lavorato prima dei 16 anni rispetto a chi non ha mai lavorato.
Il lavoro minorile può anche influenzare la condizione futura di giovani ‘NEET’ (Not in Education, Employment, or Training), alimentando la trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione sociale. I ragazzi e le ragazze di età compresa tra 15 e 29 anni in questa situazione in Italia sono più di 1.500.000 nel 2022, il 19 % della popolazione di riferimento, con un valore in Europa secondo solo a quello osservato in Romania.
I settori prevalentemente interessati dal fenomeno del lavoro minorile in Italia sono quelli più tradizionali come la ristorazione (25,9%) e la vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%), seguiti dalle attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), dalle attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%)[6], ma non mancano le nuove forme di lavoro online (5,7%), come la realizzazione di contenuti per social o videogiochi, o il reselling di sneakers, smartphone e pods per sigarette elettroniche. Sebbene il 70,1% dei 14-15enni che lavorano o hanno lavorato, lo abbiano fatto in periodi di vacanza o in giorni festivi, il lavoro è faticoso da un punto di vista della frequenza e dell’intensità: quando lavorano, più della metà dei 14-15enni lo fa tutti i giorni o qualche volta a settimana, circa 1 su 2 lavora più di 4 ore al giorno.
25 tirocini per ‘NEET’ residenti nella diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca
La Caritas Diocesana di Ugento – S.Maria di Leuca comunica che, in collaborazione con l’Associazione Form.AMI APS-ETS (Ente gestore) e con IPAD Mediterranean Società Cooperativa Sociale, nell’ambito del progetto ‘N.O.NEET NUOVI ORIENTAMENTI PER I NEET E I MINORI’ (CODICE 269/2024), intende selezionare 25 giovani per l’attivazione di percorsi di inserimento/reinserimento lavorativo (tirocini in azienda) e attività accompagnamento per fare impresa, con il supporto della Fondazione Pietro De Francesco.
I percorsi prevedono attività di orientamento, di formazione di base, di supporto all’avvio di impresa e di tirocini extracurriculari-inserimento lavorativo (legge regionale 10 novembre 2023, n.26). I candidati devono avere un’età compresa fra i 18 e i 35 anni; essere residenti o domiciliati in uno dei seguenti Comuni della Diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca: Alessano, Castrignano del Capo, Corsano, Gagliano del Capo, Miggiano, Montesano Salentino, Morciano di Leuca, Patù, Presicce-Acquarica, Ruffano, Salve, Specchia, Supersano, Taurisano, Tiggiano, Tricase e Ugento. Essere disoccupati/e o inoccupati/e, iscritti presso il Centro per l’Impiego competente; non essere impegnati in percorsi di studio e formativi.
I soggetti in possesso di requisiti precedentemente indicati possono presentare istanza di partecipazione compilando il modulo da scaricare https://www.caritasugentoleuca.it/2024/05/24/n-o-neet-nuovi-orientamenti-per-i-neet-e-i-minori/, comprensivo di una dichiarazione sostitutiva ai sensi del DPR 445/2000, art. 47, in cui l’interessato dimostra tramite autocertificazione il possesso dei requisiti di accesso. A questo modulo va allegato il modello ISEE e lo stato occupazionale rilasciato dal Centro per l’Impiego competente. I giovani interessati alle azioni di accompagnamento imprenditoriale, devono presentare una scheda sintetica descrittiva dell’idea di impresa che si intende realizzare.
Le istanze pervenute verranno valutate da una commissione individuata dal soggetto gestore secondo i seguenti criteri: Valore ISEE Superiore a € 15.000,00 saranno assegnati 4 punti; i possessori di ISEE da € 9.360,01 a € 15.000,00 avranno 6 punti; con un ISEE fino a € 9.360,00 avranno 8 punti. Per un periodo di disoccupazione da 0 a 6 mesi saranno riconosciuti 2 punti; per un periodo da 6 a 12 mesi saranno assegnati 4 punti; mentre saranno 6 punti per un periodo superiore a 12 mesi.
I soggetti coinvolti nelle attività progettuali verranno avviati in un percorso di orientamento individuale. In seguito dovranno frequentare un percorso formativo della durata di 30 ore che prevede lo sviluppo dei seguenti argomenti: Sicurezza nei luoghi del lavoro – Orientamento – Ricerca attiva del lavoro Mercato del lavoro – Legislazione sociale e creazione di impresa.
Le aziende presso cui i soggetti individuati svolgeranno Ie attività di tirocinio saranno prescelte sulla base del percorso di orientamento realizzato all’interno della formazione preliminare, considerando le aspettative e gli obiettivi professionali dei soggetti coinvolti. Le aziende devono rispettare i criteri previsti dalla normativa in materia di tirocini e devono sottoscrivere con il soggetto promotore Associazione Form.AMI una convenzione ed un progetto formativo individuale.
I tirocini potranno essere attivati entro il mese di luglio 2024 e completati entro fine ottobre 2024. I beneficiari che manifesteranno una propensione all’avvio di un’attività in proprio, verranno coinvolti a partire dal mese di luglio 2024 in un percorso formativo di accompagnamento e sostegno alla creazione di impresa per una durata di 50 ore, con il supporto della Fondazione Pietro De Francesco e Fondazione De Grisantis.
La domanda va presentata, entro e non oltre il 14 giugno 2024, direttamente o tramite invio di raccomandata A/R alla sede operativa dell’Associazione Form.AMI in Tricase, c/o Centro Caritas in Piazza Cappuccini, 15, (farà fede il timbro postale) oppure tramite e-mail all’ indirizzo: segreteria@caritasugentoleuca.it o a: formami4@gmail.com. presso il Centro Caritas Diocesano, Piazza Cappuccini, 15, in Tricase è possibile richiedere informazioni sull’Avviso nei giorni di lunedì, mercoledì, venerdì dalle ore 9.00 alle 12.30, martedì e giovedì dalle 16,00 alle 19,00 (tel: 0833219865 – 3388371927 e-mail: segreteria@caritasugentoleuca.it o formami4@gmail.com).
Il part time nel lavoro non è scelta libera
Lunedì 6 maggio alla Sala Zuccari del Senato della Repubblica è stato presentato dal ‘Forum Disuguaglianze e Diversità’ il report ‘Da conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta. Proposte per l’equità di genere e la qualità del lavoro’, che contiene un’analisi di dati disponibili, delle elaborazioni che costruiscono una fotografia del fenomeno del part-time involontario e alcune proposte di policy per contrastarlo, elaborato da un gruppo di lavoro composto da Giorgia Amato, ricercatrice del ‘Forum Disuguaglianze e Diversità’, Susanna Camusso, senatrice del Partito democratico, Daniela Luisi, ricercatrice e membro dell’Assemblea del ‘Forum Disuguaglianze e Diversità’, Matteo Luppi, ricercatore dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), Federica Pintaldi, dirigente di ricerca dell’Istat, e Silvia Vaccaro, responsabile comunicazione del ‘Forum Disuguaglianze e Diversità’.
Dai dati emerge con chiarezza come in Italia la diffusione del part-time sembra più dovuta alle esigenze delle imprese di ridurre il costo del lavoro che a quelle dei lavoratori e delle lavoratrici. Il fenomeno si può correlare agli interventi normativi, che hanno favorito la flessibilizzazione del lavoro. Il documento riporta stralci di cinque interviste a donne occupate con un contratto part-time di tipo involontario, che hanno indagato la storia lavorativa delle donne, i motivi alla base della scelta del part-time (esigenze individuali e/o del datore di lavoro) e l’eventuale presenza di condizioni di uso o abuso dell’orario di lavoro e la percezione di una prospettiva lavorativa futura.
Infatti in Italia, più della metà degli oltre 4.000.000 di lavoratori e lavoratrici part-time rilevati dall’Istat nel 2022, è in una condizione di part-time involontario: non ha scelto questa forma contrattuale ma l’ha accettata o subita per necessità o per assenza di altre possibilità. In 8 imprese su 10 l’incidenza delle donne in part-time sul totale dei dipendenti è oltre il 50%.
Inoltre, il 12% delle imprese usa il part-time in modo strutturale (oltre il 70% dei dipendenti): queste imprese sono meno attente alla qualità del lavoro: “Dai dati analizzati nel documento emerge con chiarezza come in Italia la diffusione del part-time sembra più dovuta alle esigenze delle imprese di ridurre il costo del lavoro che a quelle dei lavoratori e delle lavoratrici”.
L’analisi dei dati della ‘Rilevazione sulle forze di lavoro’ dell’Istat del 2022, con una lettura di genere, mostra che tra le donne, che rappresentano circa i tre quarti delle persone occupate a tempo parziale è più diffuso anche il ricorso al part-time involontario: pesa infatti per il 16,5% sul totale delle donne occupate contro il 5,6% degli uomini occupati.
Tra le persone impiegate in professioni non qualificate si registra il differenziale maggiore: 38,3% per le donne contro il 14,2% gli uomini. Il part-time involontario, inoltre, è più frequente tra le giovani donne: si parla del 21% delle occupate di 15-34 anni rispetto al 14% di quelle di 55 anni e oltre.
Oltre alla caratterizzazione di genere, i dati mostrano che il part-time involontario è più frequente anche nel Mezzogiorno, tra le persone straniere, tra chi possiede un basso titolo di studio e tra le persone con un impiego a tempo determinato: 23% contro il 9% del tempo indeterminato, e il 7% degli e delle indipendenti.
Oltre alla caratterizzazione di genere, il documento mostra che il part-time involontario è più frequente anche nel Mezzogiorno, tra le persone straniere, tra chi possiede un basso titolo di studio e tra le persone con un impiego a tempo determinato: 23% contro il 9% del tempo indeterminato, e il 7% degli e delle indipendenti.
Su tutti i contratti attivati nel primo semestre 2022, il 35,6% è a part-time, con consolidate differenze di genere: sul totale dei contratti attivati a donne quasi la metà (il 49%) è a tempo parziale contro il 26,2% dei contratti attivati agli uomini. Inoltre, se si guarda al tempo indeterminato, che rappresenta solo il 15% dei contratti attivati a donne, oltre la metà di questa quota (il 51,3%) è a tempo parziale.
Mons. Lorefice: le morti sul lavoro sono una sconfitta sociale
“Le cinque vittime di Casteldaccia (ennesimo tragico incidente sul lavoro), portano alla ribalta l’urgenza della sicurezza che ‘è come l’aria che respiriamo’… Sicurezza significa un’economia e un mercato del lavoro governati dall’istanza etica, attenzione alla persona del lavoratore, alla sua dignità e ai suoi affetti familiari. In queste ore particolarmente drammatiche, sento di far giungere un forte appello alla sicurezza sui luoghi di lavoro, auspicando un maggiore impegno di quanti hanno la responsabilità (legislatori, imprese, organizzazioni e associazioni di categoria) di tutelare i lavoratori. Queste morti, come anche gli infortuni, sono una sconfitta sociale, una profonda ferita del corpo sociale, riguarda tutti, non solo le imprese o le famiglie coinvolte”.
All’indomani dell’ennesimo incidente sul lavoro, avvenuto a Casteldaccia, in provincia di Palermo, l’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, in modo chiaro ha invitato a non assuefarci a tali morti, esprimendo il dolore che ha colpito i familiari: “Desidero esprimere ai familiari delle vittime e dei feriti i miei più sentiti sentimenti di vicinanza e di cordoglio, anche a nome dell’intera Chiesa palermitana, nonché la viva partecipazione al dolore delle città coinvolte e, in particolare, di Casteldaccia.
Dobbiamo sentire queste morti, far nostro questo dolore, ‘con-patirlo’, sentirlo nelle nostre viscere, portarlo insieme a quanti ora ne sono schiacciati. Dobbiamo cambiare. Tutti. Non possiamo abituarci agli incidenti sul lavoro, né rassegnarci all’indifferenza verso gli infortuni”.
I cinque operai morti nella rete fognaria di Casteldaccia non sarebbero dovuti scendere all’interno della stazione di sollevamento, in quanto il contratto di appalto stipulato con la municipalizzata Amap, prevedeva che l’aspirazione dei liquami avvenisse dalla superficie attraverso un autospurgo e che il personale non scendesse sotto terra: nessuna delle vittime indossava la mascherina né avesse il gas alert, che è un apparecchio che misura la concentrazione dell’idrogeno solforato, il gas che poi li ha uccisi.
Anche il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, da New York, ha espresso il proprio cordoglio con l’auspicio di un impegno comune per eliminare tali morti: “Auspico che sia fatta piena luce sulle dinamiche dell’incidente. Ma l’ennesima inaccettabile strage sul lavoro, a pochi giorni dal 1^ maggio, deve riproporre con forza la necessità di un impegno comune che deve riguardare le forze sociali, gli imprenditori e le istituzioni preposte”.
Anche l’Azione Cattolica Italiana ha espresso cordoglio alle famiglie dei cinque operai morti, ma anche alle famiglie che negli anni hanno visto i loro familiari perdere la vita sul posto di lavoro: “Denunciamo la carenza di tutela e di misure di prevenzione da parte di soggetti pubblici e privati, sottolineando come i fatti di Casteldaccia ripropongano l’imperativo assoluto di interventi e controlli stringenti per la sicurezza sul lavoro e per spezzare la drammatica catena di morti bianche”.
E’ stato un richiamo ad applicare il Decreto Legislativo 81/08, che regola la salute e la sicurezza sul lavoro e prevede una formazione più vicina alle attività lavorative delle imprese: “Come il Movimento Lavoratori di Ac ha ricordato più volte c’è la necessità di piani di sicurezza e interventi standardizzati che le aziende dovrebbero implementare per legare di più la sicurezza alle attività produttive.
Occorre inoltre un impegno a ridurre la distanza tra chi fa impresa e chi può aiutare gli imprenditori (a partire dai vari istituti di ricerca specializzati) ad elaborare in modo semplice delle azioni di sicurezza efficaci e di controllo dell’effettiva applicazione di queste. Occorre far crescere una cultura della sicurezza, a partire dalla consapevolezza condivisa che investire in sicurezza non è un costo ma un investimento sul futuro dell’azienda e dei suoi lavoratori”.
La presidenza nazionale dell’Azione Cattolica Italiana ha chiesto una maggior dignità al lavoro ed ai lavoratori: “Tutti devono fare la loro parte, perché tutti sono responsabili della sicurezza dei lavoratori. Qualcuno però lo è più degli altri. È dunque necessario passare con prontezza dalle denunce ai fatti concreti, agli investimenti precauzionali, alle verifiche e ai controlli.
Tutti i soggetti devono fare la loro parte, con un supplemento di responsabilità; ma è dagli imprenditori in particolare che si attendono quelle provviste e quelle innovazioni strutturali che sole possono garantire il successo degli altri interventi. La vita è sacra, e distintamente lo è quella impegnata sul lavoro duro e rischioso”.
Papa Francesco: è necessario un lavoro dignitoso
Ieri papa Francesco ha ricevuto i partecipanti alla consultazione ‘’La cura è lavoro, il lavoro è cura’, organizzato dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale per un lavoro dignitoso declinato secondo cinque ambiti: industrie estrattive, sicurezza alimentare, migrazione, giustizia sociale, giusta transizione:
“Negli ultimi sei anni avete portato avanti riflessioni, dialoghi e ricerche, proponendo modelli d’azione innovativi per un lavoro equo, giusto, dignitoso per tutte le persone del mondo… Nei prossimi giorni il vostro raduno sarà incentrato sul tema ‘La cura è lavoro, il lavoro è cura’. Per costruire una comunità trasformativa globale…
E’ necessario, infatti, mettere in comune tutte le nostre risorse personali e istituzionali, per avviare una lettura adeguata del contesto sociale in cui ci muoviamo, cercando di cogliere le potenzialità e, al contempo, di riconoscere in anticipo quei mali sistemici che possono diventare delle piaghe sociali”.
Ed ha ricordato brevemente le cinque tematiche, iniziando dal lavoro dignitoso: “Come ho ricordato anche nell’enciclica ‘Laudato sì’, le esportazioni di alcune materie prime al solo scopo di soddisfare i mercati del Nord industrializzato, non sono state esenti da conseguenze anche gravi, tra cui l’inquinamento da mercurio o da diossido di zolfo nelle miniere.
E’ fondamentale che le condizioni del lavoro siano connesse con gli impatti ambientali, prestando molta attenzione ai possibili effetti in termini di salute fisica e mentale delle persone coinvolte, nonché di sicurezza”.
Un altro tema è connesso con la sicurezza alimentare: “. Il Rapporto globale sulle crisi alimentari, pubblicato di recente, ha rilevato che, nel 2023, più di 280.000.000 persone in 59 Paesi e in diversi territori hanno sofferto livelli elevati di insicurezza alimentare acuta, che richiedono un intervento assistenziale urgente; senza dimenticare che in zone come Gaza e il Sudan, devastate dalla guerra, si trova il maggior numero di persone che stanno affrontando la carestia.
I disastri naturali e le condizioni meteorologiche estreme, ora intensificate dal cambiamento climatico, oltre agli shock economici, sono altri importanti fattori che determinano l’insicurezza alimentare, legati a loro volta ad alcune vulnerabilità strutturali quali la povertà, l’elevata dipendenza dalle importazioni di prodotti alimentari e le infrastrutture precarie”.
Il papa ha sottolineato che un lavoro dignitoso attenua l’emigrazione: “Per molte ragioni, sono tante le persone che emigrano in cerca di lavoro, mentre altre sono costrette a farlo per fuggire dai loro Paesi di provenienza, spesso dilaniati dalla violenza e dalla povertà. Queste persone, anche a causa di pregiudizi e di una informazione imprecisa o ideologica, sono spesso viste come un problema e un aggravio per i costi di una Nazione, mentre essi in realtà, lavorando, contribuiscono allo sviluppo economico e sociale del Paese che li accoglie e di quello da cui provengono”.
Al lavoro il papa ha collegato anche la natalità: “La denatalità è un problema, e la migrazione viene ad aiutare la crisi che provoca la denatalità. Questo è un problema molto grave. Tuttavia, molti migranti e lavoratori vulnerabili non sono ancora pienamente integrati nella pienezza dei diritti, sono cittadini ‘di seconda’, restando esclusi dall’accesso ai servizi sanitari, alle cure, all’assistenza, ai piani di protezione finanziaria e ai servizi psicosociali”.
Inoltre il lavoro non può essere disgiunto dalla giustizia sociale: “Questa espressione, ‘giustizia sociale’, che è arrivata con le Encicliche sociali dei Papi, è una parola che non è accettata dall’economia liberale, dall’economia di punta. La giustizia sociale. In effetti, un rischio che corriamo nelle nostre attuali società è quello di accettare passivamente quanto accade attorno a noi, con una certa indifferenza oppure perché non siamo nelle condizioni di inquadrare problematiche spesso complesse e di trovare ad esse risposte adeguate. Ma ciò significa lasciar crescere le disuguaglianze sociali e le ingiustizie anche per quanto riguarda i rapporti di lavoro e i diritti fondamentali dei lavoratori”.
L’ultimo aspetto toccato dal papa riguarda il rapporto tra lavoro ed ambiente: “Tenendo conto dell’interdipendenza tra lavoro e ambiente, si tratta di ripensare i tipi di lavoro che conviene promuovere in ordine alla cura della casa comune, specialmente sulla base delle fonti di energia che essi richiedono.
Carissimi fratelli e sorelle, questi cinque aspetti rappresentano delle sfide importanti. Vi ringrazio perché le accogliete e le affrontate con passione e competenza. Il mondo ha bisogno di un rinnovato impegno, di un nuovo patto sociale che ci leghi insieme (generazioni più anziane e generazioni più giovani) per la cura del creato e per la solidarietà e la protezione reciproca all’interno della comunità umana”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: educazione e formazione necessari per non abbandonare i giovani
Questa mattina papa Francesco ha incontrato i membri della ‘Fondazione Blanquerna’, istituto di istruzione superiore fondato nel 1948 e integrato nell’Università Ramon Llull di Barcellona, sottolineando l’attualità del messaggio contenuto nel nome stesso della Fondazione, che è il nome di un personaggio letterario (eroe senza macchia che sa sempre quale sia la migliore strada da percorrere nella vita) protagonista di un libro del filosofo e beato Raimondo Lullo che descrive la società del proprio tempo offrendo spunti per la realizzazione del ‘progetto’ di Dio:
“Allo stesso tempo, il filosofo cerca di fornire, in modo pedagogico, modelli di vita cristiana che possano servire a chiunque per seguire Cristo, ovunque Egli lo chiami. E tutto questo è una lezione di sorprendente attualità, poiché ci parla di un linguaggio nuovo e accessibile, di un modo di comunicare forse insolito per l’epoca, ma gradevole e chiaro per i suoi contemporanei”.
Durante l’incontro il papa ha sottolineato che tali personaggi avevano lo scopo di far scoprire il disegno di Dio su ciascuno: “Una pedagogia che si allontana dagli eroi fantastici che cercano di sfuggirci dalla nostra realtà, come erano allora i personaggi cavallereschi, e, al contrario, propone modelli di vita semplici, modelli di vita naturali, in cui possiamo servire il Signore ed essere felici. Quanto dolore e frustrazione producono oggi, ancor più che ai tempi dei Beati, gli stereotipi irraggiungibili che mercati e gruppi di pressione cercano di imporci. Che grande compito scoprire ai giovani il disegno di Dio su ciascuno di loro”.
Questi sono i valori che devono essere contenuti nei progetti educativi dell’Università: “Formare, sì, con un linguaggio attuale, moderno, agile, pedagogico, con un’analisi accurata della realtà; ma tenendo sempre conto che formiamo uomini e donne completi, non repliche illusorie di ideali impossibili. Per esempio, ci sono alcune università che ho conosciuto in America che sono troppo liberali, che cercano solo di formare tecnici, formare specialisti e si dimenticano che devono formare uomini e donne.
Persone integre che cercano di dare il meglio di sé nel servizio a cui Dio li chiama, sapendo che sono pellegrini, che in realtà tutto è cammino verso una meta che supera questa realtà, l’incontro dell’amico con l’amato”.
Ha chiuso l’incontro con un pensiero del filosofo beato Lullo sull’assenza di Cristo: “Questo è il mio augurio per voi, che possiate illuminare la vita dei vostri alunni con la presenza di Gesù, che questa certezza vi renda consapevoli della vostra dignità di amici, di Dio e degli uomini, e che possiate dissipare le tenebre che copre questo mondo lontano dalla sua vera essenza”.
Ugualmente con i membri della Confederazione Nazionale Formazione Aggiornamento Professionale (CONFAP), che compie 50 anni, papa Francesco ha parlato di giovani, formazione, professione: “Col vostro impegno quotidiano, voi siete espressione della ricca e variegata spiritualità di diversi Istituti Religiosi, che hanno nel loro carisma il servizio ai giovani attraverso la formazione professionale. Si tratta di percorsi formativi all’avanguardia, che vantano un’alta qualità di metodologie, esperienze di laboratorio e possibilità didattiche, tanto da costituire un fiore all’occhiello nel panorama della formazione al lavoro”.
Il papa ha elogiato la loro formazione che è integrale e diretta anche ai giovani un po’ emarginati: “E, cosa ancora più importante, la vostra proposta formativa è integrale, perché oltre alla qualità degli strumenti e della didattica, riservate una cura e un’attenzione speciali soprattutto verso i giovani che si trovano ai margini della vita sociale ed ecclesiale. Grazie per quello che fate; grazie ai formatori che si dedicano con passione ai giovani. E con questo spirito di gratitudine, vorrei offrirvi alcune riflessioni intorno alle tre parole che caratterizzano il vostro impegno: giovani, formazione, professione”.
E’ stata un’esortazione a non ‘abbandonare’ i giovani: “I giovani, sempre colmi di talenti e di potenzialità, sono anche particolarmente vulnerabili, sia per alcune condizioni antropologiche che per diversi aspetti culturali del tempo in cui viviamo. Alludo non solo ai NEET che non sono né in formazione né in attività, ma ad alcune scelte sociali che li espongono ai venti della dispersione e del degrado.
Molti giovani, infatti, abbandonano i loro territori di origine per cercare occupazione altrove, spesso non trovando opportunità all’altezza dei loro sogni; alcuni, poi, intendono lavorare ma si devono accontentare di contratti precari e sottopagati; altri ancora, in questo contesto di fragilità sociale e di sfruttamento, vivono nell’insoddisfazione e si dimettono dal lavoro”.
Per il papa tale ‘abbandono’ educativo è una vera tragedia con un invito all’incoraggiamento: “Dinanzi a queste e ad altre situazioni simili, tutti noi dobbiamo prendere consapevolezza di una cosa: l’abbandono educativo e formativo è una tragedia! Sentite bene, è una tragedia. E, se occorre promuovere una legislazione che favorisca il riconoscimento sociale dei giovani, ancora più importante è costruire un ricambio generazionale dove le competenze di chi è in uscita siano al servizio di chi entra nel mercato del lavoro. In altre parole, gli adulti condividano i sogni e i desideri dei giovani, li introducano, li sostengano, li incoraggino senza giudicarli”.
Inoltre la formazione è indispensabile per i giovani: “Le trasformazioni del lavoro sono sempre più complesse, anche a motivo delle nuove tecnologie e degli sviluppi dell’intelligenza artificiale. E qui siamo chiamati a respingere due tentazioni: da un lato la tecnofobia, cioè la paura della tecnologia che porta a rifiutarla; dall’altro lato la tecnocrazia, cioè l’illusione che la tecnologia possa risolvere tutti i problemi. Si tratta invece di investire risorse ed energie, perché la trasformazione del lavoro esige una formazione continua, creativa e sempre aggiornata. E nello stesso tempo occorre anche impegnarsi a ridare dignità ad alcuni lavori, soprattutto manuali, che sono ancora oggi socialmente poco riconosciuti”.
Inoltre è necessario un coinvolgimento delle famiglie per non ‘improvvisare’ la formazione professionale: “Serve un legame con le famiglie, come in ogni tipo di esperienza educativa; e serve un sano ed efficace rapporto con le imprese, disposte a inserire giovani al proprio interno. Questi per voi sono i due poli di riferimento, perché insieme alle competenze tecniche sono importanti le virtù umane: una tecnica senza umanità diventa ambigua, rischiosa e non è veramente umana, non è veramente formativa. La formazione deve offrire ai giovani strumenti per discernere tra le offerte di lavoro e le forme di sfruttamento”.
Infine ha sottolineato l’importanza della formazione: “Il lavoro è un aspetto fondamentale della nostra vita e della nostra vocazione. Eppure, oggi assistiamo a un degrado del senso del lavoro, che viene sempre più interpretato in relazione al guadagno piuttosto che come espressione della propria dignità e apporto al bene comune. Pertanto, è importante che i percorsi di formazione siano al servizio della crescita globale della persona, nelle sue dimensioni spirituale, culturale, lavorativa”.
(Foto: Santa Sede)
1^ Maggio: il lavoro per la democrazia
In occasione della festa dei lavoratori, la Cei ha pubblicato un messaggio incentrato sulla partecipazione democratica, ‘Il lavoro per la partecipazione e la democrazia’, traendo spunto dal passo evangelico dell’apostolo Giovanni, ‘Il Padre mio opera sempre e anch’io opero’, in cui è evidenziata una linea continua tra il Padre ed il Figlio nelle opere, come è sottolineato nell’enciclica ‘Centesimus Annus’:
“Ognuno partecipa con il proprio lavoro alla grande opera divina del prendersi cura dell’umanità e del Creato. Lavorare quindi non è solo un ‘fare qualcosa’, ma è sempre agire ‘con’ e ‘per’ gli altri, quasi nutriti da una radice di gratuità che libera il lavoro dall’alienazione ed edifica comunità”.
In tal senso il lavoro è una ‘res pubblica’, come sottolinea il titolo della 50^ Settimana Sociale dei cattolici: “In questa stessa prospettiva, l’articolo 1 della Costituzione italiana assume una luce che merita di essere evidenziata: la ‘cosa pubblica’ è frutto del lavoro di uomini e di donne che hanno contribuito e continuano ogni giorno a costruire un Paese democratico. E’ particolarmente significativo che le Chiese in Italia siano incamminate verso la 50ª Settimana Sociale dei cattolici in Italia (Trieste, 3-7 luglio), sul tema ‘Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro’. Senza l’esercizio di questo diritto, senza che sia assicurata la possibilità che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia”.
E’ un invito ad investire nel lavoro con politiche mirate ed innovative: “Occorre aprirsi a politiche sociali concepite non solo a vantaggio dei poveri, ma progettate insieme a loro, con dei ‘pensatori’ che permettano alla democrazia di non atrofizzarsi ma di includere davvero tutti. Investire in progettualità, in formazione e innovazione, aprendosi anche alle tecnologie che la transizione ecologica sta prospettando, significa creare condizioni di equità sociale. E’ necessario inoltre guardare agli scenari di cambiamento che l’intelligenza artificiale sta aprendo nel mondo del lavoro, in modo da guidare responsabilmente questa trasformazione ineludibile”.
E’ un invito a dare a tutti un lavoro ‘dignitoso’: “Le istituzioni devono assicurare condizioni di lavoro dignitoso per tutti, affinché sia riconosciuta la dignità di ogni persona, si permetta alle famiglie di formarsi e di vivere serenamente, si creino le condizioni perché tutti i territori nazionali godano delle medesime possibilità di sviluppo, soprattutto le aree dove persistono elevati tassi di disoccupazione e di emigrazione.
Tra le condizioni di lavoro quelle che prevengono situazioni di insicurezza si rivelano ancora le più urgenti da attenzionare, dato l’elevato numero di incidenti che non accenna a diminuire. Inoltre, quando la persona perde il suo lavoro o ha bisogno di riqualificare le sue competenze, occorre attivare tutte le risorse affinché sia scongiurato ogni rischio di esclusione sociale, soprattutto di chi appartiene ai nuclei familiari economicamente più fragili, perché non dipenda esclusivamente dai pur necessari sussidi statali”.
Ed anche la Chiesa è chiamata a dare il suo contributo: “…ogni comunità è chiamata a manifestare vicinanza e attenzione verso le lavoratrici e i lavoratori il cui contributo al bene comune non è adeguatamente riconosciuto, come anche a tenere vivo il senso della partecipazione. In questa prospettiva, gli Uffici diocesani di pastorale sociale e gli operatori, quali i cappellani del lavoro, promuovano e mettano a disposizione adeguati strumenti formativi. Ciascuno deve essere segno di speranza, soprattutto nei territori che rischiano di essere abbandonati e lasciati senza prospettive di lavoro in futuro, oltre che mettersi in ascolto di quei fratelli e sorelle che chiedono inclusione nella vita democratica del nostro Paese”.
Per questo l’arcivescovo di Torino, mons. Roberto Repole, ha fatto una riflessione sul difficile ‘mestiere’ di imprenditori, che non può essere disgiunto da quello dei lavoratori: “Il destino dei lavoratori e delle loro famiglie in questa stagione così delicata dipende anche dal successo degli imprenditori: per questo la Chiesa sostiene con gratitudine ed anche prega per tutti coloro che abbracciano l’attività di impresa investendo risorse e spendendo la propria intelligenza, il proprio coraggio e la fantasia”.
E’ uno sguardo sulla situazione torinese: “L’avventura delle imprese, anche quella delle industrie multinazionali con sede a Torino, è anche l’avventura di un territorio, che offre alle aziende la risorsa più importante: i lavoratori. Oggi va detto con forza che i lavoratori non sono separabili dagli interessi delle aziende: sono gli uomini e le donne che, con il loro impegno, con la loro vita, con la vita delle loro famiglie, rendono possibile la ricchezza e l’esistenza stessa delle aziende”.
Quindi c’è un nesso indissolubile tra imprenditore e lavoratore: “Desidero esprimere grande riconoscenza agli imprenditori che combattono per mantenere vive le proprie aziende. Faccio anche osservare che il complesso dei lavoratori di un territorio rappresenta il mercato cui le aziende rivolgono i loro prodotti e servizi: se questo mercato mantiene la sua capacità di spesa e consumo, saranno le aziende stesse a beneficiarne”.
Quella di mons. Repole è una precisa ‘condanna’ per chi ‘gioca’ con i lavoratori: “Ciò che non dovrebbe mai accadere, agli operai e agli impiegati, è perdere il lavoro in aziende che godono di buona salute e stanno producendo ricchezza e profitto, eppure non si accontentano: queste aziende, spinte sovente da logiche esasperate di ricerca di sempre maggiori guadagni, tagliano i posti di lavoro o li trasferiscono altrove”.
Non si può abbandonare un territorio solo per il profitto: “Se la scelta di abbandonare il nostro territorio può essere compresa quando è necessaria per la sopravvivenza dell’azienda, non mi pare possa essere accettabile quando risponde alla logica di moltiplicare in modo esasperato i profitti: credo che esistano limiti all’accumulo della ricchezza, oltre i quali non è legittimo sacrificare la vita delle persone”.
Ma questa visione sul profitto è miope: “Dietro alle dinamiche estreme dei mercati mi sembra di leggere una visione povera della persona umana, sacrificata alla logica del denaro. E’ una visione che non colmerà mai il nostro cuore, neppure quello di chi muove le leve economiche e un giorno si domanderà l’uso che ne ha fatto. Tutti, ciascuno di noi nel suo ruolo, ci domanderemo un giorno se abbiamo portato frutti buoni”.
Anche l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha affermato che il senso del lavoro è nella persona, come è ribadito dall’art. 35 della Costituzione Italiana: “Vogliamo esprimere la nostra gioia di pensare il lavoro e pregare per il lavoro, soprattutto per rieducarci a mettere al centro il valore infinito della persona. La questione del lavoro è tra le più rilevanti. Il lavoro nella sua dignità perché realizza la persona e forma la comunità e il lavoro dignitoso capace di favorire lo sviluppo umano integrale e solidale.
L’articolo 35 della Costituzione dice: ‘La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori’: questo chiede di andare all’origine del senso del lavoro per poter, poi, valutarne le conseguenze. Elevare la persona significa scoprirci all’interno di un progetto di cooperazione a un bene più grande di noi, che va “oltre”. Il lavoro genera comunità, la comunità genera lavoro. Prendersi cura del lavoro è un atto di carità politica e di democrazia, un impegno che coinvolge tutti nel costruire un futuro migliore, un impegno che abbraccia l’integralità dell’individuo e l’integrità della società”.
E nel tema della Costituzione Italiana il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, visitando il polo agroalimentare del distretto cosentino ha ribadito che la Repubblica è fondata sul lavoro di tutti, consentendo la libertà:
“Il lavoro è libertà. Anzitutto libertà dal bisogno; e strumento per esprimere sé stessi, per realizzarsi nella vita. I progressi straordinari della scienza e della tecnica per migliorare la qualità e la sostenibilità dei prodotti e dei servizi, devono essere sempre indirizzati alla tutela della dignità e dell’integrità delle persone, dei loro diritti. A partire dal diritto al lavoro. Il lavoro deve essere libero da condizionamenti, squilibri, abusi che creano emarginazione e dunque rappresentano il contrario del suo ruolo e del suo significato”.