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Sud Sudan, la Chiesa e la riconciliazione possibile per il vescovo di Rumbek

200.000.000 di persone vivono nei 6 Paesi del Corno d’Africa: Gibuti, Etiopia, Eritrea, Somalia, Sud Sudan e Sudan e nei prossimi trent’anni il loro numero raddoppierà, ma nessuno di questi paesi dispone di un’infrastruttura di governance che sia in grado di gestire quest’aumento della popolazione, e ancor meno le sempre maggiori aspettative dei loro giovani, la cui crescita è ancora più rapida. Con la traiettoria attuale, si sta andando verso il collasso dello stato in tutta la regione, a causa delle guerre in Sudan e in Etiopia. Tutte le parti in guerra stanno usando la fame come arma, assediando le città, tagliando le linee di rifornimento e distruggendo le infrastrutture essenziali.

E’ una regione segnata da dittature longeve e instabilità politica, ma anche da importanti svolte politiche, quali, recentemente, la caduta del presidente Omar al-Bashir in Sudan e la storica pace stipulata tra Eritrea ed Etiopia. Tra economie in forte crescita (Kenya, Etiopia) e Paesi che arrancano (Sud Sudan), restano diffusi forti livelli di disuguaglianza. Conflitti, instabilità politica e difficili condizioni socio-economiche alimentano i movimenti migratori, in larga maggioranza costituiti da giovani. Uganda, Etiopia e Sudan sono tra i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati in Africa.

Da mons. Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, ci siamo fatti raccontare la situazione in Sud Sudan: “La situazione del paese sembra abbastanza tranquilla. Il governo è piuttosto forte, e le opposizioni non hanno tanta voce. Ci sono ancora aree del Paese dove c’è insicurezza a causa delle tante armi che ci sono nel territorio, ma non sono conflitti di natura politica ma legati alla natura dei popoli pastori che si spostano in cerca di pascoli e acqua andando a scontrarsi con altri gruppi. È necessario l’impegno del governo e delle amministrazioni locali per prevenire e risolvere questi conflitti intercomunitari.

Ma il vero problema che il paese deve affrontare è la crisi economica dovuta ad una incapacità o impossibilità quasi endemica di usare e produrre risorse o ricchezze. Manca l’imprenditoria locale quasi in tutti i settori. I prodotti vengono quasi tutti importati. L’entrata che viene dal petrolio non viene investita nel promuovere l’economia locale. Buona parte finisce all’estero. E quello che rimane serve per sostenere l’apparato burocratico del Paese.

La quota assegnata all’istruzione e alla sanità pubblica non sembra adeguata a rispondere ai bisogni della popolazione. La moneta perde di valore. Il lavoro non è ben remunerato a meno che si tratti di lavoro per organizzazioni non governative e agenzie per lo sviluppo. La popolazione soffre povertà e miseria”.

Quanto pesa la situazione in Sudan sulla popolazione del Sud Sudan?

“La situazione nella regione dell’Alto Nilo è molto difficile. Il Sud Sudan ha aperto le braccia

a Sud Sudanesi che rientrano scappando dalla guerra del Sudan. Fra i rifugiati ci sono anche sudanesi e gente di altre nazionalità. Ma pur accogliendo, non ha grandi risorse od opportunità da offrire, se un po’ di tranquillità, ma nell’Alto Nilo neanche tanta. Le famiglie che sono arrivate a Rumbek e nella regione dei Laghi trovano le basi per sistemarsi pur nella fatica di trovare una occupazione per vivere. A Khartoum c’erano Sud Sudanesi istruiti e con buone qualifiche e professioni, questi si potranno inserire in Sud Sudan abbastanza rapidamente perché il paese ha comunque bisogno di loro: medici, ingegneri, professori. Ma nel caso di lavoratori non qualificati, non sarà facile, specie per quei Sud Sudanesi nati e cresciuti in Sudan e senza connessioni al Sud”.

Quale futuro oltre la guerra?

“Purtroppo il conflitto in Sudan non sembra voler cessare. Manca la volontà di dialogare e di raggiungere un compromesso. D’altronde non so quale accordo sia possibile trovare quando a combattersi sono gruppi militari senza politica che hanno semplicemente l’intenzione di preservare potere e controllo su risorse. Unica speranza è che ci sia la possibilità di ritornare a un dialogo politico dove i cittadini e gruppi civili abbiamo la parola. Probabilmente c’è bisogno di una mediazione della comunità internazionale e dell’Unione Africana. Riguardo al Sud Sudan, il paese è esausto. Nessuno vuole la guerra. Solo alcuni gruppi quando non sono ascoltati, o quando sperano di alzare la posta in gioco e ottenere qualcosa per sé. C’è bisogno di una politica illuminata che promuova uno spirito nazionale, piuttosto che tribale, lo spirito del bene comune piuttosto che degli interessi di gruppo”.

Come si sta preparando la popolazione per le elezioni del prossimo dicembre?

​“E’notizia dei giorni scorsi che il governo ha approvato il preventivo di spesa per le prossime elezioni. C’è quindi un primo passo, quello di garantire fondi perché le elezioni possano essere fatte. Allo stesso tempo, Charles Gituai Tai, interim president di R-JMEC, ha chiesto a governo e rappresentanti dei partiti di chiarificare al più presto come intendono arrivare a elezioni pacifiche, genuine, libere, giuste e credibili. Permangono dei dubbi. Sembra necessario un censimento per determinare il corpo votante.

Non è ancora chiaro se rifugiati e sfollati potranno votare e in quali circoscrizioni. Ancora non c’è chiarezza su partiti e candidati. Un processo democratico richiede tappe precise che ancora non sembrano essere raggiunte. Ma in molti citano il proverbio: povere elezioni, meglio di nessuna elezione (Bad election is better than no election). Anche la Santa Sede, con la visita del card. Czerny, ha incoraggiato il governo di favorire il processo elettivo: questo è un momento critico nella vita politica del vostro Paese.

Preparatevi alle elezioni con la preghiera e l’impegno per garantire che siano non violente, giuste, trasparenti, credibili e pacifiche. Per raggiungere questo obiettivo ci sono delle basi importanti: mettere in atto le strutture necessarie nella sfera politica, disporre cuori e menti a una possibile transizione. Un trasferimento pacifico del potere non è solo un segnale politico di maturità,  ma assicura anche il buon governo e lo sviluppo olistico della nazione. Esorto pertanto tutte le parti a rimanere fedeli all’accordo di pace che prevede le elezioni”.

Quale è il ruolo della Chiesa per la riconciliazione del Paese?

“Dall’ultimo Sinodo per l’Africa abbiamo imparato che l’evangelizzazione prende il nome di riconciliazione. In generale c’è bisogno di un cammino verso l’unità sia del genere umano che della casa comune in cui abitiamo. E così anche nel particolare della storia del Sud Sudan. Evangelizzare significa umanizzare in forza dell’incarnazione, il mistero di un Dio fatto uomo perché recuperassimo la nostra somiglianza a Lui. E quindi una Chiesa che si fa prossima ad ogni gruppo umano lo fa sentire parte di una stessa umanità con la stessa dignità e casa ovunque si trovi.

La Chiesa in Sud Sudan ha sempre evangelizzato anche valorizzando l’importanza dell’istruzione come strumento importante verso una piena liberazione da schiavitù legate alla cultura tradizionale, all’appartenenza di sangue e alla posizione economica.

Nelle scuole cattoliche vediamo una nuova generazione emancipata da narrative di pregiudizio, di paura e di rancore, e pronte a riscrivere una nuova storia di comprensione, di coraggio, e di riconciliazione. La nostra diocesi di Rumbek ha anche valorizzato il ministero di giustizia e pace attraverso un ufficio specifico che propone momenti di dialogo tra comunità che sono state vittima di violenza, corsi di riconoscimento e cura del trauma.

Quest’ufficio ha anche stabilito comitati di giustizia e pace in tutto il territorio formando agenti capaci di promuovere ascolto e dialogo. Ultimamente abbiamo anche stabilito la commissione per la riconciliazione in diocesi per mettere in atto processi che aiutino la diocesi a superare quanto successo negli anni scorsi, sospetti, minacce, paure poi culminate anche nell’agguato di cui sono stato vittima.

La diocesi era vittima di una dinamica nociva che si protraeva da tempo. La diocesi si è trovata ad essere una parabola del paese che si trova vittimizzato da una struttura di peccato. Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono. Non c’è perdono senza verità. Non c’è verità senza conversione. Non c’è conversione senza fede in Dio”.

Cosa significa vivere la sinodalità in Sud Sudan?

“Sinodalità in Sud Sudan chiede una Chiesa dell’ascolto e del dialogo. Anticipa una Chiesa meno clericale e più attenta e aperta al ruolo delle donne e dei laici. Prevede meccanismi di partecipazione e di responsabilizzazione. Per noi nello specifico, la sinodalità ci sta aiutando nella riorganizzazione della diocesi, forse in una Chiesa meno preoccupata del fare, ma più cosciente di quello che è con la gente. Non una Chiesa che si distingue dalla gente, ma una Chiesa che accoglie e chiede l’aiuto di tutti”.

Quale è opera di Fondazione Cesar in Sud Sudan?

“La Fondazione Cesar è attiva da più di 20 anni nella diocesi di Rumbek come Coordinamento Enti  Solidali di Rumbek. Da sempre il nostro impegno principale è quello di dedicarci alla formazione e lo facciamo su più fronti. Per esempio, nel tempo, abbiamo realizzato il Mazzolari Teachers College a Cueibet (Sud Sudan) che ci permette di formare i maestri e di garantire ai bambini che vanno a scuola di avere insegnanti preparati in modo adeguato e di dare, di conseguenza, un impulso al percorso che permetterà di avere una classe dirigente preparata. Oltre a portare avanti percorsi di abilitazione per docenti stiamo sostenendo, sempre per loro, il  percorso per il recupero del trauma, ed è stata costruita la biblioteca e siamo pronti per dare il via alla costruzione per il dormitorio per i docenti laici.

Importante è la nostra attenzione alla formazione delle ragazze, perché sono quelle più escluse dall’educazione e con il progetto ‘Education for Life’ per bambini/e e adolescenti e le borse di studio ‘Insieme a Damiana’ vogliamo dare formazione di qualità alle bambine  e ragazze del Sud Sudan. Questo è importante in quanto avrà ricadute sul paese, poiché queste studentesse diventeranno le adulte del domani, grazie ad un’adeguata preparazione culturale e professionale.

La malnutrizione è  un altro nostro ambito di intervento con azioni di prevenzione della malnutrizione per i bambini tra gli 0 e i 5 anni con visite mediche, individuazioni di cure personalizzate per i piccoli malnutriti  e corsi di formazione per le mamme, per aiutarle a capire come aiutare, accudire e crescere al meglio i propri figli.

Accanto a questo, sosteniamo anche il lavoro delle suore missionarie di Madre Teresa operative nella Casa Speranza a Rumbek dove sono ospitati bambini rimasti orfani (molti a causa dei conflitti interni) e con disabilità intellettive ai quali diamo sostegno. Altra attività che svolgiamo è il sostegno di piccoli progetti di micro-attività  economiche come la produzione del sapone e la realizzazione di manufatti artigianali realizzati della donne in Sud Sudan e che per loro rappresentano una piccola fonte di guadagno.

In Italia lavoriamo sulla sensibilizzazione, promozione per il Sud Sudan attraverso diverse iniziative come la raccolta fondi, le campagne di Natale e Pasqua, eventi di vario tipo e il concorso dedicato alla scuole. Tutte attività svolte nell’intento di raggiungere e coinvolgere il maggior numero possibile di e fare il bene per il Sud Sudan”.

(Tratto da Aci Stampa)

Ad Haiti si rischia una guerra civile

Bande criminali che controllano il centro della capitale, Port-au-Prince, dopo aver preso d’assalto le carceri e liberato 4mila detenuti. Il primo ministro, Ariel Henry, al quale viene impedito di rientrare nel Paese dopo il viaggio in Kenya per firmare un accordo relativo ad una missione multinazionale per la sicurezza, che dovrebbe mettere a disposizione un migliaio di soldati. Haiti è allo sbando, con un primo ministro considerato illegittimo dagli oppositori, che si è dimesso, ed ancora nessuna alternativa politica concreta da poter proporre come soluzione, come ha dichiarato la coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite, Ulrika Richardson, ai giornalisti in una conferenza stampa virtuale dalla capitale haitiana, Port-au-Prince: “Prosegue l’escalation di violenza ad Haiti, “con bande armate che compiono omicidi e atti di violenza sessuale”.

Attualmente sono più di 5.000.000 le persone bisognose di assistenza, poco meno della metà della popolazione totale. La maggiore criticità è quella dell’insicurezza alimentare, per cui si riscontra un aumento importante dei casi di malnutrizione soprattutto tra i bambini e le donne incinte. Gli atti di violenza a cui è sottoposta quotidianamente la popolazione sono un’altra delle questioni nodali. Nel 2023 erano state segnalate più di 8.400 persone uccise, ferite o rapite, più del doppio rispetto al 2022. Le bande continuano a combattere per il territorio e si stima che controllino fino all’80% di Port-au-Prince.

I bambini costituiscono la maggior parte della popolazione bisognosa, circa 3.000.000 e l’escalation delle violenze sta compromettendo il loro accesso all’istruzione, senza contare che molti di questi facevano affidamento al sostegno dell’alimentazione scolastica e si trovano così privati anche di questo apporto alimentare, come ha raccontato Flavia Maurello, responsabile AVSI ad Haiti: “Le principali vittime della condizione in cui versa Haiti sono i bambini e le donne incinte. Ci sono interi mesi in cui i bambini non vanno a scuola, e questo incide sullo sviluppo del Paese. Ci sono poi le donne incinte che non riescono ad accedere agli ospedali, molte di loro arrivano al nono mese di gravidanza senza aver mai incontrato un medico. La situazione sanitaria è anch’essa disastrosa. La non cura dei politici ha reso ingestibile la situazione nei quartieri in cui si lavora. Non vi è più la pulizia dei canali, vi sono cumuli di spazzatura alti come montagne, case completamente allagate, e questo ha portato al ritorno dell’epidemia di colera”.

All’Agenzia Sir mons. Max Leroy Mésidor, arcivescovo metropolita di Port-au-Prince, è molto lapidario: “L’insicurezza imperversa a Port-au-Prince da più di due anni. Ma negli ultimi mesi la situazione è peggiorata. Le bande controllano più di tre quarti del territorio della capitale. Occupano ogni giorno nuove aree sotto lo sguardo impassibile e indifferente delle autorità”. Di fronte a questo scenario, l’arcivescovo di Port-au-Prince ha descritto le difficoltà della Chiesa nell’opera di evangelizzazione: “La Chiesa condivide il destino della popolazione: è anche particolarmente esposta. Sacerdoti e religiosi sono stati rapiti e poi rilasciati per riscatto. Una religiosa italiana, suor Luisa Dell’Orto, è stata freddamente giustiziata in pieno giorno lo scorso anno”.

Anche i missionari salesiani continuano a cercare di operare nel Paese, prendendosi cura della popolazione, pur di fronte all’attuale ondata di violenza senza precedenti, come racconta ‘Misiones Salesianes’: “La situazione ad Haiti è caotica. Non ci sono parole per descriverla. Stiamo vivendo un inferno… La violenza e le bande dominano Haiti. La situazione di instabilità che vive il Paese dall’assassinio del presidente Jovenel Moïse, nel 2021, è esplosa negli ultimi giorni quando il primo ministro Ariel Henry ha annunciato il suo impegno a tenere le elezioni prima dell’agosto 2025. Da allora, l’assalto al due carceri della capitale ha liberato più di 3.000 detenuti, sparatorie e tentati assalti al Palazzo Nazionale, danni all’aeroporto e la richiesta dei capi delle bande criminali, ex alti funzionari della Polizia, al Primo Ministro, chi si trova a Porto Rico e non può tornare nel Paese, rinuncia al potere”.

Haiti è in attesa del dispiegamento di una missione internazionale di sostegno alla sicurezza guidata dal Kenya e approvata dalle Nazioni Unite lo scorso ottobre. Nel frattempo, Haiti sopravvive nel mezzo del collasso istituzionale, dell’incapacità della polizia e dell’esercito di far fronte alle bande criminali e con una popolazione che non ha abbastanza da mangiare: “Noi salesiani, per il momento, stiamo bene, ma non possiamo svolgere alcuna attività dal 29 febbraio, quando è iniziata questa situazione… Le bande stanno saccheggiando le stazioni di polizia e tutto ciò che incontrano, gli esercizi commerciali, i negozi… vogliono impossessarsi del Palazzo Nazionale, dell’aeroporto”.

I missionari salesiani operano ad Haiti dal 1935: “Le nostre opere educative si estendono in 8 città del Paese, da Cap-Haitien nel nord, attraverso la capitale ed a Les Cayes nel sud e servono più di 22.000 minori e giovani ogni anno nelle scuole, nei centri di formazione professionale, nei centri giovanili e di affidamento le case”.

Ed il futuro di Haiti è complesso. Perché si rischia una guerra civile: “Viviamo nella paura ogni giorno perché non sappiamo cosa potrebbe accadere un minuto dopo. Questa è la nostra vita negli ultimi giorni, per questo chiediamo preghiere e che non ci dimentichiate”.

Dall’Ecuador i racconti dei cooperanti

Allarme in tutta l’America Latina per la situazione in Ecuador, dove martedì 9 gennaio il presidente Daniel Noboa, ha dichiarato l’esistenza di un ‘conflitto armato interno’, ordinando all’esercito di smantellare 22 gruppi criminali organizzati transnazionali, definiti organizzazioni terroristici non-statali, dopo che un gruppo armato ha occupato per alcune ore il canale pubblico TC Televisión a Guayaquil, mentre si verificavano disordini in sei carceri e altri atti violenti a Quito e in diverse città.

Giuliano Zanchi: dal silenzio parole nuove per vincere la tragedia

Dopo ‘Il potere della speranza’ di mons. Tolentino Mendonça e ‘Il segno delle chiese vuote’ del filosofo praghese Tomáš Halík, la casa editrice ‘Vita e Pensiero’ propone un nuovo ebook gratuito ‘I giorni del nemico. Il grande contagio e altre rivelazioni’, firmato da don Giuliano Zanchi, che da Bergamo, la provincia italiana più colpita dalla pandemia, fotografa lucidamente la scena reale del paese, quella di case in autogestione clinica, parentele mobilitate dalla necessità della cura, comunità locali impegnate a improvvisare i servizi di garanzia.

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