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Papa Francesco: Dio condivide la vita umana
Nell’Angelus odierna papa Francesco, incoraggiando i presente in piazza san Pietro nonostante la pioggia, ha raccontato la ‘potenza’ del brano evangelico odierno: “Oggi il Vangelo, parlandoci di Gesù, Verbo fatto carne, ci dice che ‘la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta’. Ci ricorda, cioè, quanto è potente l’amore di Dio, che non si lascia vincere da nulla e che, al di là di ostacoli e rifiuti, continua a risplendere e a illuminare il nostro cammino”.
Attraverso il Vangelo di questa domenica Dio si manifesta nell’umiltà: “Lo vediamo nel Natale, quando il Figlio di Dio, fattosi uomo, supera tanti muri e tante divisioni. Affronta la chiusura di mente e di cuore dei ‘grandi’ del suo tempo, preoccupati più di difendere il potere che di cercare il Signore.
Condivide la vita umile di Maria e Giuseppe, che lo accolgono e crescono con amore, ma con le possibilità limitate e i disagi di chi non ha mezzi: erano poveri. Si offre, fragile e indifeso, all’incontro con i pastori, uomini dal cuore segnato dalle asprezze della vita e dal disprezzo della società; e poi con i Magi, che spinti dal desiderio di conoscerlo affrontano un lungo viaggio e lo trovano in una casa di gente comune, in grande povertà”.
E nonostante le ‘chiusure’Dio continua ad elargire misericordia: “Di fronte a queste e a tante altre sfide, che sembrano contraddizioni, Dio non si ferma mai: trova mille modi per arrivare a tutti e a ciascuno di noi, là dove ci troviamo, senza calcoli e senza condizioni, aprendo anche nelle notti più oscure dell’umanità finestre di luce che il buio non può coprire. E’ una realtà che ci consola e che ci dà coraggio, specialmente in un tempo come il nostro, un tempo non facile, dove c’è tanto bisogno di luce, di speranza e di pace, un mondo dove gli uomini a volte creano situazioni così complicate, che sembra impossibile uscirne”.
Quindi il Vangelo odierno è stato un invito ad aprirsi all’amore: “Sembra impossibile uscire da tante situazioni, ma oggi la Parola di Dio ci dice che non è così! Anzi, ci chiama a imitare il Dio dell’amore, aprendo spiragli di luce dovunque possiamo, con chiunque incontriamo, in ogni contesto: familiare, sociale, internazionale. Ci invita a non aver paura di fare il primo passo. Questo è l’invito del Signore oggi: non abbiamo paura di fare il primo passo: ci vuole coraggio per farlo, ma non abbiamo paura”.
Ci si apre all’amore attraverso una risposta positiva alla vita: “Spalancando finestre luminose di vicinanza a chi soffre, di perdono, di compassione, di riconciliazione: questi sono i tanti primi passi che noi dobbiamo fare per rendere il cammino più chiaro, sicuro e possibile per tutti. E questo invito risuona in modo particolare nell’Anno giubilare da poco iniziato, sollecitandoci ad essere messaggeri di speranza con semplici ma concreti ‘sì’ alla vita, con scelte che portano vita. Facciamolo, tutti: è questa la via della salvezza!”
Ed oggi è stata aperta anche l’ultima Porta Santa romana, quella della Basilica di San Paolo fuori le Mura, con una celebrazione eucaristica del card. James Michael Harvey, arciprete della Basilica, che nell’omelia ha fatto riferimento alla gioia e alla speranza che caratterizzano il tempo di Natale e quello del Giubileo: “La Chiesa fa un ulteriore passo decisivo nella sua storia millenaria… Le parole che il salmista canta alla città santa Gerusalemme ora la liturgia le canta alla Chiesa universale e a ogni singolo membro di essa.
Questa mattina con l’apertura della Porta Santa, un atto tanto semplice quanto suggestivo, abbiamo varcato la soglia del tempio sacro con immensa gioia perché in modo emblematico abbiamo varcato la porta della speranza. La gioia e la speranza sono il binomio del rito liturgico. Gioia perché è nato il Salvatore, speranza perché Cristo Salvatore è la nostra speranza. E’ la letizia del tempo natalizio in cui il mondo cristiano contempla il disegno di salvezza di Dio».
L’arciprete della Basilica ha ricordato che lo scopo dell’incarnazione del Figlio di Dio è non solo “essere in mezzo a noi ma essere uno di noi. Ci ha comunicato la sua stessa vita filiale per metterci in rapporto intimo con Dio. In Gesù riceviamo l’adozione a figli, ci conduce in una pienezza di vita insuperabile… La gioia è il sentimento giusto anche per il dono della redenzione.
L’apertura della Porta Santa segna il passaggio salvifico aperto da Cristo chiamando tutti i membri della Chiesa a riconciliarsi con Dio e con il prossimo. Varcando con fede questa soglia entriamo nel tempio della misericordia e del perdono. Quanto abbiamo bisogno adesso della speranza, in questo periodo post-pandemia ferito da tragedie, guerre, crisi di varia natura. La speranza è indubbiamente legata al futuro ma si sperimenta anche nel presente”.
Concludendo l’omelia il cardinale ha ricordato che “la città eterna si prepara ad accogliere pellegrini di tutto il mondo; anche noi di Roma ripetiamo gesti che caratterizzano l’esperienza giubilare e la viviamo come speciale dono di grazia, penitenza e perdono dei peccati. La Chiesa invita ciascun pellegrino a percorrere un viaggio spirituale sulle orme della fede. Nello spirito di veri pellegrini, camminando per così dire con la croce in mano, accogliamo con gioia l’appello rivolto a tutta la Chiesa dal papa, un appello pressante e impegnativo, a non accontentarci solo di avere ma anche irradiare speranza, essere seminatori di speranza. E’ il dono più bello che la Chiesa può fare all’umanità intera”.
Mentre nei giorni precedenti il card. Rolandas Makrickas aveva aperto la porta santa della basilica di santa Maria Maggiore: “Dalla cima dell’Esquilino, punto più elevato del centro di Roma, fin dal primo Giubileo della Chiesa essa continua sino ad oggi a diffondere il suo suono per tutta la Città Eterna, a conforto di ogni pellegrino. Il suono di questa campana non solo scandisce le ore e i tempi per la preghiera, ma trasforma in suono la tradizionale immagine ascritta a Maria, quella di guida e segnavia, la Stella Maris, che illumina il cammino nel buio della notte”.
Nell’omelia il cardinale si è soffermato sul valore della ‘pienezza del tempo’: “Il tempo acquista la sua pienezza quando è unito all’eternità, cioè con il tempo infinito di Dio. Il tempo è una grande creatura di Dio. L’uomo spesso e in diversi modi ha voluto aumentare o perfezionare il tempo con le nuove tecnologie, ma ogni suo tentativo si risolve sempre nella sua perdita o in quella che potremmo definire la ‘stanchezza del tempo’. Basti pensare ai computer o ai telefonini: progettati per salvare e arricchire il tempo, ne diventano spesso i suoi peggiori nemici. Non ci si può, invece, sentire mai sperduti, persi o stanchi del tempo vissuto con Dio”.
In questa chiesa è custodita l’icona mariana della ‘Salus Populi Romani’: “Ogni pellegrino che varcherà la soglia della Porta Santa di questo primo santuario Mariano d’Occidente durante l’Anno Giubilare si disporrà alla preghiera di fronte all’icona della Madre di Dio, Salus Populi Romani, e di fronte alla Sacra Culla di Gesù e non potrà uscire di qui senza avvertire una sensazione particolare”.
(Foto: Santa Sede)
Cecilia Galatolo: un libro sui CambiaMenti dell’adolescenza
“Cercate un libro da proporre ai giovanissimi su amicizia, rispetto di sé, accettazione del proprio corpo e integrazione all’interno di un gruppo? Forse ne abbiamo uno che fa al caso vostro, che siate genitori, insegnanti, educatori. E’ settembre. Lucia si ritrova improvvisamente in una nuova scuola, dove dovrà frequentare la seconda media. Il mondo sembra crollare sulle sue spalle. Perché deve lasciare le sue amiche, le sue abitudini, la sua classe di sempre? La madre ha deciso per lei questo cambiamento e, perciò, è molto arrabbiata. Perché non può scegliere da sola della sua vita?”:
inizia così il romanzo, pensato per un pubblico di preadolescenti, ‘CambiaMenti. Bullismo out’ di Cecilia Galatolo, autrice del libro ‘Sei nato originale, non vivere da fotocopia. Carlo Acutis mi ha insegnato a puntare in alto’ e di moli altri libri su giovani santi.
La fragilità, le battaglie, la voglia di crescere dei ragazzi da un lato e dall’altro l’impegno, la passione, la premura, lo sguardo degli adulti sono al centro di questo libro, che in forma di diario tratta uno dei problemi che affliggono il mondo giovanile oggi: l’eccessiva aggressività di alcuni ragazzi che può sfociare anche nel bullismo. Attraverso le esperienze di una ragazzina, il romanzo descrive il percorso proposto ai ragazzi per contrastare ogni forma di violenza e accrescere la coscienza del valore di sé e dei buoni rapporti di amicizia.
Si crea così una ‘rete’ di relazioni che tende a limitare i caratteri violenti e le espressioni aggressive: “Il messaggio principale è che ognuno di noi è unico e prezioso e che nessuno è condannato in eterno alla solitudine: esistono per tutti altri cuori che battono all’unisono con il proprio, basta solo desiderarli e cercarli. Gli amici sono un dono: per trovarli, però, bisogna aprirsi”.
Da Cecilia Galatolo ci facciamo spiegare il motivo di un libro sul bullismo: “Il bullismo è solo uno dei temi che troverete in ‘Bullismo Out’. La protagonista, Lucia, cambia scuola in seconda media e diviene oggetto di scherno continuo da parte di Micheal, un ragazzino difficile. Ha una situazione famigliare delicata e sfoga il suo nervosismo su questa nuova compagna, percepita come fragile e indifesa. Sono tanti, però, i temi che attraversano il romanzo: il rapporto tra genitori e figli, le amicizie che resistono anche alla distanza; e poi ancora: i primi amori che fanno battere il cuore, la paura di crescere, il legame con i fratelli…
‘Bullismo Out’ vuol essere molto più che un libro di denuncia contro il bullismo: è anche questo, ma non solo. Si presenta, piuttosto, come un romanzo di formazione. Ammetto che ho preso molto spunto dalla mia vita. Anche io, proprio in seconda media, ho vissuto un grande cambiamento e anche io sono stata vittima di bullismo. Attraverso il finale del libro, però, voglio lanciare un messaggio di speranza.
In particolare, mi preme comunicare che nessuno è perduto, anche se ci sembra la persona più cattiva del mondo. Ancora mi commuovo se penso che, quando sono iniziati a comparire i primi social, il bullo che mi aveva letteralmente rovinato la vita ai tempi delle medie mi ha cercata solo per chiedermi scusa”.
Il titolo completo è ‘CambiaMenti. Bullismo Out’: in quale modo avvengono i CambiaMenti negli adolescenti?
“L’adolescenza è per antonomasia il tempo del cambiamento. Se penso agli anni che vanno tra i tredici e i diciannove li ricordo come infiniti, per tutte novità che si sono verificate: dai cambiamenti fisici e nella psiche, al vivere nuove esperienze, nuove conquiste (come prendere la patente!). E, soprattutto, l’adolescenza è un tempo forte perché iniziamo a decidere noi chi vogliamo essere. Si vive tutto intensamente e avvertiamo una sana nostalgia di futuro.
‘Che farò della mia vita?’ Ogni adolescente si pone questa domanda. E’ un tempo bello, ricco di emozioni, ma anche critico: può spaventare lasciare l’infanzia alle spalle. E quanti punti interrogativi si affacciano nella nostra mente in quella fase della vita! Per questo è necessario avere adulti validi a fianco. Scrivo libri per offrire strumenti che possano aiutare a riflettere, a decidere, a orientare la vita dei giovanissimi”.
Per quale motivo si assiste ad un’eccessiva aggressività nei giovani?
“I giovani spesso sono aggressivi come reazione. Penso ai ragazzini inquieti che conosco. Spesso hanno delle ferite nella loro anima, un vuoto non colmato, dei bisogni inascoltati. A volte, invece, si è aggressivi per emulazione o per dimostrazione di forza. Magari ci si lascia trascinare dal gruppo. Anche in questo caso, però, dietro ci sono delle fragilità. Se c’è bisogno di farsi valere con la violenza è perché non si è imparata la tenerezza.
Proprio ieri pensavo che l’aggressività nasce, spesso, come risposta alla malattia più grave che si possa vivere nella vita: quella di sentirsi poco amati, poco accettati, messi sotto giudizio, invece che guardati con carità e interesse autentico. I giovani devono sapere di essere amati: parte tutto da lì!
Inoltre, occorre valorizzare ciò che essi hanno da offrire al mondo. Non c’è niente di peggio che credere che il mondo possa fare a meno di noi.
Ed allora, per indirizzare le tante energie dei giovani verso il bene occorre far capire loro che sono essenziali per la comunità, che hanno tanto da dare, impegnarli concretamente in qualcosa di utile, di sano. Come diceva san Giovanni Bosco, occorre impegnare i giovani nel bene, prima che sia il diavolo a sottrarli dalla noia”.
Come si possono creare ‘buone relazioni’?
“Il primo passo per relazionarsi bene con gli altri è avere autostima. Tante volte si creano relazioni malate e disfunzionali perché ciascuno cerca attraverso l’altro di non pensare al vuoto che lo attanaglia… Per volere bene bisogna prima volersi bene. Inoltre, è importante tenere fuori dalle relazioni l’utilitarismo. ‘Sto con te perché mi servi’, ‘Sto con te perché non trovo di meglio’. Non c’è solitudine più grande di quella che si crea in relazioni segnate da questo egoismo”.
Ad un certo punto la protagonista, nella disperazione, prega: la preghiera potrebbe essere una ‘soluzione’?
“La preghiera è sempre una soluzione. Non significa delegare a Dio quello che spetta a noi. La preghiera non è magia, che risolve le cose al posto nostro. Pregare, per me, significa chiedere di essere trasformata dall’interno per vivere la vita con più amore, con più saggezza. Respirare fa bene al corpo quanto la preghiera fa bene all’anima. Abbiamo bisogno che Dio sia in mezzo alle vicende che viviamo, per dare senso e sapore a tutto”.
(Tratto da Aci Stampa)
A Napoli il sangue di san Gennaro: la fragilità rende migliori
Ieri a Napoli si è ripetuto il miracolo del sangue di san Gennaro, come ha annunciato l’arcivescovo di Napoli, mons. Domenico Battaglia, prima della celebrazione eucaristica nel duomo con il sangue nell’ampolla, portata a spalla dai seminaristi fino all’altare maggiore della cattedrale, ricordando che il patrono di Napoli non ha scelto la morte: “Oggi è la memoria del suo ‘dies natalis’, del giorno del suo martirio, della sua morte non subita ma scelta come conseguenza della fedeltà al Vangelo, scelta per amore ad un Amore che è più forte della morte, della violenza, di ogni potere!”
Il sangue di san Gennaro racconta l’Amore di Dio: “Questo sangue è segno del sangue di Cristo, della sua Pasqua ma al contempo è un appello a tutti noi a rimboccarci le maniche per costruire insieme il sogno di Dio: perché questo sangue si mescola sempre con il sangue dei poveri, degli ultimi, con il sangue versato a causa della violenza, dell’incuria umana, del degrado sociale, come purtroppo è accaduto alle vittime del crollo di Scampia e a quelle dell’esplosione di Forcella!”
E’ stato un segno di vicinanza per chi soffre: “E permettetemi oggi di rivolgere il mio pensiero che si fa preghiera, a Chiara, ai suoi familiari ed amici, e a tutti coloro che sono nel dolore per questa morte assurda e tragica: la Chiesa di Napoli vi è vi vicina! Questa vicinanza al dolore di chi soffre è necessaria oggi più che mai perché non possiamo guardare al sangue del nostro Patrono senza guardare al sangue della gente, al sangue di chi è nel dolore, al sangue dei poveri, al sangue degli ultimi: sarebbe un’ipocrisia imperdonabile! Non dobbiamo preoccuparci se il sangue di questa reliquia non si liquefa ma dobbiamo preoccuparci se a scorrere tra le nostre strade e nel nostro mondo è il sangue dei diseredati, degli emarginati, degli ultimi!”
Il sangue di san Gennaro è una sfida per i cittadini di oggi: “Il Vescovo Gennaro anche quest’oggi ricorda a ciascuno di noi che nel Vangelo di Gesù vi è la bussola necessaria a vivere, a vivere pienamente, affrontando a testa alta e con coraggio le sfide che ogni tempo reca con sé, sfide che interpellano la nostra umanità, il nostro essere credenti, la vita della nostra città e dell’intera comunità umana”.
Ed ha elencato alcune sfide a cui i cittadini sono chiamati: “Penso alla sfida della pace, che chiede di essere costruita prima ancora che invocata, attraverso il nostro modo di relazionarci quotidianamente a chi incontriamo, attraverso le scelte politiche, economiche, etiche che siamo chiamati a fare sia ogni giorno nel nostro piccolo che nei momenti importanti della vita democratica e sociale.
Penso alla sfida della solidarietà, che diventa sempre più necessaria in un tempo in cui la cultura dello scarto sembra avere la meglio, mettendo da parte ciò che non produce, o che si ritiene inutile ai fini dell’efficienza consumistica! Penso alla sfida che ogni giorno il mondo e anche la nostra città lancia alla Chiesa, chiedendole ragione della propria speranza, invitandola a non essere profeta di sventura ma piuttosto sorgente di senso e di significato, quel senso e quel significato che per noi ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, che siamo chiamati ad annunciare a tutti anzitutto attraverso la testimonianza della nostra vita personale e comunitaria!”
Anche san Gennaro è stato chiamato a tali sfide: “Fratelli e sorelle, penso che anche il martire Gennaro si è trovato in questa situazione. Vivendo un’epoca di grandi cambiamenti e mutamenti sociali, politici, etici. E la sua fiducia nel Signore lo ha spinto a non tirarsi indietro, a non nascondersi ma a portare il conforto dell’amicizia e della fede ai suoi amici imprigionati, mettendo a repentaglio la propria vita nella consapevolezza che solo una vita spesa fino alla fine per amore e nell’amore è degna di essere vissuta! Perché l’amore riesce a discernere ciò che davvero conta nella vita e ciò che davvero conta è anche ciò da cui bisogna ripartire per costruire insieme un futuro diverso, più umano, più pacifico e giusto”.
E’ stato un invito ad accogliere la Parola di Dio: “Le nostre ferite, vissute con fede, possono diventare feritoie da cui entra la luce di Dio, trasformandoci e rendendoci capaci di contagiare con la speranza coloro che incontriamo! E questo vale anche per le ferite della nostra città: spesso guardiamo ad alcune emergenze e alle problematiche sociali solo come problemi da risolvere dimenticando che possono segnare l’inizio di nuove traiettorie di giustizia e di pace per la nostra comunità. Pensiamo all’emergenza educativa o a quella abitativa: certamente sono problemi urgenti che richiedono risposte immediate e lungimiranti ma al contempo sono un invito a far luce su un futuro diverso possibile, capace di segnare un cambio di passo per la Napoli che verrà!”
Ma ciò avviene con la cooperazione: “Per far questo occorre, ad ogni livello, avere il coraggio di superare la logica della competizione ad oltranza per abbracciare quella della cooperazione. E cooperare implica il tenersi per mano, lo stare l’uno accanto all’altro, superando le contrapposizioni personali inutili, il lessico violento, la calunnia gratuita, l’offesa come stile comunicativo”.
Questa la sfida del perdono: “Il perdono non è soltanto uno dei più grandi insegnamenti e inviti di Gesù ma è un tassello fondamentale della convivenza, a tutti i livelli. Non è facile perdonare, lo sappiamo bene ma è proprio nel perdono che troviamo la vera libertà, la pace del cuore, la capacità di andare oltre il male subito e di aprirci a un futuro nuovo in cui il fratello e la sorella non sono combattuti come nemici ma accolti come compagni di viaggio, anche e soprattutto se sono portatori e portatrici di idee e pensieri diversi dal mio!”
Per questo la fragilità non è debolezza: “La fragilità non è mai una sconfitta, ma un’opportunità per aprire il nostro cuore all’azione di Dio, per permettere alla sua grazia di entrare e trasformare le nostre vite. E’ la fragilità che ci rende più umani, e, allo stesso tempo, più capaci di comprendere e amare gli altri, fino a ‘sacrificare tutto in nome dell’amore’…
Un amore che non conosce limiti, che è disposto a dare tutto, anche la vita, per il bene degli altri, un amore che non è solo un sentimento, ma un impegno concreto, una scelta di vita. Gennaro ci invita a vivere un amore che non si accontenta di mezze misure, ma che va fino in fondo, fino alla croce, sapendo che si tratta sempre e comunque di una ‘collocazione provvisoria’, perché la notte del calvario non è eterna e dovrà ritrarsi alle prime luci dell’alba pasquale!”
E’ stato un appello alla ‘ripartenza’: “Napoli, mia amata città, ricorda sempre di custodire con tutto te stessa e ripartire ogni giorno dalle poche cose che contano e che reggono ogni giorno la tua speranza e la tua fiducia!
Riparti dall’esperienza di chi fa della cura la sua scelta di vita, evitando di girarsi dall’altra parte, rispondendo all’appello che il volto dell’altro esprime, sia esso quello di un familiare, di un amico, di un bambino di strada o di un migrante.
Riparti da una politica che diventa davvero scelta d’amore per il bene comune quando si diventa capaci di stringere la mano all’avversario e fare con lui un pezzo di strada pur conquistare un ulteriore pezzo di umanità e solidarietà per chi rischia di restare indietro.
Riparti dalla solidarietà autentica, dal riconoscimento spontaneo della fraternità innata che lega gli agli altri e che da sempre è decantata nel mondo come la tua perla preziosa, il tuo tesoro più grande: non dimenticare mai la potenza di una mano tesa, la forza guaritrice di un sorriso accogliente, la grandezza dello schierarsi per chi ha bisogno, senza chiedergli nessun patentino se non quello del suo essere figlio di questa umanità!
Napoli, conserva l’entusiasmo di lottare per una città più giusta e pacifica, in cui il malaffare, a qualsiasi livello, possa cedere il posto ad una cultura del bene. E in questo tragitto non sentirti mai sola ma avverti la compagnia umile della chiesa di Cristo, di questa barca che a volte sembra far acqua da tutte le parti ma che non teme perché nella sua stiva contiene un vaso di creta che custodisce il tesoro prezioso del Vangelo, tesoro che desidera condividere con tutti, senza alcuna distinzione.
E tu, beato Gennaro, non abbandonarci mai e che il segno del tuo sangue ravvivi sempre in noi il desiderio di realizzare per la nostra terra e per l’intero mondo il sogno di Dio!”
(Foto: arcidiocesi di Napoli)
Da Benevento i vescovi chiedono attenzione per le aree interne
“Riuniti a Benevento, com’è ormai tradizione, ringraziamo anzitutto Dio per il dono dell’esperienza che ci ha dato di vivere, fatta di comunione e sinodalità concreta: l’amicizia, lo scambio sereno e fecondo, i momenti di distesa fraternità condivisi sono il valore aggiunto, la cifra peculiare di questa esperienza che porteremo con noi. Giorni nei quali abbiamo sentito risuonare le parole rivolte al profeta: O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele”.
Così inizia il messaggio conclusivo dell’incontro dei vescovi delle Aree interne riuniti a Benevento fino al 17 luglio, appuntamento che da 5 anni vede i vescovi delle zone interessate (quest’anno ben 30 da 14 regioni) confrontarsi sulle esigenze pastorali e sui risvolti sociali della Chiesa in zone in cui altre presenze istituzionali latitano, soprattutto per via dello spopolamento:
“Le Aree interne costituiscono la parte consistente e fragile di tutto il Paese (nord, centro, sud), pur custodendo esse potenzialità straordinarie. In un tempo in cui la distanza relazionale crea vere e proprie disconnessioni umane e lo spazio, quello verde soprattutto, va rarefacendosi, queste vaste porzioni di territorio, dotate di paesaggio e di un ricco patrimonio storico-artistico ed enogastronomico, dove le relazioni umane sono vissute in modo autentico, si rivelano infatti di una ricchezza sorprendente anche allo sguardo più distratto”.
Il messaggio è un invito alla politica ad un’azione, con la collaborazione dei ‘corpi intermedi’, ad elaborare un ‘piano’ di valorizzazione di tali aree: “E’ compito primario della politica, con il concorso dei corpi intermedi, elaborare un piano globale per valorizzare tale risorsa: è stato in tal senso importante l’incontro avuto con l’ANCI, nel quale abbiamo condiviso comuni obiettivi. Peraltro, trascurare la questione delle Aree interne, che attraversa per intero il Paese, da nord a sud, rischia di ledere i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e di allargare ulteriormente il fossato tra zone ricche e povere, fossato che in molte situazioni è vissuto già all’interno di una stessa Regione”.
Tale incontro nasce dal desiderio di una pastorale, che scaturisce dal battesimo: “Abbiamo in questi giorni riflettuto sul modo migliore per avviare una pastorale il più possibile idonea alle Aree interne, interrogandoci soprattutto sulla ministerialità che nasce dal battesimo; una ministerialità che coinvolge tutte le membra del Popolo di Dio e la molteplicità delle vocazioni, nella consapevolezza che non possiamo continuare a ripetere stereotipi ormai da tempo superati, ma aprirsi alla voce dello Spirito, che non fa tanto cose nuove, ma fa nuove tutte le cose”.
E’ un invito a superare il campanilismo: “E’ necessario, perciò, superare l’ottica ristretta del campanile, per aprirci a forme nuove, capaci di valorizzare al meglio le risorse a nostra disposizione. Esprimiamo viva e sincera gratitudine ai sacerdoti e agli operatori pastorali che con generosità lavorano nei territori interni affrontando non poche difficoltà: anche la formazione nei seminari dovrà tener conto di queste problematiche”.
L’impegno della Chiesa è quello di non abbandonare i territori, come ha ribadito in apertura dell’incontro il presidente della Cei, card. Matteo Zuppi: “Le aree interne del Nord e del Sud sono accomunate dalle stesse difficoltà con qualche variante in negativo per il Mezzogiorno, dove ci sono ulteriori mancanze di strutture e opportunità. Se non ci sono possibilità, infrastrutture, collegamenti, si vanno a cercare altrove. Ma tutte le comunità, anche le più piccole, sono importanti. Il grande vantaggio delle aree interne è che spesso c’è più comunità che altrove, luoghi dove i legami si rinsaldano e ci si ritrova”.
Al Forum di Benevento è intervenuto anche il vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla, presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, che ha sottolineato alcuni problemi delle aree interne: “Uno dei problemi più gravi ed incidenti sulle aree interne è lo spopolamento dei territori e la mobilità, lavorativa e non solo, delle persone. Inoltre, tali aree del paese sono anche zone a ‘geometria variabile’, da cui si fugge per lavorare, viaggiare, divertirsi, ma a cui si ritorna per riposare, ristorarsi e ritrovare le radici”.
Mentre a conclusione dell’incontro il segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari, ha avanzato alcune proposte: “Sulla scia dei documenti elaborati dalla CEI sul mondo rurale, sarebbe interessante declinare tutto il patrimonio di questi anni in un testo, che deriverebbe dall’esperienza vissuta di alcuni Vescovi, da consegnare a tutti”.
Guardando all’imminente futuro, mons. Baturi ha ritenuto opportuno “un discernimento, una lettura dei fenomeni storici che riguardano le aree interne ed un’attenzione specifica all’uso di alcune categorie normative… A noi interessano i problemi di una marginalità della popolazione, del costituirsi di comunità, della modificazione dei ritmi di lavoro e dell’ambiente naturale”.
(Foto: Cei)
La Corte Costituzionale: non esiste un diritto alla morte
La decisione della Corte Costituzionale n. 135 della scorsa settimana in tema di suicidio assistito ribadisce quanto già affermato nel 2019 con la sentenza n. 242 e, in questo senso, per quanto la sentenza n. 242 fosse per certi aspetti discutibile, ribadisce che i più fragili vanno comunque tutelati anche rispetto ai possibili abusi e strumentalizzazioni, primo tra i quali la spinta sociale a sentirsi un peso per gli altri con la conseguenza di indurre a optare per la richiesta di morire, come ha sottolineato la presidente del Movimento per la Vita, prof.ssa Marina Casini:
“Fondamentale dunque l’importanza delle cure palliative da assicurare a tutti senza eccezioni. Sono questi i due aspetti, protezione dei fragili e cure palliative, su cui bisogna lavorare molto a livello culturale, operativo e legislativo”.
Al legislatore spetta, quindi, il compito di mettere mano alla materia in maniera assolutamente coerente con i quattro paletti indicati dalla Corte Costituzionale, senza allentamenti, allargamenti, smagliature, scappatoie, inganni semantici, ambiguità, ha specificato Marina Casini: “Deve restare chiaro che le persone colpite dalla malattia e dalla disabilità sono persone da proteggere, che l’ordinamento giuridico non si piega a logiche di morte, che l’assistenza al suicidio deve restare una eccezione circoscritta in presenza dei cinque requisiti, i quattro più il quinto che riguarda le cure palliative, rigorosamente circoscritti, interpretati e intesi”.
Per la presidente del Movimento per la Vita occorre evitare la situazione creatasi con la legge sull’aborto: “Bisogna evitare di ripetere quanto accaduto con la legge sull’aborto, anch’essa preceduta da una sentenza costituzionale, la n. 25 del 1975: la Legge 194 nella disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza nei primi tre mesi di gravidanza è andata ben oltre i criteri stabiliti dalla Corte Costituzionale. “Al di là dell’aspetto legislativo va assolutamente dato spazio e promozione a un’autentica cultura della vita affinché ogni persona si senta, e sappia di esserlo davvero, accolta e amata”.
Sulla decisione della Corte Costituzionale è intervenuti anche il prof. Alberto Gambino, presidente Centro studi ‘Scienza&Vita’, componente Comitato nazionale per la bioetica:“Per la Corte costituzionale non c’è un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza. Si tratta di un’affermazione importante. Il suicidio assistito resta un’eccezione e, dunque, non si realizza alcuna disparità di trattamento tra pazienti che dipendono da trattamenti di sostegno vitale e pazienti che non vi dipendano”.
Ed ha affermato la ‘oggettività’ della sentenza: “Anzi la Corte ritiene, giustamente, che il requisito ‘oggettivo’ dell’essere sottoposti ad un presidio sanitario eviti che si finisca per creare una ‘pressione sociale indiretta’ su persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali (sono parole della Corte) ‘potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte’.
La via italiana, secondo la Corte, è dunque legittima e corrisponde a quanto già recentemente ha ritenuto anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte sembra però sposare una posizione per la quale il sostegno vitale non coincide necessariamente con una completa sostituzione di funzioni vitali ma possa esserlo anche il trattamento che si riveli in concreto necessario ‘ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.
Infatti, intervenendo sui confini di non punibilità dell’aiuto al suicidio, la Corte costituzionale ha ribadito un punto fermo della sua giurisprudenza recente in materia: non esiste né è invocabile un ‘diritto di morire’ nel nostro ordinamento, al centro del quale c’è invece la ‘tutela della vita umana’, un bene che ‘si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona’, come ricorda l’articolo 2 della Costituzione Italiana.
Anche il prof. Marco Ronco, presidente del Centro Studi Livatino, docente universitario emerito di Diritto penale e vicepresidente del Comitato nazionale per la Bioetica, ha ritenuto fondamentale la sentenza della Corte Costituzionale: “La Corte Costituzionale, con sentenza n. 135/2024, impone un chiaro stop alle istanze di estensione dei casi di non punibilità dell’aiuto al suicidio…
La sentenza ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, che punisce chi aiuta un’altra persona a togliersi la vita. Di conseguenza non ha creato nessuna nuova estensione, rispetto a quelle riconosciute con le pronunce del 2018 e 2019, del diritto di accedere al suicidio assistito. Per questo, sono piuttosto soddisfatto”.
Ed ha sottolineato che non esiste nella legislazione il ‘diritto’ a morire: “Appare di assoluto rilievo che la Corte abbia evidenziato, con tanta chiarezza, il rischio della ‘pressione sociale indiretta’ che una legislazione sul suicidio assistito si presta a generare, rischio già più volte posto in evidenza dal Centro Studi Livatino.
Sotto altro profilo la Corte, nel ribadire che non esiste un ‘diritto a morire’, ha richiamato (par. 7.3.) l’attenzione sul fatto che, ‘dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga’. Sicché, come sottolineato anche da vari amici curiae (fra cui il Centro Studi Livatino), certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, ‘non degna’ di essere vissuta”.
Tale sentenza non contrasta la giurisprudenza fin qui espressa: “La sentenza si pone, dunque, in continuità con la giurisprudenza precedente, nulla concedendo alle istanze di (ulteriori) balzi perorate dall’ordinanza di rimessione e, anzi, per alcuni profili mostrando sviluppi argomentativi di particolare pregio. Ciò non significa, naturalmente, che la stessa giurisprudenza precedente, cui la Corte si conforma, andasse esente da critiche.
Come ricordato anche di recente dalla CEDU, infatti, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non impone di escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio neppure nei casi in cui la Corte Costituzionale Italiana aveva ritenuto, invece, nel 2019, che la punizione dell’aiuto al suicidio fosse da considerarsi contraria a Costituzione”.
Luca Doria: essere prossimi ai giovani per educare alla realtà
‘E’ una vicenda dolorosa e una brutta pagina per le istituzioni, ma vanno assicurati il controllo della legalità e il rispetto della legge’: queste sono state le parole pronunciate dal procuratore di Milano, Marcello Viola, nella conferenza stampa convocata per illustrare l’operazione che un mese fa aveva portato all’arresto di 13 agenti di polizia penitenziaria, e alla sospensione di altri 8 agenti, per le torture e le violenze inflitte ai detenuti del carcere minorile ‘Beccaria’ di Milano.
Inoltre il procuratore aggiunto di Milano, Letizia Mannella, aveva aggiunto: “Ciò che ci ha colpito sin dal primo momento è il metodo di queste persone deviate dal sistema, che picchiavano i ragazzi con un metodo tale da non lasciare il segno ed i ragazzi si davano pizzicotti per lasciare sulle botte ricevute i lividi”.
Ed a due mesi dalla ‘scoperta’delle violenze nel carcere minorile ‘Beccaria’ la discussione sul metodo educativo non si è fermata; così abbiamo intervistato Luca Doria, presidente del Consiglio di Amministrazione della Cooperativa sociale ‘Sangiorgio sociale’, fondata nello scorso anno nel comune di Porto Sant’Elpidio ed ispirata “da un bisogno di risposta a tutti quei giovani che cercano la loro strada nel cammino della vita, e a quelli che nel loro cammino sono inciampati. E’ stata fondata per un bisogno di educazione, presenza e azione di fronte al disagio minorile, alla dispersione scolastica, alla povertà educativa, alla necessità di concentrazione sul presente che permetta una rilettura del passato e possa proiettare adeguatamente nel futuro. Puntiamo ad essere una palestra per allenare alla vita”.
Dopo le vicende al carcere per minori ‘Beccaria’ cosa resta a chi è in contatto con i giovani?
“Resta dolore ed amarezza innanzitutto. Non ci si deve fermare però di fronte a questo. Bisogna condannare chi non riesce a fermare la propria aggressività di fronte a situazioni di tensione o alle provocazioni, soprattutto chi dovrebbe essere addestrato a questo. Bisogna anche condannare la carenza educativa che oggi abbiamo di fronte.
L’educazione dovrebbe partire dalla prima agenzia che è la famiglia. Le famiglie di oggi però (come quelle di ieri) sono sempre più fragili e spesso falliscono il loro ruolo per svariati motivi, come ad esempio: prendere poco sul serio il ruolo di genitori, poche risorse a disposizione per ‘formare’ genitori, la mancata autorevolezza (del padre ma anche della madre), la fragilità di chi diventa genitore, lo spostarsi in avanti dell’età in cui si diventa genitore (31,6 anni secondo il report Istat di ottobre dello scorso anno) che influisce sulle forze e quindi sulla possibilità di affrontare la crescita dei figli.
Ci sono anche le altre agenzie educative, la principale tra queste è la scuola. A scuola gli insegnanti sono quelli più a contatto con i giovani, tutti i giorni. Alla scuola non era solo deputata la funzione istruttiva ma anche e soprattutto quella educativa. La differenza non è affatto sottile, oggi però troviamo adulti insegnanti che sempre più spesso hanno timore di svolgere la funzione educativa”.
E’ difficile dialogare con i giovani?
“Credo che il tema non sia la difficoltà ma il coraggio. Servono coraggio ed energia per dialogare con i giovani, serve non avere timore, serve essere adulti credibili, seri, affidabili, adulti che non hanno paura di sottrarsi ai drammi della vita. Di fronte ai drammi l’uomo ha la tendenza a fuggire: i giovani chiedono la presenza e non le parole. Serve essere sintonizzati con i giovani, essere empatici. Se si vuole dialogare con i giovani bisogna prepararsi, ed essere consapevoli della propria preparazione”.
Esistono ragazzi ‘difficili’?
“Esistono ragazzi che chiedono una presenza. Spesso l’adulto non riesce a riconoscere il confine che il giovane chiede. E chi lo riconosce spesso tende a non mostrarlo per ‘evitare’ di discutere. In questo modo però l’adulto rimanda la discussione; ciò che non affrontiamo non si esaurisce infatti”.
E’ possibile educare senza la paura?
“La paura fa parte di noi. La paura ci salva da situazioni difficili, quando il nostro cervello fatica a decodificare le situazioni si mette in modalità ‘pericolo’ e prepara tutti i sensi, si ferma, cerca di capire per agire e per sopravvivere. Educare però risulta difficile con la paura. Si confonde la paura con l’autorevolezza che l’adulto deve avere, deve possedere, deve esercitare ed imparare: è l’autorevolezza che fa passare il concetto di autorità”.
Come si educano i giovani alla realtà?
“Ai giovani servono testimoni concreti che sappiano affrontare la vita, anche nelle sue pieghe più oscure. Solo testimoniando si riesce a far passare un messaggio. Se si testimonia che di fronte alle situazioni più difficili l’adulto le affronta, allora il giovane saprà che la vita si può mordere, il giovane saprà che non si deve avere paura ma solo la consapevolezza che non serve fuggire”.
Perché una comunità educativa per minori?
“La comunità educativa per minori è il luogo nel quale la socializzazione fra pari ha la sua massima espressione. Si impara ad essere prossimi, si impara il decoro per se stessi e per gli altri, ci si impara ad aiutarsi, ci si osserva tutti i giorni. E’ un’esperienza diversa dalla famiglia, per certi versi può anche essere persino più accogliente e più attenta.
La differenza la fanno come sempre le persone ed il luogo: adulti affidabili e senza paura, testimoni saldi e concreti, poche parole e molta azione, adulti che sanno di educare facendo; il luogo deve trasmettere calore e decoro, si impara la pulizia, l’ordine ed il gusto per le cose belle. La comunità spesso salva. Ecco perché la comunità”.
(Foto: SanGiorgio Sociale)
Donne di Rita: Virginia Campanile racconta il perdono dalla morte di un figlio
A Cascia nella festa di santa Rita tre donne riceveranno il riconoscimento del premio internazionale ‘Donne di Rita’: Cristina Fazzi, che da medico nello Zambia cura i bambini che sono gli ultimi della società; Virginia Campanile, che ha perso suo figlio ma è mamma per tanti genitori e ragazzi in difficoltà, e Anna Jabbour, profuga siriana che per sua figlia ha attraversato la guerra divenendo testimone di pace. ‘Donne di Rita’, sono chiamate le donne scelte per il prestigioso Riconoscimento Internazionale Santa Rita, che dal 1988 premia donne che come Rita da Cascia sanno incarnare i valori su cui si fonda il presente, che lunedì 20 maggio alle ore 10.00 nella Sala della Pace del Santuario di Santa Rita a Cascia hanno condiviso le loro testimonianze; mentre martedì 21 maggio alle ore 17.30 nella Basilica, ricevono il Riconoscimento:
Cristina Fazzi, medico di Enna (Sicilia), che riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 per il rispetto, la giustizia e l’amore con cui nei suoi 24 anni di servizio, professionale e umano, nello Zambia, in Africa, ha protetto la vita e costruito il futuro di tante persone nelle aree di estrema povertà, con un’attenzione speciale ai bambini e ai giovani, in una società dove sono ultimi tra gli ultimi, spesso abusati e maltrattati: ha creato il primo centro di salute mentale del Paese per i minori e progetti formativi, per generare opportunità di cambiamento e realizzazione;
Anna Jabbour, nata ad Aleppo (Siria) ma oggi vive a Roma, riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 per la testimonianza di pace, fratellanza e fede che incarna con la sua storia, da profuga di guerra a mamma di speranza e coraggio per sua figlia e allo stesso tempo per tutti coloro che incontra, non avendo mai perduto il forte desiderio di sognare e impegnarsi per un futuro di umanità e unione che possa cancellare ogni odio e sofferenza;
Virginia Campanile vive a Otranto (Lecce) e riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 perché dal dolore indescrivibile per la perdita del figlio Daniele e dalla libertà e pace acquisite grazie al perdono offerto a chi ne ha causato la morte in un incidente stradale, ha fatto nascere un ‘investimento d’amore’ che condivide con gli altri: ascoltando e aiutando tanti genitori toccati dal lutto a ritornare a vivere e impegnandosi coi giovani per tutelarli nella fragilità sociale e psicologica, accompagnandoli a riscoprire la bellezza della vita, che così si presenta:
“Mi presento: sono Virginia Campanile, vivo da sempre ad Otranto (LE), Via S. Francesco 70. Sono nata a Bari il 25 Marzo 1950. Ho frequentato il Liceo Artistico e Accademia di Belle Arti di Lecce. Il mio impegno da sempre nel sociale; ho insegnato e creato una cooperativa di tessitura (Terra d’Otranto) con mostre annuali nel Castello Aragonese di Otranto. Il mio lavoro definitivo, la mia gioielleria (Oro Daniel) ad Otranto.
Tutto crolla quando il 15 Giugno del 1998, per un incidente stradale viene a mancare mio figlio Daniele di 22 anni, ricorreva la festa del Sacro Cuore a cui io sono fermamente devota. La mia mamma, dopo la triste notizia, dopo poco minuti anche lei vola in cielo insieme a mio figlio”.
Cosa significa credere in Dio dopo la perdita di un figlio?
“Qui inizia un cammino faticoso, indescrivibile, non ci sono parole per descrivere questo dolore. Da subito, il mio unico pensiero, trovare altre mamme come me. Prendo consapevolezza e conoscenza che queste, restano chiuse in casa, come fosse una colpa perdere un figlio. Il mio pensiero fisso e costante, trasformare questo dolore della perdita in un investimento nel sociale. Inizio il mio cammino a piccoli passi, bussando alla porta di madri come me. Nell’immediatezza sono consapevole di aver trovato la strada giusta: condivisione. Riunisco madri che si erano ammalate dal dolore. Inizio a formare il primo gruppo, dopo poco tempo, altri gruppi dei paesi vicini si uniscono”.
Perchè ha fondato l’associazione ‘Figli in Paradiso. Ali tra cielo e terra’?
“Da più parti mi veniva consigliato di lasciar perdere, ma con l’aiuto dell’amore per mio figlio e dei tanti ragazzi, di cui ogni giorno venivo a conoscenza, il desiderio di continuare diveniva sempre più forte. Fondo un Associazione ‘Figli in Paradiso, ali tra cielo e terra ODV’, con sede legale ad Otranto in Via S. Francesco 70, ricoprendo, fino ad oggi, il ruolo di fondatrice, presidente e promotrice.
La mia famiglia da sempre devotissima a sant’Antonio da Padova, santa Rita da Cascia, san Pio da Pietralcina, ricordando che da piccola, quando mia madre raccomandava mio padre all’arrivo della pensione o stipendio bisognava, prima di tutto, fare il bollettino a Sant’Antonio e a Santa Rita, che puntualmente arrivavano. La devozione, nel tempo, è rimasta immutata per questa Santa dei casi impossibili, madre, moglie con tanta sofferenza”.
In quale modo la fede trasforma il dolore?
“Intanto, col pensiero di portare avanti l’associazione ‘Figli in Paradiso’, inizio pian piano, ad allontanarmi dalla mia bella gioielleria e nel 2007 chiudo il mio amato negozio per dedicarmi a tempo pieno ad altri genitori. Ogni giorno un paese, ogni giorno un gruppo di genitori, ogni giorno una celebrazione eucaristica per i nostri ragazzi. Ogni giorno l’ascolto per poter plasmare la rabbia, il rancore, l’odio, la vendetta. Come unico scopo principale, aiutare le famiglie a non restare isolate, recluse, ma ‘ritornare a vivere da vivi’.
Da questo dolore trarre le opportunità positive, quale l’elaborazione del dolore, in un mondo che ci costringe a correre e ci allontana dai tempi dell’elaborazione. Il dolore se raccontato e condiviso ci rende liberi dalle tante maschere che siamo costretti ad indossare. La condivisione è un potente strumento per rigenerare le relazioni. Io volevo dare voce al mio dolore, ascoltandolo.
Da qui ho iniziato il percorso del perdono, ispirandomi a santa Rita, decidendo di andare ad incontrare lei, l’assassina, causa della perdita di mio figlio, e riconciliarmi; è stato un percorso duro, facendomi accompagnare con la preghiera e con il costante dialogo con Dio. Ci sono riuscita. Ho perdonato la mia assassina, faticoso cammino. La parola perdono l’ho trasformata in ‘per-dono’; perdonarsi in ‘per-donarsi’; perdonare in ‘per-donare’ al fratello come me. Alla fine del percorso perdono – riconciliazione, sono diventata una persona libera”.
Lei ha scritto un libro intitolato ‘Tu vivi in me’: come è possibile?
“Da persona libera, è la fede che mi accompagna e mi sostiene, rendendomi forte in questo percorso. Potevo sperare in tutto, tranne nel totale cambiamento di mio marito, il quale, da tanta indifferenza mostrata negli anni, adesso mi accompagna ovunque, parlando di nostro figlio con amore e serenità. Anche mio figlio Luigi, pian piano, ha faticosamente elaborato il dolore, e con la mia grande gioia, ora lo vedo più sereno, convinto di non aver perso un fratello, perché la sua presenza aleggia in casa, nell’Associazione oltre che nel cuore.
E’ vero, la maggior parte delle famiglie, dopo la perdita di un figlio, di un fratello si frantuma, la nostra no. Temevo che non avrei mai potuto parlare con Luigi dell’accaduto di suo fratello Daniel, invece, come per incanto, ne parlavamo spesso; ancora oggi, lontano da casa per lavoro, mi telefona, contento di sentirmi lontano da casa per l’impegno dell’associazione. Io li chiamo i piccoli miracoli di famiglia”.
In quale modo un lutto può trasformarsi in dono di Dio?
“Tutto questo è dono di Dio, e, perché no, anche certamente dell’aiuto celeste di Daniel. Mai mi sono sentita abbandonata; la mia fede, suffragata dalla partecipazione all’Eucarestia mensile, con le altre famiglie, genera tanti genitori, facendoli diventare guaritori feriti, favorendo l’impegno, nelle proprie parrocchie, come catechista, come volontario, come sostegno e aiuto verso gli anziani e malati, trasformando così il dolore indicibile in speranza, serenità dell’anima, convinta e convinti che con la fede si può tutto”.
Perchè condividere il dolore con altri genitori?
“Pur lavorando ancora nel settore turistico, con la collaborazione della mia famiglia, offro l’opportunità, gratuitamente, nei periodi di fermo, a genitori che vengono da lontano, di essere ospitati nel mio residence, così da poter seguire la formazione dei gruppi A.M.A. (auto-muto-aiuto), strumento riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per il recupero della persona, facilitando l’elaborazione del dolore per la perdita di un figlio, per incidente stradale, malattia, suicidio, omicidio, depressione, mal di vivere, femminicidio e bullismo.
Un percorso iniziato nell’anno 1999, presente, oggi, in Italia centrale e meridionale (Umbria, Basilicata, Campania, Calabria, comprese le isole di Ischia, Sardegna, Sicilia, e tra breve anche in Toscana e Piemonte). In questi percorsi, per grazia di Dio, abbiamo accanto professionisti competenti, come il camilliano p. Arnaldo Pangrazzi, dottor Antonio Loperfido suicidologo, dottor Enrico Cazzaniga psicoterapeuta, sempre presenti nei convegni nazionali e regionali. Con questa organizzazione cerchiamo di gestire un numero notevole di gruppi (120) sparsi nelle Regioni con la richiesta di nuove aperture”.
In conclusione, quali sono le attività che l’associazione svolge?
“Attualmente dirigiamo una scuola Materna, Ecole des Angels-a Makua nel Congo francese, inaugurata nel 2022 con la mia presenza in loco. Dal 2012 organizziamo Convegni Nazionali ad Assisi (Domus Pacis). Annualmente organizziamo sei Convegni Regionali.
Dal 2010 sono nel direttivo del coordinamento nazionale A.M.A. e nel direttivo del CSVS Brindisi-Lecce, organizzando nelle scuole di secondo grado con i ragazzi, dai 15 ai 18 anni, convegni di prevenzione al suicidio, con il tema ‘Protagonista del tuo futuro’; ed, infine, nel direttivo nazionale della pastorale della salute A.I.P.A.S. (Associazione Italiana di Pastorale Sanitaria).
Attualmente sono anche presidente, nella cattedrale di Otranto, del Consiglio Pastorale, presidente dell’Apostolato della Preghiera; inoltre collaboro con il parroco nella preparazione dei genitori per il Battesimo dei loro figli e sono ministro straordinario della Comunione. Infine portiamo avanti l’iniziativa del 5xmille a favore del reparto pediatrico dell’ospedale Vito-Fazzi di Lecce”.
(Tratto da Aci Stampa)
I buoni e i cattivi delle rivoluzioni
‘Arrivano i buoni. Arrivano, arrivano’: il Niger ha vissuto il suo primo putsch nel 1974. Fu organizzato da un quartetto di ufficiali guidati dal tenente colonnello Seyni Kountché il quale giustificò la sua presa di potere con le difficoltà sociali evidenziate dalla carestia … ‘Dopo15 anni di regno segnati da ingiustizia, corruzione, egoismo e indifferenza nei confronti del popolo al quale pretendeva di assicurare benessere, non possiamo più tollerare la permanenza di questa oligarchia’. Ci troviamo nello stesso anno nel quale Edoardo Bennato lanciava una canzone il cui testo inizia come enunciato sopra e continua come segue: ‘Finalmente hanno capito che qualcosa qui non va. Arrivano i buoni e dicono basta a tutte le ingiustizie che finora hanno afflitto l’umanità’.
L’ultimo (per ora?) della serie dei putsch è stato giustificato dal discorso dal presidente della transizione, il generale Abdourahamane Tiani, all’occasione degli auguri per la festa dell’indipendenza nel passato mese di agosto…’. E’ questa la sede per ribadire con estrema chiarezza che l’unica ragione dell’azione del CNSP è e rimane la salvaguardia della nostra patria, il Niger… Semplicemente, sono in gioco le vite del popolo nigerino e l’esistenza stessa del Niger come Stato … vi sono i problemi ormai endemici della corruzione diffusa e dell’impunità, della cattiva gestione, dell’appropriazione indebita di fondi pubblici, del clanismo di parte, della radicalizzazione delle opinioni e delle posizioni politiche, della violazione dei diritti e delle libertà democratiche, della deviazione del quadro statale a vantaggio di interessi privati e stranieri, dell’impoverimento delle nostre popolazioni laboriose’… Stesse cose, cinquant’anni dopo.
‘Quanti sbagli, quanti errori. Quante guerre e distruzioni. Ma finalmente una nuova era comincerà’. La storia umana è una mescolanza di sabbia. Ivi si rincorrono imperi, regimi di eccezione, repubbliche, monarchie, dittature e rivoluzioni. Alcune più note e altre meno ma tutte con l’inconfessata speranza di un mondo differente, nuovo o semplicemente migliore del precedente. Solo che nella storia succede come nella vita perché nulla si crea e nulla si distrugge del vissuto. Si girano le pagine del libro le cui pagine sono scritte dalla sabbia, cancellabili e, proprio come la vita, fragili.
Troppe volte le promesse dei fautori di rivoluzioni non erano che colpevoli miraggi. Altre volte le legittime aspirazioni del popolo si trovano poi tradite dalla realtà del quotidiano. L’esperienza insegna infatti che bene e male, saggezza e follia, verità e menzogna si mescolano e confondono a seconda delle stagioni e dei rapporti di forza. Allora da uno stato di eccezione si passa alla normalità o. se vogliamo, è la banalità del male che anela ad un ulteriore putsch con altri giusti che, finalmente, metteranno i ‘cattivi’ in grado di non nuocere.
‘Arrivano i buoni ed hanno le idee chiare ed hanno già fatto un elenco di tutti i cattivi da eliminare’.
Le liste sono flessibili e sfuggevoli perché, anch’esse, di sabbia e dunque mutevoli. Non casualmente si celebrano processi sommari di delinquenti notori. Vengono istituiti spesso comitati di salute pubblica, di protezione della rivoluzione e si salveranno dal ripudio solo coloro che danno assicurazioni di trasparente onestà, gente con ‘le mani pulite’. Sono loro i prescelti per governare o comunque orientare e conservare lo spirito della rivoluzione. La giustizia mostra in tutta evidenza ciò che ci sia aspetta da lei e dunque l’asservimento volontario al potente di turno.
Spariscono cittadini, attivisti, corrotti e corruttori del sistema. Liste che si aggiornano in continuazione sotto la guida di gente ‘illuminata’ dallo spirito del tempo e dal senso della storia dei vincitori. Naturalmente questo processo di identificazione dei ‘cattivi’ si apparenta ad un cantiere permanente per vocazione e soprattutto domanda tempo, anni ed è ciò che si definisce come ‘rivoluzione permanente’. Tutto ciò durerà finche i nuovi padroni saranno, prima o poi, loro stessi vittime del loro tempo di transizione. Arriveranno altri buoni, migliori dei precedenti per completare il lavoro.
‘Così adesso i buoni hanno fatto una guerra. Contro i cattivi, però hanno assicurato che è l’ultima guerra che si farà. Finalmente una nuova era comincerà’. Difficile affermare se quelle che abbiamo finora designato col nome pomposo di ‘rivoluzioni’ lo sono state davvero. Oppure sono state le cronache di tradimenti annunciati fin dal loro germe sapendo che tra i mezzi adoperati e il fine perseguito c’è complicità e continuità inscindibile. Forse l’unica e autentica rivoluzione che meriti questo nome è quella che non sa di esserlo, consapevole della sua intrinseca e umana fragilità. La sola che si avvicini a questa utopia è quella che la sabbia, gelosamente, nasconde agli occhi dei ‘buoni’.
A Rondine torna YouTopic Fest con 40 incontri
‘Nel tempo accelerato, quale spazio alla fragilità e al dolore?’: è questo il titolo della settima edizione di YouTopic Fest 2023, il Festival internazionale sul conflitto che aprirà le porte della Cittadella, porte che saranno spalancate dalla Marcia della Pace la mattina dell’8 giugno, primo giorno della settima edizione, che quest’anno propone un nuovo format.