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Per le feste natalizie giovani ucraini ospiti della Caritas e del comitato del presepe vivente di Tricase
Santa Maria di Leuca attraverso la Caritas diocesana ed in collaborazione con il Comitato Presepe Vivente di Tricase sono impegnati, dal 22 dicembre 2024 al 7 gennaio 2025, ad accogliere 6 bambini e 2 accompagnatrici provenienti dalla città di Nikopol in Ucraina, a 4 chilometri dalla centrale nucleare Zaporizhzhia, zona sotto attacco giornalmente, per fargli trascorrere nella serenità le festività natalizie nel Capo di Leuca.
In sintonia con l’appello di papa Francesco, che nella messa finale della sua visita in Corsica, ha ricordato il triste vissuto dei bambini ucraini che, a causa del conflitto, hanno perso il sorriso sui loro volti e, come egli stesso ha affermato: “Tante volte vengono nelle udienze dei bambini ucraini. questi bambini non sorridono, hanno dimenticato il sorriso. Per favore, pensiamo a questi bambini, nelle terre di guerra, di dolore”.
Queste parole di Papa Francesco hanno profondamente colpito e, grazie al sostegno del Presepe Vivente di Tricase, è stata organizzata una vacanza per un piccolo gruppo di bambini della città di Nikopol, con l’auspicio di allietare la loro permanenza e di far loro ritornare il sorriso perduto.
L’iniziativa ha preso avvio domenica 22 dicembre a Tricase con la presentazione alla comunità dei ragazzi durante la S. Messa e l’accoglienza della Luce di Betlemme, presso la Chiesa nuova di S. Antonio da Padova. Al termine della celebrazione il presidente del Comitato del Presepe, Ing Andrea Morciano, ha consegnato al gruppo ucraino la chiave segno di ospitalità. Ogni giorno, i ragazzi, saranno coinvolti in varie attività sia nelle famiglie e sia negli oratori, quali tombolate, attività di oratorio, una giornata sulla neve, una giornata a Lecce, inoltre saranno coinvolti in alcuni presepi in modo particolare in quello di Tricase.
Si può leggere il programma visitando il sito: https://www.caritasugentoleuca.it/2024/12/18/insieme-e-piu-bello-christmas-edition. Il 7 gennaio rientreranno in Ucraina a Nikopol. Un grazie in modo particolare al Comitato del Presepe Vivente di Tricase che, insieme al CIHEAM, hanno accolto con gioia l’impegno di condividere l’accoglienza di questi bambini. Un grazie a tutte le comunità e alle famiglie che attraverso varie attività trascorreranno del tempo con i piccoli ospiti ucraini.
Con lo slogan ‘Doniamo un sorriso ai ragazzi di Nikopol’, la Caritas diocesana è convinta che saranno giorni in cui i ragazzi ucraini respireranno aria di pace e coglieranno messaggi di speranza su questa terra calpestata e amata dal messaggero di lieti messaggi, il venerabile don Tonino Bello.
Per non dimenticare i diritti umani
“Nella vita della comunità internazionale, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, rappresenta una tappa fondamentale, riconoscendo l’insopprimibile dignità della persona, principio che ispira la nostra Costituzione. Nonostante la sottoscrizione della Dichiarazione da parte degli Stati aderenti alle Nazioni Unite, i diritti umani continuano a essere minacciati e violati in diverse parti del mondo.
Violenze e abusi nei confronti delle donne, dei bambini e dei soggetti più fragili sono accadimenti quotidiani, soprattutto laddove sono in corso conflitti armati. In alcuni Paesi le più elementari libertà democratiche sono brutalmente ignorate, e perfino l’esercizio del voto (cardine di ogni democrazia) è vanificato.
In una congiuntura internazionale caratterizzata da crisi occorre ribadire la necessità della tutela dei diritti di ogni persona, in ogni circostanza. In occasione della Giornata che sottolinea la centralità dei diritti umani, la Repubblica riafferma il valore delle norme del diritto internazionale e del diritto internazionale umanitario, senza le quali è illusoria ogni prospettiva di pace duratura e di sviluppo dei popoli”.
In occasione della Giornata per i diritti umani il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha riconosciuto le continue violazioni di essi, ribadendo la necessità della tutela di ogni persona; ed anche papa Francesco ha lanciato un appello con un messaggio su X in occasione dell’odierna Giornata mondiale dei diritti umani: “I #DirittiUmani alla vita e alla pace sono condizione essenziale per l’esercizio di tutti gli altri diritti. I governanti ascoltino il grido di pace dei milioni di persone private dei diritti più elementari a causa della guerra, madre di tutte le povertà!”
mentre il presidente della Croce Rossa italiana, Rosario Valastro, ha invitato a non abituarsi alla mancanza di rispetto dei diritti umani: “Questo momento storico ha un grande nemico: l’abitudine.
Non abituiamoci mai a rimanere indifferenti davanti a tutte le persone che nelle zone di conflitto sono prive di acqua, cibo, vestiti e supporto sanitario, a quanti sono in difficoltà economica, a chi è margini della società, a chi subisce violenze. Il nostro compito è quello di non voltarci dall’altra parte e di impegnarci ancora di più per difendere quei diritti fondamentali propri ad ogni persona, affinché siano sempre più una base solida della nostra società, della nostra democrazia, e riescano a garantire a tutti gli esseri umani eguale dignità, in ogni circostanza”.
Ed il pensiero è rivolto a chi per problemi di libertà di parola è costretto a fuggire: “L’azione dei 150.000 Volontarie e Volontari della Croce Rossa Italiana è nel primo Principio dell’Associazione, l’Umanità. Da Lampedusa agli altri porti italiani dove svolgiamo accoglienza alle persone migranti, nei quartieri delle nostre città dove i senza fissa dimora vivono in solitudine, nei centri dove assistiamo le persone indigenti o che non hanno accesso alle cure mediche necessarie, da Gaza all’Ucraina, quella stessa Umanità ci permette da 160 anni di essere ovunque c’è gente che soffre. Quella stessa Umanità è la ragione per cui non ci abitueremo mai all’odio, non resteremo mai indifferenti e non ci volteremo dall’altra parte davanti a chi si trova in difficoltà”.
Da queste premesse il presidente nazionale della Croce Rossa Italiana, “nella Giornata mondiale dei Diritti Umani la Comunità internazionale deve ribadire a gran voce l’impegno a tutela della libertà e dell’uguaglianza di ogni donna, uomo, bambina e bambino. Solo così potremo costruire una società libera da ogni forma di odio e violenza. Tutti fattori che, purtroppo, sono molto frequenti sia tra gli operatori umanitari che tra gli operatori sanitari”.
In effetti, secondo il rapporto di Amnesty International, nello scorso anno le violazioni dei diritti umani sono state dilaganti: “Gli stati e i gruppi armati hanno frequentemente perpetrato attacchi e uccisioni illegali in un numero crescente di conflitti armati. Le autorità in varie parti del mondo hanno represso il dissenso imponendo restrizioni alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica, ricorrendo all’uso illegale della forza contro manifestanti, arrestando arbitrariamente e detenendo difensori dei diritti umani, oppositori politici e altri attivisti, e sottoponendoli in alcuni casi a tortura e altro maltrattamento. Molti stati non hanno saputo adottare misure in grado di realizzare i diritti delle persone al cibo, alla salute, all’istruzione e a un ambiente salubre, trascurando le ingiustizie economiche e la crisi climatica.
I governi hanno spesso trattato rifugiati e migranti in maniera violenta e razzista. Una radicata discriminazione contro donne, ragazze, persone Lgbti, popolazioni native e comunità razzializzate o religiose ha emarginato sempre di più queste persone e le ha esposte a un rischio sproporzionato di violenza e violazioni dei diritti economici e sociali. Le imprese multinazionali hanno svolto un ruolo rilevante in alcuni di questi abusi. Le panoramiche regionali approfondiscono queste tendenze a livello delle singole regioni”.
Nel rapporto sono state delineate quattro tematiche essenziali per Amnesty International: “Questa analisi globale pone l’attenzione su quattro tematiche che evidenziano alcune di queste tendenze negative a livello globale: il trattamento dei civili come un elemento sacrificabile nelle situazioni di conflitto armato; la crescente reazione violenta contro la giustizia di genere; l’impatto sproporzionato delle crisi economiche, del cambiamento climatico e del degrado ambientale sulle comunità più marginalizzate; e le minacce di tecnologie nuove e già esistenti, come l’intelligenza artificiale (Artificial Intelligence – Ai) generativa.
Queste rappresentano, dal punto di vista di Amnesty International, le problematiche cruciali per i diritti umani a livello mondiale per il 2024 ed oltre. Gli stati devono intraprendere un’azione concertata per contrastarle e prevenire ulteriori conflitti, crisi emergenti o il peggioramento di quelle attuali”.
Monsignor Christian Carlassare: ‘La pace si raggiunge con il dialogo’
Più di 10.000.000 bambini in Sudan si sono trovati in una zona di guerra attiva e a meno di cinque chilometri di distanza da spari, bombardamenti e altre violenze mortali, dall’inizio del conflitto più di un anno fa, il 15 aprile 2023, un numero più alto di quello dei minori che vivono attualmente in Italia.
Il Paese, dopo un anno e mezzo, è di fatto diviso in tre parti:: l’una in mano all’esercito regolare, che si professa custode della transizione che controlla faticosamente gran parte del corso del Nilo, la costa del Mar Rosso con il porto di Port Sudan (ormai capitale di fatto) e parte degli stati del Sud-Est; una seconda, alcuni stati del Sud-Ovest e gran parte del Darfur, è sotto il controllo delle RSF.
Infine, una terza vasta area dispersa nel paese è in mano a varie forze ribelli legate a neonati interessi, antichi raggruppamenti ed eterodosse fedeltà locali, venate di identificazioni etniche spesso estese oltre-confine. Le maggiori città sono contese, anche la capitale Khartoum: un anno fa una delle maggiori megalopoli d’Africa con quasi 7.000.000 di abitanti, oggi devastata e spopolata.
I combattimenti hanno condotto ad una delle peggiori crisi umanitarie in corso sul pianeta, la più grave per quanto riguarda gli sfollati: oltre 9.000.000 di nuovi sfollati di cui più di 2.000.000 quelli fuggiti in altri paesi; almeno 13.000 i morti accertati, di certo sottostimati; almeno 11.000 casi colera sono segnalati, l’80%degli ospedali del Sudan è fuori uso e metà della popolazione necessita d’una forma di aiuto ma gli aiuti sono scarsi e in molte aree difficilmente accessibili a causa dell’insicurezza. Il tessuto sociale del Paese è stato fatto a pezzi dalla guerra, la popolazione civile è vittima di violenze dilaganti, bambini uccisi, violentati e reclutati dalle milizie come arma di guerra.
A mons. Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, in Sud Sudan, abbiamo chiesto di spiegarci i motivi per cui il conflitto in Sudan aumenta: “Il conflitto sudanese ha radici profonde perché nasce da problemi già presenti nella guerra in Darfur cominciata più di 20 anni fa e mai risolti. Ora la questione del Darfur si è allargata a tutto il Paese. In aggiunta possiamo dire che il conflitto sudanese non è semplicemente una guerra tra due generali, poiché l’esercito SAF e la milizia RSF sono inestricabilmente inseriti nella vita economica del paese attraverso legami con gruppi di élite sudanesi che controllano vari settori dell’economia a proprio vantaggio.
Quindi è un conflitto molto complesso che alla base ha elementi economici, problematiche regionali esacerbate da questioni etniche, senza dimenticare interessi internazionali ed elementi religiosi come l’aspirazione della fazione islamista estromessa dal governo nel 2019 di tornare al potere”.
Perché la guerra in Sudan è una guerra ‘fantasma’?
“Probabilmente perché non gli viene data la dovuta importanza dalla comunità internazionale (soprattutto America e Paesi europei) per cui l’attenzione mediatica e l’aiuto umanitario sono rivolti soprattutto a Gaza ed Ucraina. Ma in realtà la crisi umanitaria sudanese è altrettanto grave sia per le uccisioni e crimini commessi, sia per il numero di persone che sono sfollate nella più totale assenza di sicurezza e servizi e la conseguente fame.
Il Sudan è abbandonato a sé stesso da chi non vede in esso interessi economici e strategici. Russia, Emirati Arabi, Arabia Saudita e in parte l’Egitto invece sono più coinvolti, ma non è scontato che stiano lavorando per la pace. Se ci fossero meno armi e meno soldi per comprarle, forse quelli che oggi combattono per il controllo di alcune aree e risorse si siederebbero a un tavolo per la pace”.
Quali ripercussioni ha questo conflitto in Sud Sudan?
“Il Sud Sudan osserva quello che sta accadendo in Sudan con grande preoccupazione perché il legame tra i due Paesi rimane, pur con l’indipendenza del Sud. Molti Sud Sudanesi avevano trovato rifugio in Sudan durante il conflitto 2013-2019. Comunque il Sudan continuava ad offrire buone opportunità di studio e cure mediche, oltre che vantaggi negli investimenti e nel commercio. Ora non più. Molti Sud Sudanesi sono rientrati, dopo aver perso tutto, e senza trovare molto. L’estrazione del petrolio è rallentata ed il trasporto lungo l’oleodotto fino a Port Sudan è diventato più incerto come anche questa entrata che rappresenta 85% del PIL del paese.
In aggiunta, il Sud Sudan non è veramente in pace nonostante l’accordo R-ARCSS. Anche se non si registrano scontri tra i principali gruppi armati, in molte parti del Paese si registrano violenze legate a conflitti locali.
Vengono descritti come scontri locali o comunitari perché interessano piccoli gruppi di diversa etnia, e sono spesso legati all’accesso ad alcune risorse del territorio. Ma le cause non sono accidentali, di fatto sono collegate alle dinamiche politiche nazionali. Mentre il Sud Sudan ha teoricamente un governo transitorio di unità nazionale, in pratica c’è una lotta tra le diverse fazioni del governo e dell’opposizione per il potere e c’è poca cooperazione fra loro.
Tutte le fazioni lavorano per i propri interessi piuttosto che per il bene della nazione e dei cittadini. Sembra mancare la volontà politica di attuare le disposizioni della R-ARCSS. E, purtroppo, le elezioni (che dovrebbero essere a dicembre prossimo) fanno parte di questa lotta per il potere.
Il principale partito di governo vorrebbe le elezioni. L’opposizione le vorrebbe posticipate. In generale preoccupa l’impreparazione generale. Le elezioni non sono un singolo evento, richiedono un processo che dura nel tempo. Comportano molti elementi: la demarcazione delle circoscrizioni elettorali che richiederebbero un censimento, la registrazione degli elettori, la registrazione dei partiti politici e dei candidati, l’istituzione di un sistema elettorale indipendente, la commissione elettorale, la formazione dei funzionari elettorali, una pianificazione della logistica cioè come raggiungere tutti distretti in un territorio così vasto e povero di infrastrutture e comunicazioni, come garantire la sicurezza e l’ordine nello svolgimento delle votazioni, l’educazione civica degli elettori.
Praticamente nulla di tutto questo è ancora avvenuto. È anche difficile prevedere come sarà possibile votare in alcune regioni dove non c’è sicurezza, o dove la popolazione è pressoché tutta sfollata a causa anche degli allagamenti.
Per di più, non si tratta di semplici elezioni di routine come quelle che si svolgono regolarmente in altri paesi. Queste elezioni fanno effettivamente parte dell’R-ARCSS, che è un accordo di pace firmato dalle parti coinvolte nella guerra civile del 2013. In effetti, l’elezione costituisce l’ultima tappa dell’accordo dopo che tutte le altre sono state raggiunte.
Queste includono la ratificazione di una costituzione che per ora rimane transitoria, la riforma dell’esercito e della difesa, la riforma della giustizia, il dialogo nazionale e la riconciliazione. La maggior parte di queste riforme non sono state fatte. E’ quindi difficile capire come si possano avere delle elezioni legittime quando mancano le condizioni previe.
Al momento sono in atto delle trattative moderate dal presidente Ruto del Kenya con la partecipazione della Comunità di Sant’Egidio per cercare di uscire da questa situazione di stallo. Si continua a sostenere la necessità di andare alla radice dei problemi che sono legati alla costituzionalità stessa del paese, al rispetto della legge, al buon governo che sappia superare corruzione e nepotismo.
Bisogna saper guardare oltre l’accordo di pace e le elezioni stesse. E’ necessario promuovere un serio dialogo nazionale indipendente dalle forze al governo ed élite militari, dove la comunità civile, i gruppi ecclesiali, gli anziani, le donne e i giovani possano parlare ed essere finalmente ascoltati”.
La conferenza episcopale di Sudan e Sud Sudan invita al dialogo: è una via percorribile?
“E’ l’unica via. Senza un dialogo nazionale indipendente e a tutto campo non si supereranno mai i pre-giudizi che cui sono tra diversi gruppi etnici. Le narrative negative che contrappongono piuttosto di unire rimarranno intatte. Le ferite per le violenze subite rimarranno aperte ed infette senza possibilità di guarigione. Senza dialogo inclusivo alcuni gruppi di potere continueranno a manipolare le comunità locali.
Quindi non basta un dialogo formale compiuto da un gruppo limitato di persone in rappresentanze delle altre. E’ necessario nel paese un atteggiamento di ascolto ed educazione alla conoscenza reciproca per individuare un bene che sia comune e che appartenga a tutta la popolazione. Il governo deve essere progressivamente capace di offrire pari opportunità e sviluppo a tutte le comunità del paese, dando attenzione ai gruppi più svantaggiati e vulnerabili”.
Dopo la conclusione delle Olimpiadi parigine, in cui la squadra di pallacanestro ha partecipato per la prima volta, il basket in Sud Sudan può essere un momento di riscatto e di riappacificazione?
“L’esperienza delle Olimpiadi è stata certamente una esperienza molto importante per la squadra di basket del Sud Sudan. Le imprese della squadra è stato motivo di orgoglio nazionale e tanta gente ha seguito con interesse e grande speranza. Il messaggio di questa esperienza è che l’unione fa la forza, e lavorare sodo porta sempre buoni frutti. Spero sia un messaggio che venga raccolto dal paese perché sia in grado di costruire relazioni sociali improntate sul rispetto, la gentilezza e la coesione”.
Nello scorso luglio è anche vescovo della diocesi di Bentiu con 621.000 battezzati su una popolazione di 1.132.000 persone: per quale motivo papa Francesco ha eretto la diocesi di Bentiu?
“E’ un processo che è iniziato qualche tempo fa in seguito alla grande crescita di fede e impegno ecclesiale della popolazione locale. Gli agenti pastorali laici hanno più volte chiesto alla Chiesa più attenzione considerando la vastità della diocesi di Malakal e il numero esiguo di ministri ordinati. Al mio arrivo in Sud Sudan nel 2005 questo territorio aveva solo due parrocchie, una retta da un prete diocesano e l’altra retta da una comunità di missionari comboniani. I catechisti erano più di 600 e presenti nel territorio a guida di altrettante cappelle. Oggi lo stesso territorio ha sette parrocchie, sette preti diocesani, due diaconi, e due comunità religiose, i missionari comboniani e i frati minori cappuccini.
Il motivo per il quale papa Francesco ha eretto questa diocesi risponde al bisogno di essere una Chiesa che si fa prossima, che esce dal tempio e si fa compagna di strada di coloro che hanno perso tutto, ma non la propria umanità. Al momento si calcola che nella regione, circa il 90% della popolazione è sfollata a causa prima del conflitto ed ultimamente dell’alluvione che ancora colpisce il territorio. Tra Bentiu e Rubkona, due città collegate da un ponte, vivono circa 200.000 persone dentro una trentina di chilometri di terrapieno dove da 4 anni il livello dell’inondazione del Nilo supera quello del terreno.
Nel ‘campo sfollati’ di Rubkona circa 130.000 persone vivono stipati in una situazione del tutto anomala poiché dipendono dall’assistenza dell’ONU e delle agenzie umanitarie. Forse la diocesi, dando forza alle comunità cristiane locali, può essere richiamo di un bisogno di normalità, di pace e di sviluppo umano integrale di cui la gente ha tanto bisogno”.
(Foto: Aci Stampa)
La Comunità di Sant’Egidio invita tutti a Parigi ad ‘imaginer la paix’
Fino a martedì 24 settembre la Comunità di Sant’Egidio invita i leaders delle religioni ed i rappresentanti degli Stati a Parigi per partecipare all’Incontro internazionale ‘Imaginer la Paix – Imagine Peace’: “In un momento di grave crisi mondiale, per i tanti conflitti in corso, come in Ucraina ed a Gaza, e il rischio di un loro allargamento a livello globale, la Comunità di Sant’Egidio promuove, insieme all’arcidiocesi di Parigi, l’Incontro internazionale ‘Imaginer la Paix – Imagine Peace’. Per tre giorni dall’Europa e da altri continenti, si darà appuntamento nella capitale francese un ‘popolo della pace’ di diverse generazioni, con l’obiettivo di confrontarsi e di far sentire la propria voce, quella di chi non si rassegna di fronte alle troppe vittime innocenti, alle migliaia di sfollati e alle devastazioni provocate dalla guerra”.
Partendo da questo invito della Comunità di Sant’Egidio e della diocesi di Parigi a partecipare all’incontro internazionale per la pace, che si svolgerà a Parigi, chiediamo allo storico Roberto Morozzo della Rocca, docente di storia contemporanea all’Università ‘Roma Tre’, se è ancora possibile immaginare la pace: “Certamente la pace non è solo immaginabile ma anche indispensabile per poter vivere. Oggi chi vuole la pace viene deriso da politici e opinionisti come ingenuo se non addirittura come complice di asseriti nemici. Al contrario, il pacifismo è profondamente realista perché si basa sulla conoscenza della guerra, fenomeno orribile e disumano”.
In un mondo in guerra è possibile continuare la strada del dialogo?
“Vi sono poteri forti che non vogliono il dialogo ma solo lo schiacciamento dei loro presunti competitori e nemici. Tuttavia il dialogo esiste, continua e non ha alternative se non la distruzione bellica. I due principali scenari di guerra attuali, Ucraina-Russia e Israele-Palestina, sembrano animati da contendenti disposti a combattere fino all’ultimo sangue, quasi preferiscano l’annientamento a qualsiasi compromesso. Concepiscono soltanto la sconfitta dell’avversario. Ed hanno alleati esterni che la pensano come loro e su questo hanno per così dire messo in gioco la loro faccia e il loro prestigio. Apparentemente non esistono soluzioni strategiche. Ma il dialogo può fare miracoli in quanto si sottrae all’orgoglio dei politici e alla dogmatica dei propagandisti, si rivolge ad esseri umani con le loro fragilità e i loro dubbi e si svolge faccia a faccia”.
L’Europa ha ancora un ruolo nella ‘costruzione’ della pace?
“Potrebbe averlo facilmente se solo avesse una classe dirigente di livello, capace magari di ricordare lutti e rovine della seconda guerra mondiale, da cui ha preso le mosse lo stesso progetto di integrazione europea. Oggi la classe dirigente europea appare molto modesta, esprime istintivi protagonismi soggettivi, inconfessati risentimenti nazionalisti, frenesie belliciste che mascherano povertà di visione e mancanza di responsabilità. Rimpiango Angela Merkel e altri prima di lei, capaci in varia misura di diplomazia, ascolto, magnanimità, comprensione delle ragioni altrui, senza manicheismi”.
Quale ruolo hanno le fedi per coltivare la pace?
“Le comunità religiose e i loro esponenti sono fondamentali per custodire la pace che sta al cuore dei loro libri sacri o per meglio dire della rivelazione divina variamente manifestata, a cui si rifanno. Beninteso questo vale se non subiscono il traino e il fascino delle culture secolari quali che siano, culture che oggi tendono a esaltare l’aggressività, l’insulto, le armi. Non è facile per gli uomini di religione smarcarsi dalla cultura circostante, dalla pressione del mainstream, dallo Zeitgeist”.
Nel 1986 papa san Giovanni Paolo II sottolineava la necessità di pregare per la pace: in un mondo in guerra quale valore ha la preghiera?
“Enorme. Noi pensiamo istintivamente di essere i protagonisti della storia, di plasmarla, di finalizzarla. Siamo prometeici. Ma le Scritture ci fanno capire ad ogni pagina che la terra è di Dio e che il Signore determina la storia. Noi non siamo soli con noi stessi, preda delle nostre passioni, e sappiamo, per averlo sperimentato almeno qualche volta nella vita, che solo il timore di Dio può darci pace. Chi prega crea pace, e Dio ne ascolta la preghiera tanto più se insistente”.
Dopo 38 anni di incontri lo ‘spirito’ di Assisi è ancora vivo?
“Il dialogo interreligioso ha compiuto progressi enormi in questi decenni. Parliamo di un dialogo quasi inesistente in passato che oggi è praticato da tanti. Lo spirito di Assisi è spirito di pace, quella pace disprezzata dai vertici politici delle potenze ma agognata dai popoli. Difficile trovare qualcosa di più corrispondente ai desideri della stragrande maggioranza dell’umanità”.
Da Gerusalemme una preghiera per la fine del conflitto in Terra Santa
“Sono passati già molti mesi dall’inizio di questa terribile guerra. Non solo la sofferenza causata da questo conflitto e lo sgomento per quanto sta avvenendo sono ancora integri, ma sembrano anzi essere continuamente alimentati da odio, rancore e disprezzo che non fanno che aumentare la violenza e allontanare la possibilità di individuare soluzioni”.
Questo è l’appello che il patriarca latino di Gerusalemme, il card. Pierbattista Pizzaballa, ha rivolto ai cristiani della Terra Santa nel messaggio per la solennità dell’Assunzione al Cielo di Maria, in quanto incomincia a serpeggiare lo scoraggiamento per la conclusione del conflitto in Terra Santa:
“E’ sempre più difficile, infatti, immaginare una conclusione di questo conflitto, il cui impatto sulla vita delle nostre popolazioni è il più alto e doloroso di sempre. E’ sempre più difficile trovare persone e istituzioni con le quali sia possibile dialogare di futuro e di relazioni serene. Sembriamo tutti schiacciati da questo presente impastato da così tanta violenza e, certo, anche da rabbia”.
Quindi è un invito a pregare nel giorno della festa dell’Assunzione in cielo di Maria, giorno in cui si riuniscono le delegazioni dei contendenti per cercare di raggiungere la pace: “Questi giorni, comunque, sembrerebbero essere importanti per riuscire a dare una svolta al conflitto e fra questi in particolare il 15 agosto, che per noi è il giorno della solennità dell’Assunzione di Maria Vergine in cielo.
In quel giorno, dunque, prima o dopo la celebrazione dell’Eucarestia, o in un momento che si terrà opportuno, invito tutti, ad un momento di preghiera di intercessione per la pace alla Vergine Santissima Assunta in cielo. Desidero che parrocchie, comunità religiose contemplative ed apostoliche, e anche i pochi pellegrini presenti tra noi, si uniscano nel comune desiderio di pace che affidiamo alla Vergine santissima”.
Ed ha chiesto una preghiera perché l’intercessione della Madre di Dio possa aprire uno spiraglio di pace: “Dopo avere speso tante parole, infatti, e dopo avere fatto il possibile per aiutare ed essere vicini a tutti, in particolare a quanti sono colpiti più duramente, non ci resta che pregare. Di fronte alle tante parole di odio, che vengono pronunciate troppo spesso, noi vogliamo portare la nostra preghiera, fatta di parole di riconciliazione e di pace”.
Questa è la supplica che il patriarca Pizzaballa invita a recitare: “Gloriosissima Madre di Dio, innalzata sopra i cori degli angeli, prega per noi con San Michele Arcangelo e con tutte le potenze angeliche del cielo e con tutti i santi, al tuo santissimo e amato Figlio, nostro Signore e Maestro. Ottieni per questa Terra Santa, per tutti i suoi figli e per tutta l’umanità, il dono della riconciliazione e della pace.
Possa compiersi la tua profezia: i superbi siano dispersi, i potenti siano rovesciati dai troni, gli umili siano innalzati, gli affamati siano ricolmati di beni, i pacifici siano riconosciuti come figli di Dio ed i miti ricevano la terra in dono. Possa Gesù Cristo, tuo Figlio, Colui che oggi ti ha esaltato sopra i cori degli angeli, che ti ha incoronato con il diadema del Regno, e ti ha posto sul trono di eterno splendore, concederci questo A Lui la gloria e l’onore in eterno. Amen”.
Anche il card. Louis Raphael Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei, ha annunciato che anche il patriarcato ‘sta organizzando una preghiera per la pace e la stabilità’, che si svolge questa sera: “Poiché il raggiungimento della pace è responsabilità di ogni persona e di ogni Paese, siete cordialmente invitati ad unirvi a noi in una preghiera a Dio Onnipotente”.
Michele Zanzucchi: alto il rischio di conflitto in Medio Oriente
“Seguo con grandissima preoccupazione quanto sta accadendo in Medio Oriente, e auspico che il conflitto, già terribilmente sanguinoso e violento, non si estenda ancora di più. Prego per tutte le vittime, in particolare per i bambini innocenti, ed esprimo vicinanza alla comunità drusa in Terra Santa e alle popolazioni in Palestina, Israele, e Libano… Gli attacchi, anche quelli mirati, e le uccisioni non possono mai essere una soluzione. Non aiutano a percorrere il cammino della giustizia, il cammino della pace, ma generano ancora più odio e vendetta. Basta, fratelli e sorelle! Basta! Non soffocate la parola del Dio della Pace ma lasciate che essa sia il futuro della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero! La guerra è una sconfitta!”
Partendo dall’appello di domenica scorsa dopo la recita dell’Angelus da parte di papa Francesco per la pace in Medio Oriente dialoghiamo con il prof. Michele Zanzucchi, già direttore della rivista ‘Città Nuova’ e docente di comunicazione all’università ‘Sophia’ di Loppiano ed all’università ‘Gregoriana’ di Roma: “Come rispondere se non che l’instabilità è la nota che da ottant’anni, e forse più, sta occupando i pensieri e le azioni di chi vive in quella regione? Tale instabilità è dovuta a molteplici ragioni, la principale delle quali è la presenza di troppe potenze globali e locali in lotta per questioni di geopolitica, ma anche per il possesso delle risorse di idrocarburi, come di acqua e di minerali preziosi, le tanto citate ‘terre rare’.
L’instabilità è accentuata dalla questione israeliana, che ha avuto origine da una gestione poco illuminata del post-colonialismo, per la cattiva coscienza di chi aveva vinto (o perso) la Seconda guerra mondiale. L’eredità indicibile della Shoah ha impedito quella lucidità che avrebbe forse permesso di evitare un conflitto epocale come quello israelo-palestinese. Il solo tentativo di vera pace nella regione, gli Accordi di Oslo, è stata spazzata via sì dall’assassino del presidente Rabin, ma soprattutto dagli interessi che quella pace aveva osato toccare”.
Quanto è destabilizzante per il mondo il conflitto in Medio Oriente?
“Ovviamente non si può rispondere che lo è in sommo grado. Si può addirittura dire che l’instabilità nel Medio Oriente ha delle conseguenze globali, anche in terre da lì lontanissime. La comunità internazionale, anche per la progressiva e ininterrotta delegittimazione delle istanze internazionali, Onu in testa, e per la progressiva creazione di organismi intermedi (i vari G6, G7, G8 e via dicendo), ha creato destabilizzazione più che trovare soluzioni ai singoli problemi. Anche perché i vari ‘G’ non hanno che la legittimazione della forza, non certo del diritto. Il mondo soffre di questa mancanza di coordinamento internazionale, soprattutto dopo le tragedie della pandemia e delle ultime guerre e per il sorgere di problemi di governance mondiale per via della rivoluzione digitale”.
‘Tornare in Libano suscita inevitabilmente sorpresa. Accompagnato dallo stillicidio degli spacci di agenzia sui lanci di missili da parte di Hezbollah contro Israele e delle reazioni dell’esercito con la stella di Davide, fatte di bombardamenti e lanci di ogni sorta di ordigni, mentre imperversa una invisibile cyberwar, una guerra digitale, un visitatore mal avvertito avrebbe il terrore di finire nel pentolone infernale della tenzone che dal 1948, praticamente ininterrotta, imperversa su quella che era e resta una parte della Terra Santa, ‘terra di latte e di miele’ di biblica memoria’: qualche mese fa lei scrisse così in un articolo per la rivista ‘Città Nuova’ a conclusione di una sua visita in Libano. E se ‘scoppia’ il Libano cosa può succedere?
“Dio ci preservi da una tale sciagura che, oltre a destabilizzare nuovamente il Paese dei cedri, che non ha ancora sanato le ferite della lunga guerra (in)civile, provocherebbe un conflitto realmente globale, perché una guerra tra Israele ed Hezbollah vorrebbe dire aprire un conflitto tra Iran e Israele, e tra i rispettivi alleati. Il rischio attuale di apertura delle ostilità in modo generalizzato (in realtà dal 7 ottobre sono migliaia i colpi di missili, mortai e droni che hanno viaggiato al di sopra delle teste dell’Unifil, la forza di interposizione che dal 2006, per un’intuizione importante di Romano Prodi e del suo amico Massimo Toschi) porterebbe a un aumento delle ostilità in Siria, in Iraq, probabilmente anche nel Kurdistan e chissà ancora dove. Il che ci avvicinerebbe a una guerra mondiale militare generalizzata”.
Ma quale è la visione dell’Occidente per il Medio Oriente?
“Non c’è nessuna visione, questa è la realtà. Si riesce solo a ipotizzare scenari di dominio e non di collaborazione tra popoli e culture. L’Europa è assente, se non con qualche apprezzato intervento pacificatore, a livello locale. Servirebbe una visione che, attualmente, solo le autorità religiose più illuminate, come papa Francesco o il patriarca Bartolomeo riescono ad avere”.
Anche un po’ più lontano dal Medio Oriente, nelle repubbliche del Caucaso il fondamentalismo si sta ‘ravvivando’: stiamo vivendo la terza guerra mondiale?
“Bisogna fare attenzione a non fare amalgama non corrette. Le questioni caucasiche (anzi cis-caucasiche) sono innanzitutto interne alla Confederazione russa, al contrasto esistente da decenni tra movimenti di liberazione nazionale locali musulmane, contrastate dalle autorità del Cremlino e dai loro alleati locali, come Ramzan Kadyrov. Il fondamentalismo islamista (Daesh e simili) ha la sua importanza, ma non credo che le questioni del Daghestan e della Cecenia, così come dell’Inguscezia e dell’Ossezia del Nord, o anche della Cabardino-Balcaria, abbiano una valenza globale. A proposito della Terza guerra mondiale a pezzi, credo che l’espressione fortunata proposta da Bergoglio nel viaggio di ritorno dalla Corea e a Redipuglia non sia più di attualità, perché siamo già in presenza di una guerra mondiale generalizzata; solo che essa si sta svolgendo su livelli diversi, commerciale, industriale (la produzione di armi), di intelligenze, digitale, mediatica… e anche militare”.
‘Il paradigma tecnologico incarnato dall’intelligenza artificiale rischia allora di fare spazio a
un paradigma ben più pericoloso, che ho già identificato con il nome di paradigma tecnocratico’.Al G7 di giugno scorso papa Francesco ha parlato di un ‘paradigma tecnocratico’: come limitarlo?
“La questione è grave, quando un manipolo di enormi gruppi del digitale hanno assunto una potenza straordinaria, superando i budget di Stati importanti come la Spagna o la Svizzera. Queste imprese cercano di detenere non solo la ricchezza, ma anche le chiavi scientifiche atte a incrementare il loro potere economico. Pensiamo alle ricerche sul DNA, pensiamo all’intelligenza artificiale, pensiamo allo sfruttamento dei cieli. La questione va regolata, ma soprattutto nella governance mondiale bisogna integrare Stati, società civile e settore privato”.
Papa Francesco agli afgani in Italia: non si strumentalizzi la fede per creare conflitti
“L’Afghanistan, negli ultimi decenni, ha avuto una storia complicata e drammatica, caratterizzata da un susseguirsi di guerre e di conflitti sanguinosi, che hanno reso assai difficile per la popolazione condurre un’esistenza tranquilla, libera e sicura. L’instabilità, le operazioni belliche, con il loro carico di distruzione e di morte, le divisioni interne e gli impedimenti a vedersi riconosciuti alcuni diritti fondamentali, hanno spinto molti a prendere la via dell’esilio. Io ho incontrato alcune famiglie dell’Afghanistan che sono venute qui”.
Con queste parole di esordio papa Francesco, prima dell’udienza generale, ieri ha incontrato l’Associazione Comunità Afgana in Italia, sottolineando la ‘fierezza’ della propria cultura, capace, però, di causare anche conflitti: “Va ricordata anche un’altra importante caratteristica della società afgana e anche di quella pakistana, vale a dire che esse sono costituite da molti popoli, ciascuno fiero della sua cultura, delle sue tradizioni, del suo specifico modo di vivere.
Questa marcata differenziazione, invece di essere occasione per promuovere un minimo comune denominatore a tutela delle specificità e dei diritti di ciascuno, a volte è motivo di discriminazioni ed esclusioni, se non addirittura di vere e proprie persecuzioni. Sembra tragico, ma voi avete passato un tempo tragico, con tante guerre”.
Tale situazione si amplifica nei territori al confine con il Pakistan: “Tutto questo poi trova una rilevanza ancora maggiore nell’area di confine con il Pakistan, dove l’intreccio delle etnie e l’estrema ‘porosità’ dei confini determinano una situazione non facile da decifrare e nella quale è molto arduo rendere effettiva una normativa che sia concretamente recepita e applicata da tutti.
In simili contesti possono innescarsi processi nei quali la parte che è o si sente più forte tende ad andare oltre gli stessi dettami della legge o a prevaricare sulle minoranze, facendosi scudo del preteso diritto della forza piuttosto che contare sulla forza del diritto”.
Con la cultura qualche volta si innesca anche l’elemento religioso: “Il fattore religioso, per sua natura, dovrebbe contribuire a stemperare le asprezze dei contrasti, dovrebbe creare lo spazio perché a tutti vengano riconosciuti pieni diritti di cittadinanza su un piano di parità e senza discriminazioni. Tuttavia, diverse volte la religione subisce manipolazioni e strumentalizzazioni, e finisce per servire a disegni che non sono compatibili con essa.
In questi casi la religione diventa fattore di scontro e di odio, che può sfociare in atti violenti. E voi lo avete visto, alcune volte. Io ricordo, quel momento duro, aver visto filmati nelle notizie: con quanta durezza, con quanto dolore”.
Il monito del papa è stato un incoraggiamento a promuovere la pace tra le religioni: “E’ perciò indispensabile che in tutti maturi la convinzione che non si può, in nome di Dio, fomentare il disprezzo dell’altro, l’odio e la violenza.
Vi incoraggio, dunque, a proseguire nel vostro nobile intento di promuovere l’armonia religiosa e di operare affinché vengano superate le incomprensioni tra le diverse religioni per costruire così un percorso di dialogo fiducioso e di pace. E’ un cammino non semplice, che a volte subisce delle battute d’arresto, ma è l’unico cammino possibile, da perseguire con tenacia e costanza, se davvero si desidera fare il bene della comunità e favorire la pace”.
E dopo aver ricordato il suo viaggio apostolico nella Repubblica Centrafricana, ha menzionato il documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio di cinque anni fa: “Cari fratelli, auspico vivamente che questi criteri diventino patrimonio comune, tale da influenzare mentalità e comportamenti, così che i principi siano non soltanto astrattamente apprezzati e condivisi, ma concretamente e puntualmente applicati.
Se ciò accadrà, anche le discriminazioni che la vostra Associazione lamenta ai danni dell’etnia Pashtun in Pakistan avranno termine e potrà iniziare una nuova epoca, nella quale la forza del diritto, la compassione (questa parola è chiave: la compassione) e la collaborazione nel rispetto reciproco daranno luogo a una civiltà più giusta e umana”.
Ha concluso l’incontro con l’auspicio che non ci sia più discriminazione verso nessuno: “Voglia Dio onnipotente e misericordioso assistere i governanti e i popoli nella costruzione di una società dove a tutti sia riconosciuta piena cittadinanza nell’uguaglianza dei diritti; dove ognuno possa vivere secondo i propri costumi e la propria cultura, in un quadro che tenga conto dei diritti di tutti, senza prevaricazioni o discriminazioni”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco invita a pregare per l’unità e la pace
Giornata intensa di incontri per papa Francesco, che ha ricevuto in questo fine mese, dedicato al Sacro Cuore di Gesù, i partecipanti al Capitolo Generale della Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Dehoniani), che hanno preso parte al Capitolo Generale della Congregazione sul tema ‘Chiamati a essere uno in un mondo che cambia. ‘Perché il mondo creda’ (Gv 17,21)’, secondo l’insegnamento del venerabile Léon Gustave Dehon, che “vi ha insegnato a ‘fare dell’unione a Cristo nel suo amore per il Padre e per gli uomini, il principio e il centro della…vita’; e a farlo legando strettamente la consacrazione religiosa e il ministero all’offerta di riparazione del Figlio, perché tutto, attraverso il suo Cuore, torni al Padre. Fermiamoci allora su questi due aspetti di ciò che vi proponete: essere uno, perché il mondo creda”.
Per questo il papa ha ribadito il bisogno dell’unità: “Sappiamo con quanta forza Gesù l’ha chiesta al Padre per i suoi discepoli, durante l’ultima Cena. E non l’ha semplicemente raccomandata ai suoi come un progetto o come un proposito da realizzare: prima di tutto l’ha chiesta per loro come un dono, il dono dell’unità. E’ importante ricordare questo: l’unità non è opera nostra, noi non siamo in grado di realizzarla da soli: possiamo fare la nostra parte, e dobbiamo farla, ma ci serve l’aiuto di Dio”.
Ma per l’unità c’è bisogno di preghiera, invitando ad avere cura della cappella: “La cappella sia il locale più frequentato delle vostre case religiose, da ciascuno e da tutti, soprattutto come luogo di silenzio umile e ricettivo e di orazione nascosta, affinché siano i battiti del Cuore di Cristo a scandire il ritmo delle vostre giornate, a modulare i toni delle vostre conversazioni e a sostenere lo zelo della vostra carità. Esso batte d’amore per noi dall’eternità e il suo pulsare può unirsi al nostro, ridonandoci calma, armonia, energia e unità, specialmente nei momenti difficili”.
La preghiera è un valido ‘aiuto’ per superare i momenti di sconforto: “Tutti, sia personalmente sia comunitariamente, abbiamo o avremo momenti difficili: non spaventarsi! Gli Apostoli ne hanno avuti tanti. Ma essere vicini al Signore perché si faccia l’unità nei momenti della tentazione. E perché ciò accada, abbiamo bisogno di fargli spazio, con fedeltà e costanza, mettendo a tacere in noi le parole vane e i pensieri futili, e portando tutto davanti a Lui… Ricordiamolo sempre: senza preghiera non si va avanti, non si sta in piedi: né nella vita religiosa, né nell’apostolato! Senza preghiera non si combina nulla”.
L’unità è la base affinché il mondo creda, come ha scritto p. Dehon: “Tante volte vediamo che questo mondo sembra aver perso il cuore. Anche nel rispondere a questa domanda può aiutarci il Venerabile Dehon. In una sua lettera, meditando sulla Passione del Signore, egli osservava che in essa ‘i flagelli, le spine, i chiodi’ hanno scritto nella carne del Salvatore una sola parola: amore”.
Solo in questo modo è possibile annunciare il Vangelo: “Ecco il segreto di un annuncio credibile, un annuncio efficace: lasciar scrivere, come Gesù, la parola ‘amore’ nella nostra carne, cioè nella concretezza delle nostre azioni, con tenacia, senza fermarci di fronte ai giudizi che sferzano, ai problemi che angustiano e alle cattiverie che feriscono, senza stancarsi, con affetto inesauribile per ogni fratello e sorella, solidali con Cristo Redentore nel suo desiderio di riparazione per i peccati di tutta l’umanità”.
Mentre nell’incontro con i partecipanti alla riunione della ROACO (Riunione Opere di Aiuto alle Chiese Orientali) papa Francesco ha ribadito la preoccupazione per i cristiani del Medio Oriente, soprattutto per la Terra Santa: “So che in questi giorni vi siete soffermati sulla drammatica situazione in Terra Santa: lì, dove tutto è iniziato, dove gli Apostoli hanno ricevuto il mandato di andare nel mondo ad annunciare il Vangelo, oggi i fedeli di tutto il mondo sono chiamati a far sentire la loro vicinanza; e a incoraggiare i cristiani, lì e nell’intero Medio Oriente, ad essere più forti della tentazione di abbandonare le loro terre, dilaniate dai conflitti. Io penso a una situazione brutta: che quella terra si sta spopolando di cristiani”.
Ed ha chiesto che la violenza cessi: “Quanto dolore provoca la guerra, ancora più stridente e assurda nei luoghi dove è stato promulgato il Vangelo della pace! A chi alimenta la spirale dei conflitti e ne trae ricavi e vantaggi, ripeto: fermatevi! Fermatevi, perché la violenza non porterà mai la pace. E’ urgente cessare il fuoco, incontrarsi e dialogare per consentire la convivenza di popoli diversi, unica via possibile per un futuro stabile. Con la guerra, invece, avventura insensata e inconcludente, nessuno sarà vincitore: tutti saranno sconfitti, perché la guerra, proprio dall’inizio, è già una sconfitta, sempre”.
Per questo ha denunciato la ‘diaspora’ dei cristiani: “Oggi tanti cristiani d’Oriente, forse come mai prima, sono in fuga da conflitti o migrano in cerca di lavoro e di condizioni di vita migliori: moltissimi, perciò, vivono in diaspora. So che avete riflettuto sulla pastorale degli orientali che risiedono fuori dal loro territorio proprio. E’ un tema attuale e importante: alcune Chiese, a causa delle massicce migrazioni degli ultimi decenni, annoverano la maggior parte dei fedeli fuori dal loro territorio tradizionale, dove la cura pastorale è spesso scarsa per la mancanza di sacerdoti, di strutture e di conoscenze adeguate. E così, chi ha già dovuto lasciare la propria terra rischia di trovarsi depauperato anche dell’identità religiosa; con il passare delle generazioni si smarrisce il patrimonio spirituale orientale, ricchezza imperdibile per la Chiesa cattolica”.
E non poteva mancare un accenno alla situazione dell’est europeo: “Penso anche al tragico dramma della martoriata Ucraina, per la quale prego e non mi stanco di invitare a pregare: si aprano spiragli di pace per quella cara popolazione, vengano liberati i prigionieri di guerra e rimpatriati i bambini. Promuovere la pace e liberare chi è recluso sono segni distintivi della fede cristiana, che non può essere ridotta a strumento di potere. In questi giorni vi siete concentrati anche sulla situazione umanitaria degli sfollati nella regione del Karabakh: grazie per tutto quello che si è fatto e che si farà per soccorrere chi soffre”.
(Foto: Santa Sede)
A Merate il premio ‘Fuoco dentro – donne ed uomini che cambiano il mondo’
Si svolgerà domenica 23 giugno, alle ore 21, al Teatro del Collegio Villoresi di Merate (LC) la cerimonia di consegna della terza edizione del Premio “Fuoco dentro – Donne e uomini che cambiano il mondo”, istituito dall’Arcidiocesi di Milano e da Elikya, associazione di promozione sociale che dal 2012 opera in diversi ambiti del mondo civile e religioso.
Riconoscere coloro che con il generoso impegno per il bene dell’individuo e della società sono diventati testimoni di speranza, illuminando il cammino di chi hanno incontrato: è il senso del Premio, il cui titolo nasce da un’omelia dell’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, divenuta anche un brano musicale e uno spettacolo drammatizzato da Elikya.
Come già successo nelle due precedenti edizioni, anche per l’edizione 2024 di ‘Fuoco dentro’ una commissione composta da giornalisti, scrittori, docenti universitari, religiosi e rappresentanti del mondo interculturale e interreligioso ha individuato le persone cui assegnare il Premio, quest’anno significativamente realizzato da alcuni artigiani di Betlemme.
I premiati, alla presenza dell’Arcivescovo, saranno: don Claudio Burgio, fondatore e presidente dell’Associazione Kayrós oltre che cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano; Carlo Alberto Caiani e la moglie Sara Pedroni, che con i loro tre figli da quasi vent’anni accolgono minori in affido presso la cascina dei padri Somaschi a Vercurago (LC); Blessing Okoedion, donna nigeriana sopravvissuta alla tratta che ha denunciato i suoi aguzzini e ora è impegnata come mediatrice culturale e interprete; suor Nabila Saleh che ha vissuto per tredici anni a Gaza e che a causa della guerra con Israele è stata per sei mesi rifugiata nella parrocchia latina, prendendosi cura dei più fragili sotto i bombardamenti; infine Franco Vaccari, presidente e fondatore di ‘Rondine Cittadella della Pace’, un’organizzazione impegnata per il superamento dei conflitti armati nel mondo.
Un premio alla memoria sarà poi dedicato a suor Luisa Dell’Orto, uccisa nel 2022 nella capitale di Haiti dove era la colonna portante di ‘Casa Carlo’, un centro che raccoglie centinaia di bambini di strada, ricostruito nel 2010 dopo il terremoto che ha devastato l’isola caraibica.
La serata – a ingresso libero – sarà animata dal Coro Elikya, un ensemble composto da 50 coristi di 16 nazionalità differenti, guidati dal direttore Raymond Bahati, che propone un intreccio di diverse forme artistiche. In questa multiformità si rispecchia la composizione del gruppo stesso e si svela la bellezza della diversità. L’iniziativa ha il patrocinio del Comune di Merate ed è sostenuta da Confcommercio Lecco, dalla Fondazione Comunitaria del Lecchese e dal Gruppo Elemaster.
YouTopic Fest: in centinaia per Bisio e Pera Toons
Secondo giorno di YouTopic Fest, il Festival internazionale sul Conflitto promosso da Rondine Cittadella della Pace, che si svolge nel borgo alle porte di Arezzo fino a sabato 1° giugno riflettendo sul tema “Scommettere sulla fiducia, averla, riceverla, perderla, ritrovarla” (qui il programma: https://youtopicfest.rondine.org/).
“Uno degli ingredienti per arrivare alla pace, è la fiducia. Ma dove nasce questo patrimonio fondamentale? – si è chiesto Franco Vaccari, presidente e fondatore di Rondine -. Nasce esclusivamente nelle nostre relazioni. La fiducia è invisibile, eppure è assolutamente concreta, perché quando do o ricevo fiducia, cambia la relazione, in maniera visibile, misurabile, e quindi si può parlare dell’impatto della fiducia, un ponte invisibile verso l’altro. Io getto il ponte, mi metto in movimento, ma non c’è assicurazione che l’altro farà lo stesso. E’ un rischio, un brivido. E’ qualcosa di impegnativo che però trova appagamento nel suo esercizio”.
La giornata di oggi si è aperta con il panel “Fiducia e relazioni, volano di crescita per imprese sostenibili di pace”, moderato da Francesco Ferragina, Presidente di Fondazione Kon. “La cooperazione richiede fiducia e la fiducia è un rischio – ha detto in apertura il prof. Leonardo Becchetti -. Ma come ci si può meritare fiducia? Attraverso il dono, cioè fare di più di quello che gli altri si aspettano da noi. Il dono stimola fiducia, creatività, cooperazione”.
“Fiducia non è soltanto ‘fede’, ma anche ‘condividere’ – ha aggiunto Massimo Mercati, Amministratore Delegato di Aboca -. Far emergere questo significato è funzione fondamentale di chi gestisce un’impresa. Quindi in questa logica le relazioni sono il cuore. Questo implica un costante mettere in discussione quello che si fa, aprirsi, superando la dicotomia tra lavorare e vivere. La fiducia diventa una relazione costante”.
E la fiducia è una precondizione su cui può svilupparsi l’economia che a sua volta stringe legami pacificatori: “Il business sano – ha detto Beatrice Baldaccini, Vicepresidente e Chief People & Brand Officer di Umbragroup e Presidente di Fondazione Baldaccini – aiuterà a creare relazioni di pace nel mondo. Tanto più le persone si incontrano, si relazionano tra loro e si umanizzano, tanto sarà più difficile far scoppiare delle guerre”.
Una idea fortemente condivisa anche da Giovanni Grava, Amministratore delegato di Tutela Legale e fondamentale per il settore assicurativo. “Siamo venuti a Rondine perché siamo curiosi di conoscere da vicino questa realtà e poter essere più consapevoli del nostro ruolo nel mercato e nella società. Quando ce ne hanno parlato siamo rimasti subito colpiti dall’aria di positività che si respira in questo luogo e la capacità di guardare e investire sul futuro, soprattutto sui giovani, guardando agli altri e alle loro potenzialità.
Siamo una compagnia di assicurazione, anch’essa un investimento sul futuro che viene fatto in forza della fiducia che un operatore può suscitare nel mercato. L’aspetto relazionale e la fiducia è quanto di più necessario possa esistere per il business assicurativo, è alla sua base”.
Durante la giornata si sono svolti numerosi workshop e percorsi interattivi alla scoperta della trasformazione creativa del conflitto per bambini adulti e professionisti tra cui “Il Metodo Rondine: una strada per trovare la propria strada”, un percorso interattivo promosso da Rondine Academy che attraverso i luoghi del borgo intende coniugare i contenuti del Metodo Rondine e stimoli di riflessione per la propria vita, personale e professionale.
Nel workshop “Alla ricerca della fiducia, la ‘ricerca’ sulla fiducia”, sostenuto dalla Fondazione Cattolica, si è parlato di nascita e sviluppi del Laboratorio sul Metodo Rondine dove docenti universitari e ricercatori si sono confrontati sul tema della fiducia collegata al Metodo Rondine. A distanza di sei mesi dal convegno inaugurale “Studi e ricerche sull’approccio relazionale al conflitto prospettive in dialogo sul Metodo Rondine” tenutosi presso la Pontificia Università Lateranense.
“Il simbolo della pace è l’ulivo, un albero che ha bisogno di 8 anni per produrre frutti” Sandro Calvani è membro del consiglio scientifico dell’istituto Toniolo per il diritto internazionale della pacei. “Il pensiero semina l’azione, l’azione un’abitudine, l’abitudine un carattere, il carattere un destino”. La gradualità è insieme il rigore della pace.
“Nel Nord Europa ci sono settimane e non weekend di educazione alla pace”. E punta sulla fisicità dell’incontro, sui “cinque sensi dell’umanesimo”. Obiettivo? “Non superare il conflitto ma confidare nel conflitto perché il conflitto è bello”. “Ma non ci arriveremo – rilancia Emilce Cuda, segretaria per la pontificia commissione per l’America latina – finché nelle istituzioni nessuno metterà gli auricolari per ascoltare i poveri. Lo dice Papa Francesco: azioni di giustizia e di pace si fanno con i poveri e non per i poveri”. Al tavolo anche Miguel Diaz, della Loyola Università di Chicago e a lungo ambasciatore grazie a Obama degli Usa nella Santa Sede. “Rondine è un’esperienza unica al mondo, ci sono tante scuole di educazione alla pace ma questa è l’unica che si applica nel quotidiano”.
“Un mosaico di fiducia: l’impatto dei giovani di Rondine nel Mare di Mezzo” era il titolo del Panel dedicato al Mediterraneo, una regione sempre più turbolenta e critica, moderato dal direttore di Famiglia Cristiana Stefano Stimamiglio. “Dopo il primo anno vissuto a Rondine insieme ad altri otto giovani di tutto il Mediterraneo siamo tornati nei nostri paesi di origine per sviluppare progetti a forte impatto sociale che adesso, nel secondo anno del progetto, stiamo svolgendo – ha spiegato Aldo Radi, albanese, 24 anni, partecipante al progetto Mediterraneo Frontiera di Pace -.
Il mio progetto in particolare si occupa di promuovere un’Accademia di leadership per i giovani, che, come in tutti i Balcani, sono ‘cervelli in fuga’. Noi cerchiamo di dare strumenti ai giovani, con lezioni dei migliori docenti dell’Albania su cittadinanza attiva e democrazia. Grazie a questi strumenti, insieme alla nostra organizzazione, possono chiedere al Municipio e alle Istituzioni di fare cambiamenti per un futuro migliore”.
“Sono stata un anno a Rondine nel 2022 – ha aggiunto Graziella Saliba – adesso lavoro con Caritas Libano in un progetto dedicato ai giovani per promuovere il bene comune. Il progetto ha coinvolto tremila giovani nelle scuole per implementare le loro competenze affinchè si impegnino nella società e promuove inoltre numerose attività estive, come campi formativi per i bambini, attività creative e sportive”.
Il workshop “Abitare il conflitto. Una questione di fiducia”, rivolto a bambini, pre-adolescenti e famiglie, ha permesso di sperimentare alcune attività di trasformazione del conflitto e di costruzione della fiducia, secondo il Metodo Rondine. E sono stati tantissimi i bambini messisi in fila già tre ore prima dell’intervento all’Angolo del Conflitto del fumettista Pera Toons intervenuto sul tema “Il conflitto con gli haters, la fiducia dei followers” preceduto da un firmacopie di tre ore:
“Un grazie di cuore a Rondine che mi da la possibilità di parlare di una cosa fondamentale che è il tema della fiducia. Grazie alla fiducia che ho ricevuto dalla mia community sono riuscito mese dopo mese e anno dopo anno a migliorarmi, dandomi tante soddisfazioni personali riuscendo a far ridere quotidianamente le persone. Il successo infatti è basato sulla fiducia tra le persone”.
La giornata si è conclusa con l’intervento dell’ex magistrato Gherardo Colombo su “Libertà, legalità e cittadinanza: dal conflitto alla fiducia”, messosi a nudo all’Angolo del Conflitto e il Panel “Come in un film. Il cinema specchio dei conflitti della società” con il critico cinematografico Steve Della Casa.
La giornata di sabato 1° giugno si articola tra inaugurazioni, visite guidate, riflessioni sul ruolo dell’informazione nel contesto di guerra e formazione che hanno al centro il Metodo Rondine e la fiducia. Nel fitto panorama di eventi si segnala che nel Giardino dei Giusti, saranno piantati tre nuovi alberi, tra cui uno dedicato a Otello Lorentini, che ha combattuto perché venisse fatta giustizia in merito alla strage dell’Heysel e che compare nel libro I Giusti dello Sport (ore 9.30).
Si parla anche di “Informazione, fiducia e conflitti armati” dove intervengono i giornalisti, Giuseppe Sarcina, Giovanni Porzio, Gabriella Simoni e Andrea De Angelis (ore 10-13), corso formativo riconosciuto dall’Ordine dei Giornalisti della Toscana e realizzato in collaborazione con Ucsi Toscana e Ungp Toscana; “Giovani, pace, sicurezza: verso nuove leadership di pace” (ore 11.30) con l’ambasciatore Luca Fratini e numerosi ospiti. Alle 14.30 Michele Serra si racconta nell’Angolo del Conflitto, mentre alle 16 il panel “Ricostruire la fiducia durante la guerra” vede intervenire l’attivista Hamza Awawde, Anita De Stasio Associazione amici di Neve Shalom, Gabriele Nissim presidente Fondazione Gariwo, Yuval Rahamim Co-CEO, Parents Circle; Families Forum.
Nella giornata di ieri grande successo aveva riscosso anche l’appuntamento con Claudio Bisio. “Qui mi sento a casa”, aveva detto nella tarda serata di giovedì 30 maggio a Franco Vaccari, un duetto che prosegue fino a mezzanotte: il teatro tenda è strapieno per il suo film “L’ultima volta che siamo stati bambini” e alla fine il regista e attore si immerge in un dialogo serrato con il pubblico. “Mi ritrovo in una realtà che non nega i conflitti, la nostra vita ne è piena, ma lavora per superarli”.
Lui ne ha superati tanti per un film che racconta la Shoah dalla parte dei bambini. “La prima l’abbiamo fatta a Roma due giorni dopo la strage di Hamas, in un clima di tensione incredibile e la Digos in sala”. È arrivato Rondine grazie ad Alberto Belli Paci, il figlio di Liliana Segre, che lo ascolta dalla prima fila. “Ho fatto vedere il film anche a Liliana, ha apprezzato l’incrocio tra leggerezza e incubo, per me è stata la spinta più importante”. Un abbraccio che avrà un seguito. “Sono felice di essere qui a Rondine, per me è stata una grande scoperta. Non so ancora su cosa farò il mio secondo film ma tornerò”.