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Il genocidio rwandese nel racconto di Gianrenato Riccioni

“Il genocidio in Rwanda era iniziato il 6 aprile, il giorno stesso in cui era stato abbattuto l’aereo dell’allora presidente Habyarimana… Era stato tutto premeditato, addirittura dalla Cina erano stati importati centinaia di migliaia di machete, arma rudimentale e feroce, ma anche economica… A dare inizio alla carneficina fu la radio nazionale, che incitò a seviziare e uccidere ‘gli scarafaggi Tutsi’. In questo contesto, immagina un manipolo di volontari, armati solo di tanta fede e di speranza, che accettavano di entrare in Rwanda per riportare una goccia di umanità in quell’oceano di male. Avevo 38 anni, e tanta paura, ma dissi di sì e reclutai chi mi potesse seguire”:
così inizia il colloquio con il dott. Gianrenato Riccioni, medico anestesista e rianimatore all’ospedale di Macerata, ora in pensione, che con la moglie Letizia, insegnante (genitori di tre bambini), decise al termine degli anni ’80 di partire come responsabile dei progetti di Avsi, organizzazione non governativa cattolica presente in 38 Paesi, per l’Uganda.
Ed il ricordo resta ancora indelebile: “Non era una normale guerra, in Rwanda, era l’inferno. Quelli che fino a poco prima erano stati amici, parenti, addirittura sposi, ora venivano massacrati senza distinzione, con machete, bastoni chiodati, martelli. Perfino le chiese dove i Tutsi si erano rifugiati per sfuggire agli Hutu avevano le pareti rosse di sangue, sembravano dipinte. In quel delirio ero stato chiamato a organizzare in qualche modo una presenza di pace e di ricostruzione… L’estate del 1994, trent’anni fa, segnò indelebilmente la mia vita”.
Allora incominciamo dall’inizio: per quale motivo in quel tempo avete scelto di partire per l’Uganda?
“Il 29 settembre 1984, in un’udienza per i 30 anni del movimento di Comunione e Liberazione, papa san Giovanni Paolo II disse: ‘Andate in tutto il mondo è ciò che Cristo ha detto ai suoi discepoli. Ed io ripeto a voi: Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza, la pace, che si incontrano in Cristo Redentore’. Poi, nel 1985 incontrai il dott. Enrico Guffanti che aveva vissuto 4 anni in Uganda. Io e Maria Letizia, che era diventata mia moglie pochi mesi prima, fummo molto colpiti dalla sua testimonianza. Si percepiva, un’umanità, un’intensità di vita ed una gioia assolutamente desiderabili: diventammo amici”.
E quale è stato il contatto con l’Avsi?
“L’amicizia crebbe e agli inizi del 1986 offrimmo la nostra disponibilità, di medico e di insegnante, per la missione. Enrico ci presentò il dott. Arturo Alberti che, nel 1972, aveva fondato l’Avsi, una ONG nata per sostenere chi partiva per la missione”.
Quando siete partiti eravate consapevoli di ciò che stava per succedere?
“Certamente consapevoli di una realtà totalmente altro da ciò a cui eravamo abituati. Ma l’idea della guerra con le sue atrocità, anche se sapevamo dell’instabilità socio politica di quelle zone, non era nei nostri pensieri. Partimmo quindi per l’Uganda: era il 1987. Fummo mandati nel nord del Paese, a Kitgum. Incontrammo i missionari comboniani, uomini con cui nacque una compagnia stringente, che privilegio averli conosciuti.
Dopo un primo periodo scoppiò la guerra, che forse in quella terra così martoriata non era mai terminata. Centinaia di cadaveri accatastati ovunque. Ci battemmo per ottenere il diritto a curare tutti i feriti senza distinzione, amici o nemici. Alla fine delle ostilità ci chiesero di andare ad Hoima, nel sud ovest dell’Uganda. Eravamo fra i primi bianchi ad entrare nel triangolo di Luweero, territorio famoso per le atrocità avvenute fino a tutto il 1986”.
E come avete vissuto il genocidio che stava avvenendo in Rwanda?
“Nel 1994, quando scoppiò il genocidio, l’ambasciatore ci chiese di valutare, come cooperazione italiana, una disponibilità a promuovere un progetto di emergenza in Rwanda. Tornando a casa ne parlai subito con Maria Letizia. Dissi: ‘Ma io non ci penso nemmeno. Troppo pericoloso, per me e per i miei volontari!’ Ma padre Tiboni, un nostro carissimo amico missionario comboniano, mi invitò invece a considerare la possibilità di iniziare una presenza in Rwanda.
Disse che negli anni era nata un’amicizia con moltissimi ugandesi di origine hutu e tutsi. Cresciuti in Uganda desideravano tornare a casa e lui aveva a cuore queste persone. Mi chiese proprio di accettare, chiese il ‘miracolo’. Accettai, poi la realtà si sarebbe rivelata molto più drammatica di quanto avessi temuto. In quei 100 giorni più di 800.000 persone vennero uccise all’arma bianca”.
In tale situazione avete incontrato il console in Rwanda, Pierantonio Costa: “Mi portò a vedere ciò che stava accadendo, affinché io potessi costruire un progetto fattibile di presenza. Il console Costa mi condusse fuori Kigali nelle baracche di fango sulle colline, dove si erano rifugiati i Tutsi, e là dentro vidi i sopravvissuti amputati col machete, gli occhi impazziti di orrore. Soprattutto però mi impressionò l’orfanotrofio dei padri Rogazionisti a Nyanza: lì erano stati raccolti 800 bambini tutti dai 2 anni in su, perché sotto i 2 anni erano morti, uccisi o dagli Hutu o dalla diarrea. Erano hutu e tutsi insieme, chi morente, chi senza più gli arti, terrorizzati per ciò che avevano visto.
Molti erano scappati ai loro stessi parenti (zii, cugini, persino padri e fratelli) componenti di quel 40% di famiglie miste hutu e tutsi che avevano preso a massacrarsi. Costa era andato a Nyanza per portare in salvo i padri Rogazionisti, tra i quali padre Tiziano Pegorari cui gli Hutu avevano promesso la decapitazione, ma questi non se ne volevano andare. Per salvare gli 800 bambini dalla strage il console Costa circondò l’orfanotrofio con bandiere italiane e la scritta ‘Consolato d’Italia’. Funzionò e salvò le vite di questi bambini”.
Quindi cosa significò salvare la vita dei bambini?
“Significò accogliere i bisogni del bambino traumatizzato che poi sono i bisogni del bambino in qualsiasi momento della vita: essere ascoltato, essere accolto in quello che si è vissuto e si vive e aver qualcuno da guardare e da seguire. I bambini portavano i segni di quei mesi terribili: amputazioni, ferite agli arti e/o in testa, alcuni erano rimasti settimane appollaiati sugli alberi, molti non parlavano più.
Ad Avsi venne affidato l’orfanatrofio di Nyanza dove c’erano circa 800 bambini hutu e tutsi. Visitando la struttura con padre Tiziano, che ci affidò la realtà, chiesi: ‘Si, ma dove sono i bambini?’ e lui: ‘Ma sono qua!’ Entrai nelle camerate ed erano tutti lì, 800 bambini in un silenzio irreale. Il gruppo di volontari AVSI era formato da personale italiano, belga e ugandese di origine hutu e tutsi. Iniziarono i primi progetti di sostegno ai bambini traumatizzati dalla guerra e, contemporaneamente, anche un’attività di ricerca per rintracciare le famiglie originarie. Più di 500 bambini ritrovarono le loro famiglie”.
A distanza di 30 anni quale ricordo conservate di quella missione?
“Il volto e i nomi di questi amici hutu e tutsi che furono e sono la più grande testimonianza di speranza per quei bambini. La nostra esperienza si riassume bene con una espressione che stava a cuore a p. Tiboni ed a tutti noi: ‘E’ nata una nuova tribù … la tribù di Gesù Cristo e questa è la speranza per noi e per questo popolo’. Qualcuno di noi ebbe a dire: ‘Il clima di amicizia e di unità che la gente vede tra noi meraviglia tutti, e a volte meraviglia anche noi stessi’. La presenza di personale ugandese di origine hutu e tutsi, italiano, belga è stato segno tangibile e prezioso di una novità dentro la tragedia: questo amore, fuori da ogni logica umana e previsione, capace di generare speranza”.
(Tratto da Aci Stampa)
Papa Francesco: la speranza di Cristo va annunciata

“Vi do il benvenuto e sono felice che siate riusciti a organizzare questo vostro pellegrinaggio in questo Anno Giubilare, incentrato sulla speranza. E’ un Anno in cui Dio vuole concederci grazie speciali”: con questo saluto papa Francesco ha accolto i bambini ospiti della Clinica di Oncologia Pediatrica di Wrocław in Polonia.
Il papa ha espresso loro la gioia per questo incontro: “Mentre venivo a incontrarvi, sentivo una gioia nel cuore perché abbiamo la possibilità di donarci speranza e amore a vicenda, gli uni agli altri. E c’è anche un altro motivo: voi, cari bambini e ragazzi, per me siete segni di speranza. E perché? Perché sono sicuro che in voi è presente Gesù. E dove c’è Lui, c’è la speranza che non delude! Gesù ha preso su di sé le nostre sofferenze, per amore, e allora anche noi, attraverso il suo amore, possiamo unirci a Lui quando soffriamo”.
Questa è l’amicizia offerta da Gesù: “E questa è una prova di amicizia. Voi lo sapete: quando si è veramente amici, la gioia dell’altro è anche la mia gioia, e il dolore dell’altro è anche il mio dolore. Una volta Gesù disse ai suoi discepoli: ‘Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici’. Anche voi siete amici, voi siete i suoi amici, e potete condividere con Lui gioie e dolori”.
Un’altra prova dell’amicizia di Gesù sono i genitori: “E un’altra prova dell’amicizia di Gesù verso di voi è l’amore e la presenza costante dei vostri genitori, è il sorriso gentile e tenero dei medici, degli infermieri, dei fisioterapisti, che vi curano e lavorano per migliorare la vostra salute, perché non perdiate i vostri sogni e le vostre speranze.
Anch’io vi chiamo amici: voi siete amici! E vorrei chiedervi di aiutarmi a servire la Chiesa. E come? Offrendo, qualche volta, le vostre preghiere, le vostre sofferenze per le intenzioni del Papa”.
Infine ha invitato a pregare per quei bambini che non hanno l’opportunità di curarsi: “E poi vi invito a pregare insieme a me per quei bambini – sono tanti purtroppo! – che non hanno la possibilità di curarsi: sono malati, oppure feriti, e non ci sono medicine, non c’è ospedale, non ci sono medici né infermieri. Ricordiamoci di loro, siamo loro vicini! Cari ragazzi, grazie di essere venuti, siete coraggiosi! E così siete testimoni di speranza per noi adulti e per i vostri coetanei”.
In prima mattinata il papa ha ricevuto i promotori del progetto ‘Écoles de Vie(s)’: “Ogni vita umana ha una dignità inalienabile. Con il vostro impegno, voi proclamate che nessuno è inutile, nessuno è indegno, che ogni esistenza è un dono di Dio da accogliere con amore e rispetto”.
Nel suo ministero Gesù ha sempre accolto gli esclusi: “Questo è ciò che Gesù stesso ci insegna con il suo esempio. Nel suo ministero è sempre andato incontro ai malati, ai rifiutati, a coloro che erano esclusi dalla società del suo tempo. E ha toccato i lebbrosi, ha parlato con gli emarginati e ha accolto con amore coloro che sembravano non avere un posto nella società… Questo è importante: il rapporto con Dio sempre fa rifiorire le persone, sempre!”
Per questo il papa ha elogiato l’azione di questo progetto: “Accogliendo tutti con le loro fragilità e mettendo in relazione un gran numero di attori, voi incarnate quella Chiesa in uscita che ho spesso auspicato, una Chiesa aperta, una Chiesa accogliente, capace di farsi vicina ad ognuno e di curare le ferite di chi soffre, di accarezzare con tenerezza chi è privo di affetto e di rialzare chi è caduto a terra. Pensate che in una sola situazione è lecito guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla a sollevarsi. I giovani in particolare, malgrado i loro limiti, sono ricchi di potenzialità insospettate”.
E’ una questione educativa: “Sono lieto che il vostro progetto si collochi decisamente nella visione dell’educazione proposta nel Patto Educativo Globale: un’educazione integrale che non si limita a trasmettere conoscenze, ma cerca di formare uomini e donne capaci di compassione e amore fraterno”.
Solo in questo modo è possibile la costruzione di una società giusta: “In questo anno giubilare della speranza, vi incoraggio a perseverare con determinazione, perché solo restituendo centralità alla persona umana, integrando le sue dimensioni spirituali, potremo costruire una società veramente giusta e solidale. La vostra iniziativa è una risposta concreta a questa aspirazione: restituisce alle persone, a tutte le persone, emarginate dalla disabilità o dalla fragilità il loro posto all’interno di una comunità fraterna e gioiosa”.
Ed ai responsabili ai responsabili di ‘Congrès Mission’ ha sottolineato che Cristo è ‘nostra speranza’; “La gioia, cari amici, è inseparabile dalla speranza ed è anche inseparabile dalla missione; una gioia che non si riduce all’entusiasmo del momento, ma che nasce dall’incontro con Cristo e ci orienta verso i fratelli. Essere pellegrini significa camminare insieme nella Chiesa, ma anche avere il coraggio di uscire, di andare incontro agli altri. E portare la speranza significa offrire al mondo una parola viva, una parola radicata nel Vangelo, che consola e apre strade nuove”.
E’ stato un invito a ‘portare’ ovunque la speranza cristiana: “Questo significa andare dove gli uomini e le donne vivono le loro gioie e i loro dolori. E’ così che voi portate la speranza, sia nelle vostre comunità sia nei luoghi in cui la Chiesa sembra a volte stanca o ritirata. Grazie per tutto quello che fate, grazie per il vostro dinamismo e il vostro entusiasmo, per la fraternità missionaria che tessete con pazienza e con fede attraverso la Francia…
Ma noi cristiani portiamo una certezza: Cristo è la nostra speranza. Lui è la porta della speranza, sempre. Egli è la buona notizia per questo mondo! E questa speranza (è curioso) non ci appartiene: la speranza non è un possesso da mettere in tasca. No, non ci appartiene. E’ un dono da condividere, una luce da trasmettere. E se la speranza non si condivide, cade”.
E’, quindi, stato un invito ad incoraggiare i giovani: “I giovani sono i primi pellegrini della speranza! Hanno sete di significato, di autenticità e di incontri veri. Ma state attenti, cercate che i giovani si incontrino con gli anziani, perché anche gli anziani sono testimoni della speranza. I giovani, quando vanno dagli anziani, ricevano qualche missione speciale. Fate questo lavoro, che è molto importante. Aiutate i giovani a scoprire Cristo, perché Cristo è la risposta.
Aiutateli a crescere nella fede, a osare scelte coraggiose e a diventare anch’essi discepoli missionari di Gesù, testimoni viventi del Vangelo. Trasmettete loro l’audacia di sognare un mondo più fraterno e accompagnateli, affinché diventino artigiani di speranza nelle loro famiglie, nelle scuole e nei luoghi di lavoro”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: una teologia aperta per tutti

“Sono contento di vedervi e di sapere che un numero così grande di docenti, ricercatori e decani, provenienti da ogni parte del mondo, si sono radunati per riflettere su come ereditare il grande patrimonio teologico delle generazioni passate e per immaginarne il futuro. Ringrazio il Dicastero per la Cultura e l’Educazione per questa iniziativa. E grazie di cuore a voi, care teologhe e cari teologi, per il lavoro che fate, spesso nascosto ma tanto necessario. Spero che il Congresso segni il primo passo di un fecondo cammino comune… Avanti, insieme!”
Con queste parole papa Francesco oggi ha salutato i partecipanti al Congresso Internazionale sul futuro della teologia a tema su ‘Eredità e immaginazione’ (promosso dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione, che si svolge oggi e domani presso la Pontificia Università Lateranense), il quale ha parlato di luce:
“Vorrei anzitutto dirvi che quando penso alla teologia mi viene in mente la luce. Infatti, grazie alla luce le cose emergono dall’oscurità, i volti rivelano i propri contorni, le forme e i colori del mondo finalmente appaiono. La luce è bella perché fa sì che le cose appaiano ma senza mettere in mostra sé stessa. Qualcuno di voi ha visto la luce? Ma vediamo ciò che fa la luce: fa apparire le cose”.
E la luce è grazia con l’invito a cercare la grazia di Cristo: “Adesso, qui, noi ammiriamo questa sala, vediamo i nostri volti, ma non scorgiamo la luce, perché essa è discreta, è gentile, umile e, perciò, rimane invisibile. E’gentile la luce. Così è anche la teologia: fa un lavoro nascosto e umile, perché emerga la luce di Cristo e del suo Vangelo.
Da questa osservazione deriva per voi una strada: cercare la grazia e restare nella grazia dell’amicizia con Cristo, luce vera venuta in questo mondo. Ogni teologia nasce dall’amicizia con Cristo e dall’amore per i suoi fratelli, le sue sorelle, il suo mondo; questo mondo, drammatico e magnifico insieme, pieno di dolore ma anche di commovente bellezza”.
Una serie di domanda per comprendere il ruolo della teologia nel mondo contemporaneo con un ‘rimando’ al Secondo libro dei Re: “E’ un cammino che siete chiamati a fare insieme, teologhe e teologi. Mi ricordo di quanto racconta il Secondo Libro dei Re. Durante il restauro del Tempio di Gerusalemme, viene ritrovato un testo; forse è la prima edizione del Deuteronomio, andata perduta.
Un sacerdote e alcuni studiosi lo leggono; anche il re lo studia; intuiscono qualcosa, ma non lo capiscono. Allora il re decide di consegnarlo a una donna, Culda, che immediatamente lo comprende e aiuta il gruppo di studiosi (tutti uomini) a intenderlo. Ci sono cose che solo le donne intuiscono e la teologia ha bisogno del loro contributo. Una teologia di soli uomini è una teologia a metà. Su questo c’è ancora parecchia strada da fare”.
Ecco il compito della teologia è fornire un nuovo modo di pensare: “La prima cosa da fare, per ripensare il pensiero, è guarire dalla semplificazione. Infatti, la realtà è complessa, le sfide sono variegate, la storia è abitata dalla bellezza e allo stesso tempo ferita dal male, e quando non si riesce o non si vuole reggere il dramma di questa complessità, allora si tende facilmente a semplificare. Ma la semplificazione vuole mutilare la realtà, partorisce pensieri sterili, pensieri univoci, genera polarizzazioni e frammentazioni. E così fanno, ad esempio, le ideologie. L’ideologia è una semplificazione che uccide: uccide la realtà, uccide il pensiero, uccide la comunità. Le ideologie appiattiscono tutto a una sola idea, che poi ripetono in modo ossessivo e strumentale, superficiale, come i pappagalli”.
Il desiderio del papa è quello di una teologia del fermento: “Si tratta di far ‘fermentare’ insieme la forma del pensiero teologico con quella degli altri saperi: la filosofia, la letteratura, le arti, la matematica, la fisica, la storia, le scienze giuridiche, politiche ed economiche. Far fermentare i saperi, perché essi sono come i sensi del corpo: ciascuno ha una sua specificità, ma hanno bisogno l’uno dell’altro, secondo quanto dice anche l’apostolo Paolo: Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato?”
Ed ha ricordato due ‘grandi’ teologi: “Quest’anno celebriamo il 750° anniversario della morte di due grandi teologi: Tommaso d’Aquino e Bonaventura. Tommaso ricorda che non abbiamo un senso solo, ma sensi molteplici e differenti, affinché non ci sfugga la realtà (De Anima, lib. 2, lect. 25). E Bonaventura afferma che nella misura in cui si ‘crede, spera e ama Gesù Cristo’ si ‘riacquista l’udito e la vista […], l’odorato, […] il gusto e il tatto’ (Itinerarium mentis in Deum, IV, 3). Contribuendo a ripensare il pensiero, la teologia ritornerà a brillare come merita, nella Chiesa e nelle culture, aiutando tutti e ciascuno nella ricerca della verità”.
Infine l’invito a rendere una teologia ‘accessibile’ a tutti: “Da qualche anno, in molte parti del mondo si segnala l’interesse degli adulti per la ripresa della propria formazione, anche accademica. Uomini e donne, soprattutto di mezza età, magari già laureati, desiderano approfondire la fede, vogliono fare un cammino, spesso si iscrivono a una facoltà universitaria…
! Per favore, se qualcuna di queste persone bussa alla porta della teologia, delle scuole di teologia, la trovi aperta. Fate in modo che queste donne e questi uomini trovino nella teologia una casa aperta, un luogo dove poter riprendere un cammino, dove poter cercare, trovare e cercare ancora. Preparatevi a questo. Immaginate cose nuove nei programmi di studio perché la teologia sia accessibile a tutti”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: la pace si ottiene con la speranza e il dialogo

La settimana di papa Francesco oggi è iniziata con le ambasciate del Cile e dell’Argentina, le loro delegazioni diplomatiche ed altre autorità delle due Nazioni per la a commemorazione per i 40 anni del Trattato di Pace e Amicizia tra Argentina e Cile: “Sono lieto di accogliervi in occasione del 40° anniversario del Trattato di Pace e Amicizia tra Argentina e Cile, che pose fine alla lunga controversia territoriale tra i due Paesi. E’ questa una felice commemorazione di quegli intensi negoziati che, con la mediazione pontificia, evitarono il conflitto armato che stava per contrapporre due popoli fratelli e si conclusero con una soluzione degna, ragionevole ed equanime”.
Ha ricordato l’impegno di san Giovanni Paolo II per l’impegno di mediazione tra i due Stati: “L’impegno che coinvolse i due Paesi durante i lunghi negoziati, che furono difficili, così come il frutto della pace e dell’amicizia, costituiscono infatti un modello da imitare… San Giovanni Paolo II, fin dai primi giorni del suo Pontificato, ebbe la sua preoccupazione e il suo impegno non solo per evitare che la disputa tra Argentina e Cile ‘giungesse a degenerare in un disgraziato conflitto armato, ma anche per trovare il modo di risolvere definitivamente questa controversia’.
Avendo poi ricevuto la richiesta dei due Governi, accompagnata da impegni concreti ed esigenti, il Papa accettò di mediare avendo come scopo quello di suggerire e proporre ‘una soluzione giusta ed equa, e pertanto onorevole’. Infatti, nel corso della mediazione, il Pontefice manifestò in questi termini il suo intento: ‘Che si trovi, grazie alla buona volontà di ambedue le parti, una soluzione soddisfacente basata sulla giustizia e il diritto internazionale, che escluda il ricorso alla forza’. Oggi stiamo vivendo come è triste il ricorso alla forza”.
Il papa ha soffermato il proprio intervento su due parole del trattato, la prima del quale è pace: “In occasione della Ratifica del Trattato, il 2 maggio 1985, Giovanni Paolo II espresse la propria gioia, perché con l’intesa ‘si consolida la pace e in un modo tale che può giustamente dare la fondata fiducia della sua stabilità’. Questo dono della pace (sottolineava il papa) avrebbe richiesto, uno sforzo quotidiano per preservarlo dagli ostacoli che si sarebbero potuti opporre e per incoraggiare tutto ciò che potesse arricchirlo.
Infatti, il Trattato offre i mezzi adatti per il conseguimento di una duplice finalità, tanto per ciò che si riferisce al superamento delle eventuali divergenze, quanto per la promozione di ‘un’armoniosa amicizia attraverso una collaborazione in tutti i campi, finalizzata a una più stretta integrazione delle due Nazioni’. Perciò, questo modello di completa e definitiva soluzione di una controversia con mezzi pacifici merita di essere riproposto nell’attuale situazione mondiale, in cui tanti conflitti perdurano e si aggravano, senza l’effettiva volontà di risolverli con l’assoluta esclusione del ricorso alla forza o alla minaccia del suo uso. E questo lo stiamo vivendo in un modo piuttosto tragico”.
L’altra parola è amicizia: “In effetti, le resistenze, le fatiche e le cadute le possiamo leggere come un appello a riflettere, perché il cuore si apra all’incontro con Dio e ciascuno prenda coscienza di sé stesso, del prossimo e della realtà. Non dimentichiamo la nostra condizione di ‘mendicanti’, siamo veri e propri mendicanti. Siamo chiamati a farci “mendicanti dell’essenziale”, di ciò che dà senso alla nostra vita”.
Ed ha ricordato la firma di una nuova dichiarazione, avvenuta qualche settimana fa, tra vescovi argentini e cileni, ricordando che il Trattato firmato aveva evitato il conflitto: “I Vescovi di entrambi i Paesi ringraziano Dio perché, con quell’accordo, prevalsero il dialogo e la pace. Nello stesso tempo, hanno espresso la loro gratitudine a san Giovanni Paolo II, che offrì la sua mediazione tra i due Paesi, mediazione che fu portata avanti dai cardinali Antonio Samorè e Agostino Casaroli, due grandi.
Faccio miei i sentimenti dei Vescovi cileni e argentini, rendendo grazie a Dio per averci protetto e salvato dalla guerra! Ed insieme con i Porporati e i Presuli dei due Paesi, siamo grati per la pace e la cooperazione tra le due Nazioni, confidando che questo percorso possa essere ulteriormente approfondito per il bene dei due popoli. Auspico che lo spirito di incontro e di concordia tra le Nazioni, in America Latina e in tutto il mondo desideroso di pace, possa favorire il moltiplicarsi di iniziative e politiche coordinate, per risolvere le numerose crisi sociali e ambientali che interessano le popolazioni in tutti i continenti, danneggiando certamente i più poveri”.
Concludendo l’incontro ha ricordato i conflitti nel mondo, che sono fallimenti della Comunità internazionale: “Non posso a questo proposito non fare riferimento ai numerosi conflitti armati in corso, che ancora non si riesce ad estinguere, malgrado costituiscano lacerazioni dolorosissime per i Paesi in guerra e per l’intera famiglia umana. E qui voglio evidenziale l’ipocrisia di parlare di pace e giocare alla guerra. In alcuni Paesi dove si parla molto di pace, gli investimenti che rendono di più sono sulle fabbriche di armi.
Questa ipocrisia ci porta sempre a un fallimento. Il fallimento della fraternità, il fallimento della pace. Dio voglia che la Comunità internazionale faccia prevalere la forza del diritto attraverso il dialogo, perché il dialogo dev’essere l’anima della Comunità internazionale. Menziono semplicemente due fallimenti dell’umanità di oggi: Ucraina e Palestina, dove si soffre, dove la prepotenza dell’invasore prevale sul dialogo”.
Ed anche ai giovani della delegazione dell’Universal Peace Council ha ricordato il compito della pace: “La situazione attuale rende la promozione della pace ancora più importante e sono lieto di vedere che la vostra delegazione è composta da giovani appartenenti a contesti e religioni diverse. Questo è un chiaro segno che il desiderio della pace è radicato nel cuore umano e che è capace di portare unità nella diversità. Sappiamo tutti, però, che il vostro compito non è facile”.
Tre sono stati i punti essenziali sottolineati dal papa, di cui il primo sono i giovani: “Il primo è che abbiamo bisogno dei giovani per svolgere questo importante servizio, perché essi possiedono un tipo di idealismo, entusiasmo e speranza, che ricordano a tutti noi che un mondo migliore è possibile, che la pace è possibile. In particolare, i giovani possono aiutare gli altri a scoprire gli elementi cruciali che preparano la strada alla pace: il perdono e la disponibilità a lasciare andare i pregiudizi e le ferite del passato”.
Ed ha chiesto di non seguire le ideologie: “I giovani sono creativi, ma è brutto quando noi incontriamo giovani ideologizzati, nei quali l’ideologia prende il posto dei pensieri, e la volontà di fare il bene. Dobbiamo sempre ricordare e imparare dalla storia, un attaccamento malsano alle ferite e ai pregiudizi del passato non può mai portare a una pace vera e duratura. Di fatto, perpetua soltanto la spirale del conflitto e della divisione”.
Il secondo punto riguarda il dialogo: “Il secondo punto è impegnarsi sempre nel dialogo, poiché esso è lo strumento principale a nostra disposizione. Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo ‘dialogare’. Il dialogo è l’unica strada per la pace, per incontrarci. I giovani possono essere grandi artigiani di pace attraverso il dialogo”.
Infine il papa ha invitato a non perdere la speranza: “La speranza non delude: non perdere la speranza. E’ così facile scoraggiarsi, quando vediamo gli effetti devastanti della guerra e dell’odio, per non parlare della povertà, della fame, della discriminazione e di varie altre realtà che minacciano la prospettiva della pace. Queste realtà sono frutto delle guerre. Ciò può indurci a pensare che il nostro impegno nel dialogo sia vano perché produce pochi risultati concreti”.
Anche se qualcuno rivolgerà le critiche ha chiesto di non rinunciare a sperare: “Mantenete viva la speranza, cari giovani, tenendo sempre presente che siamo tutti parte di un’unica famiglia umana. Siamo tutti fratelli e sorelle e gli sforzi per promuovere la riconciliazione, l’armonia e la pace varranno sempre la pena del nostro tempo e dei nostri sforzi. E, naturalmente, non perdere mai il senso dell’umorismo, quella gioia sana! Questo è molto importante. Non perdere quella capacità di gioia che aiuta a vedere le cose migliori”.
(Foto: Santa Sede)
A Tolentino sulle orme del beato Tommaso da Tolentino e del venerabile Matteo Ricci

Nel viaggio apostolico a Singapore papa Francesco ha ricordato ai gesuiti che san Francesco Saverio e il venerabile p. Matteo Ricci hanno affrontato situazioni difficili, confidando nella ‘potenza’ della preghiera: “E guardate anche alla vita di Francesco Saverio, di Matteo Ricci e di tanti altri gesuiti: sono stati capaci di andare avanti grazie al loro spirito di preghiera”; mentre in un’udienza generale dello scorso anno aveva ricordato l’apporto del gesuita maceratese nello stabilire l’amicizia con il popolo cinese:
“Il suo amore per il popolo cinese è un modello… Lui ha portato il cristianesimo in Cina; lui è grande sì, perché è un grande scienziato, lui è grande perché è coraggioso, lui è grande perché ha scritto tanti libri, ma soprattutto lui è grande perché è stato coerente con la sua vocazione, coerente con quella voglia di seguire Gesù Cristo”.
Partendo da tali presupposti a fine settembre a Tolentino si è svolto un incontro sul tema ‘Fra Tommaso e Padre Matteo in Asia: diplomatici del Vangelo’, organizzato dal Comitato per le celebrazioni in memoria del beato Tommaso da Tolentino, dal Santuario della Basilica di san Nicola da Tolentino e dal Sermit odv (Servizio missionario Tolentino), che sostiene i missionari in Brasile, in India ed in Burundi, con gli interventi del missionario e sinologo p. Gianni Criveller, direttore del Centro missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) e direttore editoriale di Asia News, che ha incentrato il proprio intervento sull’azione missionaria del francescano beato Tommaso da Tolentino e del gesuita, venerabile p. Matteo Ricci: ‘Fra Tommaso da Tolentino e padre Matteo Ricci: due missionari marchigiani in Cina’; mentre il prof. Dario Grandoni, docente di ‘Business Startup e Corporate Finance’ all’Università Politecnica delle Marche e presidente della Fondazione internazionale ‘P. Matteo Ricci’ di Macerata, ha descritto la figura del gesuita maceratese: ‘Padre Matteo Ricci, un ponte o un modello?’, confrontandosi sul tema della serata: ‘Fra Tommaso e Padre Matteo in Asia: diplomatici del Vangelo’.
Durante il convegno p. Gianni Criveller ha descritto il ‘contatto’ tra il beato Tommaso da Tolentino e la Cina: “Il primo contatto tra Tommaso e la missione di Cina risale al giugno-luglio del 1307, quando il frate di Tolentino consegnò a papa Clemente V, un papa avignonese che si trovava in quel momento nella regione della Guascogna, le ultime due lettere del confratello missionario a Pechino Giovanni da Montecorvino: fu a seguito di esse che il papa inviò sette nuovi vescovi francescani in Oriente per consacrare Giovanni. Secondo alcuni, tra loro avrebbe potuto esserci lo stesso Tommaso, ma è una ipotesi poco credibile”.
Inoltre il relatore ha evidenziato che la storia di questi missionari francescani, uccisi in ‘odium fidei’ in India, si ricollega all’idea di missione avanzata da Gioacchino da Fiore e da san Francesco di Assisi: “Le profezie visionarie di Gioacchino, l’entusiasmo di Francesco d’Assisi che mostrava che era possibile vivere il vangelo alla lettera e senza commento, le attese suscitate dal papato di Celestino V furono le fonti del movimento degli spirituali e di altri movimenti alternativi alla chiesa istituzionale, percepita da tanti come non più corrispondente alla forma apostolica. Sul fronte missionario questa visione aveva per protagonista Dio, o meglio la Santa Trinità, autrice della missione. I credenti, i missionari partecipano in modo simbolico ad una missione pienamente realizzata dalla Trinità”.
Al termine dell’incontro abbiamo domandato a p. Gianni Criveller di spiegarci il motivo per cui la Chiesa ha guardato verso l’Asia ed in particolare verso la Cina: “In Cina ci sono tanti uomini e donne che attendono l’annuncio del Vangelo”.
Per quale motivo i francescani decisero di andare in missione in Cina?
“I francescani hanno iniziato la loro missione in Cina intorno a metà del secolo XIII su mandato dei papi ed alcuni sollecitati anche dai re di Francia, quali Guglielmo da Rubok, come missionari e come diplomatici. Poi dalla Cina hanno scritto relazioni molto importanti, che oggi sono utili per conoscere la Cina dei secoli XIII e XIV”.
E quale è stato il pensiero che ha mosso p. Matteo Ricci di recarsi in Cina?
“P. Matteo Ricci fondamentalmente è andato in Cina per evangelizzare e portare la fede; era un figlio del suo tempo, all’inizio della modernità. Era uomo di scienza e di cultura, che dava molta importanza ai libri ed alle immagini: ha trasmesso la fede in Cina attraverso questi mezzi”.
Nel viaggio apostolico in Asia papa Francesco ha esortato i cristiani a guardare a p. Matteo Ricci: è un modello per gli europei per rapportarsi con i cinesi?
“Sì, è un modello soprattutto per il suo spirito di ‘accomodamento’, che oggi chiamiamo interculturalità, cioè l’interlocutore è importante perché ha qualcosa da dire e non sono solo io che devo per forza dire qualcosa. Poi è molto importante lo stile dell’amicizia che p. Matteo Ricci ha attivato, perché è stato una novità, in quanto non tutti i missionari erano amichevoli con le popolazioni”.
L’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese, riguardante la nomina dei Vescovi, quali rapporti sta introducendo?
“Direi abbastanza scarsi in quanto l’accordo avrebbe dovuto portare molto più frutti e sono stati pochi i vescovi che sono stati consacrati e moltissime diocesi cinesi sono ancora senza vescovo. Tuttavia il rinnovo, che verrà fatto, porterà ad un miglioramento della funzionalità di questo accordo”.
(Tratto da Aci Stampa)
#BullismoOut: un nuovo romanzo sull’amicizia per i giovanissimi

Cercate un libro da proporre ai giovanissimi su amicizia, rispetto di sé, accettazione del proprio corpo e integrazione all’interno di un gruppo? Forse ne abbiamo uno che fa al caso vostro, che siate genitori, insegnanti, educatori. E’ settembre. Lucia si ritrova improvvisamente in una nuova scuola, dove dovrà frequentare la seconda media. Il mondo sembra crollare sulle sue spalle. Perché deve lasciare le sue amiche, le sue abitudini, la sua classe di sempre? La madre ha deciso per lei questo cambiamento e, perciò, è molto arrabbiata. Perché non può scegliere da sola della sua vita?
Inizia così il romanzo, pensato per un pubblico di preadolescenti (dai 9 ai 13 anni), dal titolo ‘CambiaMenti. Bullismo out’ (Cecilia Galatolo, Mimep Docete), dove viene raccontata una storia che farà sorridere e commuovere al tempo stesso i nostri giovanissimi lettori. La protagonista, che non sa apprezzarsi, soprattutto perché non le piace il suo aspetto fisico, finirà per chiudersi in sé stessa, per mostrarsi fragile e insicura, e diverrà vittima di Micheal, il bullo della classe. Lui non perderà occasione per denigrarla e farla sentire ancora più sbagliata.
Anche Micheal porta dentro una grande sofferenza (si scoprirà solo poi), è incattivito, non cattivo, ma le sue parole sono come lame taglienti e Lucia sente di non farcela più. A chi chiedere aiuto? Se solo smettesse di vergognarsi, di credere che sia colpa sua e imparasse a confidarsi con un adulto…
Una notte, stanca di vivere così, di sentirsi sola, senza amicizie, presa di mira e spaesata, si ritrova a pregare davanti al presepe, realizzato in casa dal padre. Si rivolge a Gesù bambino, come ad un amico.
Piano piano, passate le vacanze di Natale, le cose prenderanno una piega diversa. Nicola e Viola saranno due personaggi chiave, terapeutici per lei. Con loro la vita diventa di nuovo meravigliosa e ricca di sorprese. Il libro tratta uno dei problemi che affliggono il mondo giovanile oggi: l’eccessiva aggressività di alcuni ragazzi che può sfociare anche nel bullismo. Attraverso le esperienze di una ragazzina, quasi in forma di diario, descrive il percorso proposto ai ragazzi per contrastare ogni forma di violenza e accrescere la coscienza del valore di sé e dei buoni rapporti di amicizia.
Si crea così una ‘rete’ di relazioni che tende a limitare i caratteri violenti e le espressioni aggressive.
si cerca di offrire, con realismo, una descrizione puntuale della situazione giovanile attraversata da tensioni nei rapporti tra i ragazzi ma anche da solide amicizie che offrono una via di uscita. Le buone relazioni prevarranno su tutti gli sbandamenti. Il punto di forza del libro è che parla nel linguaggio dei giovani ai giovani stessi.
Il messaggio principale è che ognuno di noi è unico e prezioso e che nessuno è condannato in eterno alla solitudine: esistono per tutti altri cuori che battono all’unisono con il proprio, basta solo desiderarli e cercarli. Gli amici sono un dono: per trovarli, però, bisogna aprirsi. Il libro vuol insegnare questo: che puoi trovare un amico se impari tu stesso, per primo, a farti amico.
La nostra Mamma ci porta nel Regno della Divina Volontà

Ero nel dolore, tutto intorno a me andava male: la mia famiglia separata, mio fratello scomparso, ogni giorno, per il lavoro da addetto stampa di istituzioni, avevo gente che mi aspettava sotto casa minacciandomi.
Andai via da Napoli dove abitavo e mi trasferii a casa di un’amica, a Torre Annunziata, che sapeva quello che stavo attraversando. Ebbene, quando la mia cara amica Marinella con il figlio Riccardo (mio omonimo) entrarono nella chiesa Santuario della Madonna della Neve, io li seguii senza fiatare, strano per me, perché non mettevo piede in chiesa da circa vent’anni.
Davanti alla statua della Madonna sentii una pace meravigliosa, che capii subito che non mi apparteneva perchè io ero nella disperazione. Era l’anno 1999, ero ateo e non mi interessava la fede; ma quella sensazione di pace mi scosse e manifestai così l’intenzione di iniziare un percorso. Un’amica di Marinella, Dora Ciampa Cuneo, mi volle conoscere, le avevano appena ucciso il figlio, che come me frequentava la lista dei Verdi e lottava contro le costruzioni abusive in un’area verde, il Parco della Caffarella, a Roma.
Nacque una bella amicizia, volle farmi crescere nelle conoscenze della fede, mi regalò alcuni libri, viaggi e la possibilità di fare servizio e alla fine di questo percorso mi aiutò a ricevere il sacramento della Cresima, Dora fu la mia madrina. Nel 2003 mi sono trasferito in Sicilia per seguire un giovane che mi aveva colpito in Romania per i suoi gesti accoglienti e che, nel catanese, gestiva una casa famiglia, dove ho vissuto per quindici anni.
Nel 2010 ho conosciuto Fratel Biagio Conte, fondatore della Missione di Speranza e Carità di Palermo, con cui è nata una profonda amicizia; nel 2015 lui mi chiese di scrivere un articolo per il nostro giornale della Missione “La Speranza” che parlasse del ritorno di Fratel Biagio in missione a Palermo e dei tanti gesti che lo avevano convinto a tornare.
Tra i tanti, mi colpì in particolare uno molto profondo di una donna Barbara Occhipinti, che mi fece innamorare di lei. La volli conoscere e dopo circa un mese di frequentazione le chiesi di sposarmi, di trasferirsi in casa famiglia per aiutare circa cento accolti e di vivere di Provvidenza. Mi guardò con occhi stralunati, la mia proposta la spaventava, ma capii che era innamorata di me.
Mi resi conto che da solo non sarei riuscito a convincere Barbara ad abbandonare tutto e a seguirmi e così mi affidai alla Madonna. Cominciai a pregare le 1000 Ave Maria, stavo sempre con il santo Rosario nelle mani, arrivai anche a pregare 2300 Ave Maria in un giorno. Ho pregato per un anno, ho coinvolto anche gli accolti di casa famiglia.
Un giorno andai con lei al Santuario Madonna della Roccia di Belpasso; Fratel Biagio era lì in sosta obbligata per un dolore ad una caviglia (era in cammino per la Sicilia con la Croce); vedendo Barbara le disse ‘il Signore ti cerca da tanto tempo, questa vita non fa per te’, frase seguita da alcuni segni nel cielo. Barbara si convinse, si trasferì in casa famiglia e ci sposammo dopo pochi mesi nel 2016, scegliemmo come bomboniera il Santo Rosario che ci aveva uniti in questa grande missione, segno che donammo anche a Papa Francesco. Da allora la nostra vita missionaria continua, nella dedizione agli altri attraverso l’abbandono a Gesù e a Maria.
Circa un anno fa ci siamo consacrati alla Madonna, alla ricerca della Divina Volontà. Da allora, ho ricevuto una maggiore intimità con la Trinità e Maria. La nostra Mamma è colei che fa nascere Gesù in noi, dobbiamo conoscerla e amarla sempre di più e Lei ci donerà a Gesù. Consacriamoci tutti alla nostra Mamma!
(Tratto da Adveniat Regnum Tuum)
A Roma presentato il 45^ Meeting dell’Amicizia tra i popoli

Il Meeting di Rimini, giunto quest’anno alla sua 45^ edizione, si terrà dal 20 al 25 agosto nella Fiera di Rimini, con il titolo ‘Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?’ La manifestazione sarà ricca di tavole rotonde, mostre, spettacoli, iniziative culturali, sportive e per ragazzi e verrà anche trasmessa in diretta su più canali digitali e in più lingue.
Durante la presentazione ufficiale del programma, all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, dopo i saluti introduttivi dell’ambasciatore Francesco Di Nitto e gli interventi del presidente del Meeting Bernhard Scholz e di Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sono intervenuti Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, Maria Bianca Farina, presidente Ania, e Barbara Marinali, presidente Acea.
“Essenziale è la ricerca della pace, specie in un momento come questo, con la guerra in Ucraina e in Medio Oriente, in cui sono i civili a pagare il prezzo altissimo di scelte scellerate, ha dichiarato il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Essenziale è mettere l’uomo al centro, difendere una visione etica sui grandi temi come l’intelligenza artificiale. Essenziale è l’impegno per la crescita, tutti temi al centro della Presidenza italiana del G7 a partire da quello dei Ministri del Commercio che si terrà a Reggio Calabria nei prossimi giorni”.
“Essenziale è ciò che genera una vita piena, libera e responsabile e una vita sociale feconda e solidale, ha spiegato il presidente della Fondazione Meeting Bernhard Scholz. Il tentato assassinio di Donald Trump e alcune delle successive interpretazioni ci hanno reso presente in modo drammatico la vulnerabilità della democrazia. Contro i veleni dell’odio e del disprezzo, dei complottismi e delle estreme polarizzazioni, gli antidoti essenziali sono l’incontro, il dialogo e il confronto.
A maggior ragione vogliamo realizzare di nuovo un Meeting che mette a tema le grandi sfide di questo momento storico in un clima di rispetto reciproco, attraverso uno scambio e una condivisione di esperienze e di conoscenze. L’essenziale non è una riduzione austera a un minimo necessario, ma ciò che fa vivere e fiorire tutto, che apre a un orizzonte di senso per il nostro lavoro quotidiano, per l’educazione dei nostri figli, per il nostro impegno per il bene di tutti. Al Meeting renderemo presenti germogli di riconciliazione che nascono in mezzo alle guerre, incontri che sono diventati cantieri di pace”.
Anche il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli è tornato sul tema del Meeting, ricordando che “l’essenziale della giustizia è rappresentato dai tanti magistrati italiani competenti e autorevoli che operano quotidianamente per il ‘bene’ del Paese, privilegiando la dimensione del servizio e la spinta ideale propria della funzione, alla dimensione del potere.
Uno di questi giovani magistrati era Rosario Livatino, che verrà ricordato anche nel corso della prossima edizione del Meeting, certamente per il sacrificio della sua giovane vita, ma anche per il modello di magistrato che ha proposto: un modello di ‘magistrato costituzionale’ che parla a tutta la magistratura d’oggi, anticipando temi divenuti cruciali e offrendo una testimonianza ricca di spunti per la riflessione attuale”.
Ogni giornata del Meeting 2024 sarà arricchita dal contributo di personalità di primo piano dal mondo istituzionale, culturale, accademico e imprenditoriale, nonché esponenti della Chiesa e di fedi e culture diverse. La relazione sul tema del Meeting sarà tenuta mercoledì 21 agosto alle 15.00 da p. Adrien Candiard, domenicano francese membro dell’Institut dominicain d’études orientales.
Tra le presenze istituzionali anche il presidente della Corte Costituzionale Augusto Barbera, i vicepresidenti del Consiglio Antonio Tajani e Matteo Salvini, il commissario europeo per l’Economia Paolo Gentiloni, il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, il presidente del Cnel Renato Brunetta, il presidente della Banca d’Italia Fabio Panetta e l’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà.
In Fiera a Rimini sarà allestita una superficie di circa 120.000 metri quadrati, che ospiterà 140 convegni con circa 450 relatori italiani e internazionali; 14 saranno le mostre e 17 gli spettacoli, molti dei quali si terranno nel cittadino Teatro Galli (i biglietti sono disponibili sulla piattaforma Vivaticket). Il Villaggio Ragazzi Yoga, che si estenderà su una superficie di 3.700 mq, ha un programma fittissimo che comprende mostre, incontri, spettacoli e laboratori con oltre un centinaio di eventi.
Più che raddoppiato lo spazio riservato alla Cittadella dello Sport, che supera i 15mila mq, con le collaborazioni consolidate del Centro Sportivo italiano e di Derthona Basket. Si conferma infine il determinante apporto dei volontari giunti dall’Italia e dal mondo, ben 3.000, il 60% dei quali di età inferiore ai trent’anni.
In crescita le aziende partner del Meeting 2024, che quest’anno ammontano a 180. Anche da parte delle istituzioni c’è grande attenzione: il Ministero per gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale gestirà un’area dedicata al tema ‘C’è un’Italia che coopera’, mentre l’approfondimento che da anni il Meeting svolge sui temi delle infrastrutture, dei trasporti, della riqualificazione urbana e dell’ambiente si concretizzerà in spazi fisici a cui parteciperanno anche il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica e il Ministero delle Infrastrutture.
(Foto: Meeting di Rimini)
Papa Francesco agli ebrei: l’antisemitismo è contro Dio

Venerdì 2 febbraio papa Francesco ha condannato con forza l’antisemitismo in una lettera indirizzata ‘ai fratelli ed alle sorelle ebrei di Israele’, inviata alla teologa Karma Ben Johanan, tra le promotrici di un appello al pontefice sottoscritto da circa 400 tra rabbini e studiosi per il consolidamento dell’amicizia ebraico-cristiana dopo la tragedia del 7 ottobre, che ha espresso all’Osservatore Romano un sincero apprezzamento: “Siamo profondamente grati per la fiducia e lo spirito di amicizia con cui il Papa, e con lui l’intera Chiesa, ha voluto riaffermare la speciale relazione che unisce le nostre comunità, cattolica ed ebraica”.
Wael Farouq: Jusur per l’amicizia fra le culture

Jusur è una parola araba che significa ‘ponti’, che traccia un percorso d’incontro tra il verbo ‘jàsara’ (andare, passare attraverso) con l’omonimo sostantivo che significa ‘audacia, coraggio del cuore’ ed è il nome scelto per la rivista (presentato all’Onu nel simposio internazionale ‘Intercultural and interreligious dialogue: building bridges between East and West’, alla presenza del presidente dell’Assemblea generale Csaba Korosi), diretta da Wael Farouq, intellettuale arabo già docente in diversi atenei occidentali, attualmente professore di Lingua e letteratura araba all’Università Cattolica di Milano, insieme ad Alessandro Banfi ed a Davide Perillo: