La rivoluzione culturale di Papa Francesco
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 06.11.2023 – Andrea Gagliarducci] – Nel decimo anno del suo pontificato, Papa Francesco ha definito concretamente quella che ritiene debba essere una rivoluzione culturale all’interno della Chiesa, cioè un cambio di paradigma nello studio della teologia. Così, nemmeno una settimana dopo la fine del Sinodo, di fronte a un testo finale pesantemente modificato che dimostrava la sensibilità della questione, Papa Francesco ha riformato la Pontificia Accademia di Teologia.
La riforma è significativa sotto diversi aspetti.
Il primo aspetto è che la riforma contiene una critica implicita ed esplicita allo sviluppo della ricerca teologica negli ultimi anni. Fedele al principio che «è dalle periferie che si vede meglio la Chiesa», Papa Francesco vuole ribaltare l’idea che la ricerca teologica parta innanzitutto dalle verità di fede. Quelli rimangono fermi; non sono un punto, ma dobbiamo iniziare dalla vita concreta, comprendere le situazioni in modo pastorale e cercare la risposta di Dio in quelle situazioni.
Resta da vedere come questa scelta pastorale non porti poi a una definizione “casuistica” della situazione – cosa che Papa Francesco spesso mostra di temere. Ma la ricerca teologica deve cambiare, essere concreta e – perché no? – essere presenti nel dibattito attuale accogliendo anche categorie che non provengono dalla Chiesa Cattolica ma da altri ambiti.
Il secondo aspetto è che Papa Francesco, alla fine, ha una sua idea precisa di Chiesa e la sta portando avanti. La Chiesa di Francesco è pragmatica perché «le realtà sono superiori alle idee», ma allo stesso tempo sembra mancare di organizzazione e struttura. Tutto si discute – e il Sinodo ne è la prova – ma allo stesso tempo, senza organizzazione, tutto poi diventa una scelta arbitraria del capo. Questo modello funziona nelle congregazioni religiose, ma per la Santa Sede diventa problematico.
La verità è che, pur godendo di prerogative di sovrani assoluti, i Papi hanno sempre governato in maniera collegiale. Giovanni Paolo II fece discutere più volte nel Concistoro la riforma della Curia, che congedò nel 1989, ad esempio, con la Pastor Bonus, mentre Paolo VI amava incontrare i cardinali alla fine di ogni viaggio. Poi, ogni legge prevedeva la consultazione dei dicasteri competenti, con il coinvolgimento di consulenti, che spesso erano laici ed esperti.
Papa Francesco, in questo caso, ha avviato una sorta di consultazione globale con il Sinodo, ma alla fine è andato per la sua strada. Infatti, di fronte alla relazione sintetica del Sinodo, il Cardinale Jean Claude Hollerich, Relatore Generale dell’Assemblea sinodale, ha parlato chiaramente di “resistenza”. Lo stesso Hollerich ha poi concesso un’intervista a la Repubblica in cui ha sottolineato che se alle donne non verranno attribuiti ruoli di responsabilità si saranno dette molte bugie, e ha ribadito che la dottrina sulla pratica omosessuale si può cambiare.
Il linguaggio sembra quello di chi deve mantenere le “promesse elettorali”; la pressione sul Sinodo è quella di dover cambiare le cose per non tradire le aspettative della gente. Papa Francesco ha deciso di lasciarlo accadere, perché ha già il suo piano.
Il terzo aspetto della riforma della Pontificia Accademia di Teologia è, appunto, quello di voler sviluppare una visione, che crei necessariamente un prima e un dopo. Si parla di una teologia “aperta, pastorale e in uscita”, si denuncia una possibile autoreferenzialità, e infatti diventa evidente che i testi teologici sono chiamati ad essere meno scientifici e più legati all’attualità, più pastorali. Il rischio è quello della fine della teologia come materia scientifica.
Il rischio conseguente è che la teologia diventi praticamente irrilevante tra le discipline scientifiche e che venga relegata a una delle tante discipline filosofiche o – peggio ancora – sociologiche. Sembra una questione da intellettuali, ma in fondo non lo è.
Infatti, se la teologia non è considerata una materia di studio rilevante, non lo è nemmeno la religione e tutto ciò che essa dice. Torniamo all’idea diplomatica del “non facciamo Dio” dello spin doctor inglese di Tony Blair Alistair Campbell. Inoltre, siamo aperti anche all’idea di equiparare la Santa Sede a una ONG.
Tutto ciò che la Chiesa ha da dire, allora, diventa rilevante solo se ha un collegamento concreto con la realtà. Diventa, in definitiva, politico. Ma il rischio è che la Chiesa diventi una voce tra tante, amata se dice quello che ci si aspetta dal buon senso, odiata ed emarginata quando dice il contrario. Il rischio è quello di una Chiesa meno libera. Esiste già un’Esortazione apostolica, la Laudate Deum, che si lega a una questione contingente, fa un discorso politico e sarà alla base del discorso che il Papa terrà alla COP28 di Dubai il 2 dicembre. Ma è questo il senso profondo della Chiesa? La Chiesa, infatti, il Papa, è chiamato a parlare con un linguaggio politico, come uno dei tanti leader mondiali.
Il quarto aspetto riguarda la lingua. La riforma della Pontificia Accademia di Teologia ci chiede anche di prendere in prestito categorie che provengono dall’esterno dell’ambito ristretto della teologia. Ma questo è quello che è successo con la teologia della liberazione in America Latina, quando la sociologia marxista ha fornito la base teorica per l’impegno della Chiesa a livello sociale.
Era vero che c’era bisogno di una risposta qui e ora a una crisi, e infatti la Santa Sede non ha condannato tutta la teologia della liberazione. È anche vero che l’utilizzo di categorie non religiose distorce il pensiero critico e teologico della fede. Fino ad oggi l’impegno è sempre stato quello di innovare il pensiero, guardando alla produzione contemporanea, ma senza stravolgerne la mission e le idee. Attualmente c’è il rischio di stravolgere la missione e le idee.
La rivoluzione culturale di Papa Francesco rischia così di riportare la Chiesa in un dibattito nato dopo il Concilio Vaticano II e che sembrava superato. Paradossalmente, volendo andare avanti a tutti i costi, si rischia di tornare indietro. Ciò avviene quando il pensiero è politico e sociologico e perde invece di vista la dimensione religiosa. Ed è vero che il Papa, nel testo di riforma, chiede di sviluppare un pensiero “sapienziale”. Saggezza, però, che rischia di essere semplicemente pastorale o mistica. Bisognerà trovare un equilibrio ed è facile immaginare che molto dipenderà da chi attuerà questa riforma.
Le persone saranno cruciali. Il Sinodo ha dimostrato che la questione culturale è stata molto dibattuta. Sebbene il testo finale abbia ottenuto la maggioranza dei due terzi su tutti i punti, il fatto che ci siano stati 1.251 emendamenti prima dell’approvazione testimonia che la direzione intrapresa dall’Assemblea non è stata quella del cambiamento radicale, né dell’ascolto totale e dell’inclusività, ma piuttosto quella di una Chiesa che ascolta ed è ancorata alla tradizione. Una Chiesa, insomma, che ha cercato di andare oltre la questione del suo impatto sul mondo e di preservare la propria identità.
Papa Francesco, però, aveva già deciso di cambiare paradigma in precedenza e non è tornato indietro. Dal Sinodo ha tratto solo ciò che sembrava confermare la sua idea di Chiesa. La narrazione che ha portato avanti è che ormai il Sinodo è veramente quello pensato da Paolo VI (che però voleva un Sinodo dei Vescovi, non un Sinodo aperto a tutti) e che chi resiste è invece “retrogrado”. E coloro che sostengono questa narrazione rilasciano interviste per dire che non si può tornare indietro da questo nuovo paradigma.
I problemi da affrontare, infatti, sono diversi e, anche se possiamo avere fiducia nella Chiesa, la preoccupazione è legittima. Alcuni sostengono che i Dubia dei cardinali abbiano avuto un impatto sostanziale sul dibattito, portando a un testo finale del Sinodo più debole di quanto si pensasse. La verità è che i Dubia sono sbarcati su un terreno fertile. Hanno parlato delle preoccupazioni di molti. Nella Chiesa, però, spesso non ci mettiamo al centro dell’attenzione. Lavoriamo dietro le quinte per creare comunione.
Probabilmente sarà così anche dopo la riforma della Pontificia Accademia di Teologia. Una riforma che, in ultima analisi, risente del concetto di “teologia spirituale incarnata” del Cardinale Víctor Fernández, della teologia pop del Vescovo Antonio Staglianò, Presidente dell’Accademia, e di un dibattito filosofico che sa molto dell’America Latina degli anni Settanta, quando ci siamo avvicinati all’idea di “transdisciplinarietà” alla ricerca di una sintesi di pensiero che fosse anche un pensiero tipicamente locale, popolare, sudamericano, e che voglia diventare una “teologia delle fonti”.
Il Papa ha indicato una strada, e ora bisogna vedere come la Chiesa potrà svilupparla. Non è sicuro che sarà nel senso in cui la pensa Papa Francesco, ma questo non deve essere preso come un’arretratezza. Si tratta, piuttosto, dell’antica esigenza di innovare la tradizione e l’innovazione, derivante dal fatto che la rivelazione, per la Chiesa, è già arrivata con Gesù Cristo.
Questo articolo nella nostra traduzione italiana è stato pubblicato dall’autore in inglese sul suo blog Monday Vatican [QUI].