Il peso del coraggio. 58° viaggio di solidarietà e speranza in Kenya. Barak, il volto di speranza martire

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Sabato scorso, Mons. Luigi (Don Gigi) Ginami ha fatto un viaggio pericoloso a Mpeketoni, «dove i Cristiani muoiono a cercare il peso del coraggio». Troppi blocchi dell’esercito per l’alto pericolo terrorismo di al-Shabaab, mi ha scritto via WhatsApp con la connessione molto instabile che andava a pezzi durante il viaggio (foto di copertina). Sono stato in apprensione per lui e i suoi compagni di viaggi. Ho acceso una candela davanti all’Icona della Madre del Signore, pregando di proteggerli.

In macchina durante il viaggio.

Da Mpeketoni Don Gigi racconta una storia davvero molto triste. È la storia del ragazzo 19enne Barak, ucciso tre mesi fa, il 24 giugno 2023, dai terroristi di al-Shabaab [1]. Quindi, nel contempo per noi credenti è una storia luminosa di martirio, perché questo ragazzo è a tutti gli effetti un martire. Barak è un martire in paradiso, dice Don Gigi, sperando che protegga l’Associazione Amici di Santina Zucchinelli Onlus e che protegga anche sua zia Pamela, in questa terra pericolosa per i Cristiani.

Dopo la consueta Santa Messa di inizio viaggio, concelebrata domenica 17 settembre nel Santuario Madonna dei Campi di Stezzano, Don Gigi è partito il giorno successivo per il 58° viaggio di solidarietà e di speranza in Kenya. Questo nuovo viaggio è molto impegnativo ed è il più lungo dei 58 compiuti da Don Gigi finora e prevede tra altro l’inaugurazione dalla Fondazione Santina di un sistema di irrigazione dei campi aridi della prigione di Garissa vicino alla Somalia e nella missione di Mpeketoni come abbiamo riferito [QUI].

Dopo aver iniziato il 22 settembre il reportage del 58° viaggio, riportando il Report 58/1 – La bilancia del coraggio [QUI] di Don Gigi, oggi proseguiamo con il suo Report 58/2 – Barak. È la storia di Barak Hussein Odhiambo (20 agosto 2004-24 giugno 2023), il ragazzo ucciso da al-Shabaab perché Cristiano, che sarà il #VoltoDiSperanza N. 44.

Fondazione Santina – Barak ucciso da al Shabaab perché Cristiano, 24 giugno 2023. In questo breve video, Don Gigi è nella Bakanja Secondary School di Mpeketoni con Pamela, la zia di Barak, che per tre anni ha studiato in questa scuola cattolica nel nord del Kenya, dove vivono e studiano dei ragazzi Cristiani.

Report 58/2 – Barak

Non so come iniziare questa terribile e meravigliosa pagina scritta con il sangue di un martire. Voi penserete ad un martire dei primi secoli della Chiesa. Ormai la parola martire la releghiamo per una forma di paura al passato, ma invece questa pagina di sangue ha una data ed è il 24 giugno 2023. Sto scrivendo a Mpeketoni in Kenya, al fresco dell’ombra di un grande baobab, il 25 settembre 2023. Dunque parliamo di esattamente tre mesi fa.

Al-Shabaab in questa area è violento ed aggressivo. Qui si gira con la scorta e si ha paura la notte. Siamo abbastanza vicino alla Somalia e l’islamismo integralista è furente.

Il racconto di questa pagina eroica inizia nella scuola cattolica di Barak, che è nato il 24 agosto 2004 ed oggi avrebbe 19 anni; e finisce in un posto di polizia nell’intento di accompagnare a casa Pamela, la zia di Barak che ha 49 anni. L’Ispettore mi sta mostrando un centinaio di foto del massacro avvenuto nel villaggio di Salama dove Barack è stato sgozzato come un agnello davanti alla zia atterrita. Poi i terroristi si sono spostati in un altro villaggio e li hanno massacrato altri ragazzi [1].

Guardo le foto inorridito: giovani ragazzi sgozzati, sangue per terra, budella, interiora, fegato… spappolati in un’orgia di tortura e pazzia. Le foto scolpiscono nel freddo del cuore quegli attimi terribili, che ho raccolto nei miei appunti. Sono stomacato, disgustato ed inchiodato alla sedia da foto scattate non nel buio del medioevo, ma nelle tenebre del 24 giugno 2023. Sono scattate qui in Kenya in una regione dimenticata da Dio e dagli uomini, e dove ragazzini coraggiosi regalano la loro vita a Dio.

Questo è il peso del coraggio: regalare totalmente, unicamente ed esclusivamente la vita a Dio al punto da perderla, come è successo al povero Barak. Questo ragazzino sgozzato sarà presto dimenticato. Purtroppo la sua storia per il Kenya non deve essere celebrata, ma sepolta e dimenticata per la grande vergogna.

Prima di raccontare il triste e glorioso giorno del 24 giugno scorso, vi voglio dare alcune notizie sulla vita di Barak. Il ragazzo non è originario di Mpeketoni, ma di Kisumo, molto lontano da qui. È il figlio di Daniel e di Rose, Daniel è il fratello di Pamela. Alla morte del padre, avvenuta tre anni fa, la sorella Pamela per aiutare Rose ha detto di voler ospitare per la scuola Barak e così tre anni fa viene a vivere dalla zia con i sei cugini.

“Don Gigi – mi dice Pamela -, Barak era un ragazzo meraviglioso, sempre disponibile ad aiutarmi nei campi, sempre attento alle necessità della casa, servizievole e con i miei figli si era ben inserito. Era divenuto per me come un altro figlio ed è stato terribile per me assistere al suo sgozzamento”.

Mentre ascolto il termine sgozzare, provo un forte brivido sulla schiena e penso alla pratica dei terroristi islamici che sgozzano la vittima come si sgozza un capretto. Poi, raccolgono il sangue come offerta ad Allah. Con quel sangue si bagnano e si fregia come se fosse un titolo di onore ammazzare i Cristiani.

Pamela tra le lacrime racconta la storia, che lascia inorridito me, Jimmy, Suor Angelina e Padre Lukas. Un conto è vedere un film, oppure anche leggere un pezzo di report come questo. Altro cosa è sentire dalla viva voce della zia la terribile morte incontrata da Barak

Ho ricostruito la giornata del 24 giugno ascoltando la testimonianza di Pamela e di Suor Angelina Munyao, la Direttrice della scuola cattolica Bakanja Secondary School di Mpeketoni, dove viveva e studiava il martire Barak.

Siamo a fine mattinata di sabato 24 giugno e Suor Angelina firma e consegna una lettera al giovane Barak: “Oggi iniziano le vacanze e in questo foglio ti ho messo alcune raccomandazioni e notizie per il rientro a scuola. Consegna la lettera alla tua zia Pamela, va bene?” Barak guarda la lettera e dice: “Grazie Sister. sicuramente come dici nella lettera sarò di ritorno lunedì 3 luglio per le tre del pomeriggio”. Barak chiude la lettera nella busta e la ripone nella cartella. Non sa che sta mettendo in borsa la sua condanna a morte.

Felice esce dalla scuola e poi sale su un pumino scassato alla volta del villaggio di Salama, dove la dolce zia lo sta aspettando per la settimana di vacanza. Sceso dal pulmino si incammina verso la casetta, Pamela e i cugini lo accolgono festanti.

«Eravamo tutti felici, pensando di trascorrere una settimana di vacanza insieme, che da tempo avevamo programmato. Barak, molto ligio ai suoi doveri mi consegna subito con accuratezza la lettera della Direttrice: “Zia in questa lettera vi sono tutte le indicazioni per il mio rientro, gli adempimenti scolastici ed i miei compiti… Conservala bene”. Subito leggo la lettera e la metto su una sedia all’ingresso della nostra misera casa, mai pensando cosa sarebbe successo alcune ore dopo. Scende la sera e accediamo il fuoco fuori dalla casa. Ci disponiamo in un piccolo cerchio: io do le spalle alla capanna, alla mia sinistra si siede Barak, poi Morgan un ragazzino di 14 anni nostro vicino e poi alla mia destra vi è Jennifer ed Elisabeth, due mie amiche. Il pretesto del ritorno di Barak ci spinge a chiacchierare serenamente. È una bellissima serata, nulla lascia pensare all’uragano di morte che si sarebbe scatenato dopo qualche momento.
Sono circa le otto di sera il tutto non dura più di mezz’ora. Dal buio della notte spuntano uomini in assetto di guerra, con divise militari, armati e con munizioni a tracolla e giubbetti antiproiettile. Non mi rendo conto di cosa stia succedendo, il cane abbaia e scatena l’inferno, i neri terroristi di al-Shabaab circondano la nostra povera capanna. Sono 35 uomini, tra di loro vi sono dei locali che riconosco nel terrore. Erano venuti a trovarmi con una stupida scusa e mi chiedevano se eravamo cristiani e dove studiava il nipote. Tale azione furente aveva preso consistenza 15 giorni prima.
Il capo degli al-Shabaab grida: “Il confine tra Somalia e Kenya è stato distrutto e i soldati kenioti uccidono i nostri figli come cani! Se il confine rimarrà aperto ci ammazzeranno tutti. E noi siamo qui per questo: per uccidere!” Guarda i due ragazzi e mi dice: “Noi non uccidiamo donne, noi uccidiamo uomini”. Guarda Barak e Morgan e dice: “Voi morirete!”.
A quel punto il piccolo Morgan di 14 anni si alza di scatto e con grande abilità scappa via. Il terrorista grida ai suoi uomini: “Chiudete il cerchio, chiudete il cerchio!” e così i terroristi accerchiano in modo sterrato la capanna, due di loro trascinano Barak in mezzo, lui reagisce con pugni e calci. Io impazzisco, entro in casa, prendo la lettera della Direttrice della scuola, corro dal capo e mostro la lettera: “È solo un ragazzo, un giovane studente, non fa male a nessuno, lasciatelo vivere!” Il terrorista legge l’intestazione e i suoi occhi diventano furente. Mi grida: “Bakanja Secondary School! Perché mi mostri questo foglio?” Con visibile odio mi dice: “È una scuola cristiana, non è una scuola coranica!”
Con il calcio del fucile mi colpisce in pancia e cado per terra, i suoi soldati mi picchiano, ho ancora segni sul corpo della loro malvagia forza. Mentre mi riempiono di botte due terroristi tengono fermo Barak e uno di loro lega i piedi con una fibbia di plastica gialla, quella che si usa per ammanettare, il ragazzo così non può più muoversi. Su di lui arriva un uragano di calci e pugni, di sevizie e di torture. Mentre lo massacrano gli gridano forte nelle orecchie: “Questa terra non appartiene ai Cristiani, vi ammazzeremo tutti se rimanete!” Il ragazzo piange i suoi occhi sono un oceano di terrore».

Pamela scoppia a piangere, singhiozza mentre parla e io provo un sentimento di ribrezzo verso questi grovigli di odio umano, verso questi minorati mentali e squilibrati satanici. Ma provo anche amarezza sconfinata per il povero Barak. Non mi sembra reale. Il racconto è davvero duro. Padre Lukas si alza e va fuori, così pure Suor Angelina che conosce bene la storia. Rimaniamo io e Jimmy con Pamela.

Mi alzo in piedi, la abbraccio forte forte, mi inchino e le bacio i piedi. Si calma, mentre nel mio cuore provo un uragano. Ho gli occhi rossi, non capita tutti i giorni di sentire in diretta un racconto di morte per il nome di Gesù. Provo schifo e terrore anche io, e parlo con il sapore aspro e amaro del martirio che spesso sui nostri altari abbiamo idealizzato, ma che in questa storia mia appare in tutta la sua crudezza.

Asciugo gli occhi di Pamela, ci sediamo e Pamela vomita l’ultima orrenda parte di questo martirio: «Tutta dolorante mi rialzo e il dolore quasi mi scompare nel vedere il dolore, le urla e le grida di Barak: “Non uccidetemi, sono solo uno studente! Sono solo uno studente! Sono solo uno studente! Questo grido al posto di dissuadere i carnefici, li eccita ed è proprio il capo che gli sferra un potente calcio nella pancia al punto di spostare il corpo del ragazzo. Io urlo. Il mio Barak è esanime per la tortura che sta subendo. Il terribile capo, avvolto nel suo kefiar nero come la morte, da un comando in somalo. Si avvicina un giovane, con un piede tiene la testa appiccicata al terreno sul lato destro e lentamente incide con il machete la carotide. Il sangue zampilla, poi gira il volto di Barak dalla parte sinistra ed incide nuovamente. Barak emette due rantoli profondi e poi, annegato nel sangue, muore. Il giovane boia raccoglie il sangue in un recipiente: nella notte potrà fregiarsi il volto e le mani con quel sangue, segno di grande onore per gli sciagurati compagni e motivo di vanto nei confronti di Allah, al quale in questa serata non si è offerto un capretto, ma un ragazzino colpevole di essere studente in una scuola cattolica!».

Ma il macabro rituale non è finito. Pamela continua il suo infernale racconto: «Il capo del comando di al-Shabaab in somalo intima al giovane boia: “Finisci il lavoro!” Lui, il ragazzetto probabilmente della stessa età di Barak, esegue satanicamente il comando. Prende un fucile e sferra un formidabile colpo all’ intestino del martire e poi gira il fucile e spara un colpo. La formidabile botta precedente con il calcio del fucile ha rotto il peritoneo e così l’intestino del ragazzo schizza fuori dopo il colpo di proiettile».

Mentre vi sto scrivendo da questo luogo che mi mette paura, ho in testa le foto di Barak viste due ore fa. Vorrei lasciare Mpeketoni subito. Le pattuglie dell’esercito per la strada mi terrorizzano e il mio pensiero va in Messico dove ho visto tale violenza. Ma qui al-Shabaab ed il suo satanico odio mi spiazza. Siamo fuori dal mondo e domani dovremmo continuare fino a Garissa.

Anche Jimmy è sconvolto. Non abbiamo voglia di parlare o di scherzare. Non so neppure se sono riuscito a scrivere quello che ho nel cuore. Sento però di avervi trasmesso cosa sia il peso del coraggio.

Qui essere Cristiani richiede coraggio, ed essere studenti in una scuola cattolica e non in una scuola coranica, lo richiede ancora di più. Chiedo all’esercito di scortarmi fino alla casa di Pamela, perché mi vuole regalare i sandali del ragazzo. L’Ispettore mi dice: “Don Gigi, non hai visto le fotografie? Non solo è pericoloso per te che hai la pelle bianca, ma molto più pericoloso per me che qui ci rimango. Se non è necessario è meglio che non andiamo”.

Do una dolce carezza a Pamela. Mentre sale su di uno scassato pulmino mi dice: “Torno presto a portarti i sandali di Barak”. Rispondo: “Mi faresti un grande regalo, ma ricordati che domani alle 05.00 parto per Garissa.” “Padre questa sera i sandali saranno alla missione”.

Mi commuovo. Questa volta è lei ad asciugare i miei occhi. Questa meravigliosa donna, con suo monumentale dolore, asciuga le mie stupide lacrime di muzungu [3]. Non mi era mai capitato in questi anni, normalmente mi trovo io ad asciugare lacrime.

Questi sono i sandali che Barak portava, quando gli al-Shabaab lo hanno ammazzato.

Scende la sera su Mpeketoni e nel cuore nasce una preghiera a questo martire, perché mi renda forte e buono come lui. Davvero questi viaggi mi rivoltano come un calzino, mi fanno sentire ribrezzo verso le mie meschinità ed imploro da Dio la grazia di diventare simile a Barak ed alla sua meravigliosa zia.

Chiudo il report. Non sono a Bergamo, ma sono là dove i Cristiani muoiono a cercare il peso del coraggio.

Il letto dove dormiva Barak, che è rimasto vuoto. Il letto di un martire.

[1] Secondo The Star di Nairobi del 25 giugno 2023, almeno cinque uomini sono stati decapitati e molte case date alle fiamme nell’attacco di al-Shabaab, la sera di sabato 24 giugno 2023 nei villaggi di Salama e Juhudi nel distretto di Mkunumbi, contea di Lamu. La zona è tra quelle tese a causa dei timori di attacchi da parte del gruppo terroristico. La regione di confine ha subito il peso dei ripetuti attacchi dei terroristi, che a volte sono aiutati dalla gente del posto. La Somalia non ha avuto un governo stabile dopo la caduta di Siad Barre nel 1991. L’area è vicino al confine con la Somalia e i militanti di solito lo attraversano a piacimento e organizzano attacchi prima di fuggire.
Testimoni e polizia hanno detto che gli aggressori hanno fatto irruzione nei villaggi intorno alle 19.30 di sabato, trascinando le vittime fuori dalle loro case e legando loro mani e gambe prima di giustiziarle. Le vittime erano tutti uomini, compreso lo studente della Bakanja Secondary School, Barak Hussein Odhiambo, 19 anni. Lo studente era tornato a casa per una pausa di metà trimestre prima di incontrare la morte. Testimoni e polizia hanno riferito che un gruppo di oltre 30 uomini, armati di pistole, machete e coltelli, ha colpito nelle prime ore della sera. I testimoni hanno detto che gli uomini indossavano abiti militari. Sono entrati nelle case, hanno poi ordinato ai presenti di sdraiarsi e di non dare l’allarme. Le donne venivano condotte in stanze diverse e successivamente liberate. Gli aggressori hanno massacrato i cinque e successivamente hanno rubato alcuni prodotti alimentari, pollo e capre prima di dare fuoco a un negozio.
L’attacco è arrivato dopo nove anni da quando i terroristi attaccarono Mpeketoni e le aree circostanti, uccidendo 90 persone. Questo era l’ultimo incidente del genere accaduto nell’area nel mezzo delle campagne per affrontare la minaccia del terrorismo. Nel gennaio 2022, i terroristi hanno fatto irruzione negli stessi villaggi di Salama e Juhudi, uccidendo sei persone e dando fuoco a più di 10 case. L’attacco della sera del 23 giugno era arrivato una settimana dopo che due soldati delle forze di difesa del Kenya erano stati uccisi e altri feriti quando il loro veicolo ha investito un ordigno esplosivo improvvisato sulla strada. I terroristi hanno piazzato bombe sulle rotte vicino al confine tra Kenya e Somalia, provocando negli ultimi mesi la morte di almeno 30 persone, compresi agenti di sicurezza.

[2] Al-Shabaab, che tradotto significa “La Gioventù”, è un gruppo militare legato ad al-Qaeda. Il suo obiettivo è la creazione di uno Stato islamico-fondamentalista in Somalia. L’organizzazione nasce, nel 2004, dalla secessione delle fazioni islamiche radicali interne all’UCI (Unione delle Corti Islamiche) all’indomani della sconfitta di queste da parte del GFT (Governo Federale di Transizione) e dei suoi alleati etiopi. In essa sono confluiti il movimento Hizbul Islam (Partito dell’Islam), composto prevalentemente da appartenenti al clan Rahanwein, ed elementi minoritari dei clan Darod e Ishaak, entrambi opposti al GFT. Oltre agli esponenti del clan Rahanwein, tra le personalità più influenti di al-Shabaab si annoverano Sheikh Hassan Aweys, leader di Hizbul Islam e del clan Hawiya, Mukhtar Abu Zubeyr “Godane”, emiro del gruppo nonché veterano del jihad afghano anti-sovietico, e Fuad Mohamed Qalaf “Shongole”, membro del clan Darod.
L’invasione etiope della Somalia avvenuta nel dicembre 2006 ha trasformato al-Shabaab, fino a quel momento solo piccola fazione di un più moderato movimento Islamico, nel più potente e radicale gruppo armato del Paese. Nel corso del biennio 2006-2008 il numero dei membri di al-Shabaab è aumentato a dismisura. All’inizio erano meno di 400, poi mano a mano che i guerriglieri di ideologia islamico-nazionalista confluivano tra le fila del gruppo, sono diventati quasi 5.000. Ad oggi non è possibile fornire un numero preciso perché la popolarità del movimento ha sofferto molto a causa dei suoi metodi brutali adottati a discapito della popolazione somala.
Il Dipartimento di Stato americano ha inserito al-Shabaab nella lista delle organizzazioni terroristiche nel 2008. Nel febbraio 2012 i leader del gruppo hanno reso pubblica la propria alleanza con al-Qaeda. Fin dalla sua nascita al-Shabaab è stato caratterizzato da due correnti. La prima, incentrata sulla figura di Aweys e sostenuta dal clan Rahanwein, è focalizzata sull’irredentismo pan-somalo e sulla volontà di creare un emirato comprendente la Somalia, il nord del Kenya, il Somaliland, e la regione etiope delll’Ogaden. La seconda corrente, guidata da Godane, Shongole e Robow, si ispira invece al pan-islamismo salafita.
Nel luglio 2010 al-Shabaab ha lanciato il suo primo attacco al di fuori del territorio somalo, in Uganda. Durante la proiezione dei Mondiali di calcio nella città di Kampala, i miliziani hanno fatto scoppiare diversi ordigni, causando la morte di 74 persone e ferendone 70. Al-Shabaab ha dichiarato che l’attacco rappresentava una vendetta contro l’uso indiscriminato dell’artiglieria da parte delle truppe ugandesi a Mogadiscio.
A partire dal 2010, la missione keniota “Linda Nchi”, le truppe della Missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) e l’esercito nazionale somalo (ENS) hanno mosso una forte offensiva congiunta contro al-Shabaab. I miliziani sono stati espulsi da Mogadiscio, da Kisimayo e da Baidoa, tre fondamentali basi logistiche. In particolare, Kisimayo rappresentava il quartiere generale dell’organizzazione, il luogo da cui veniva controllato il traffico di carbone, la principale forma di finanziamento di al-Shabaab. Baidoa invece era l’aeroporto attraverso cui giungevano le armi dall’Eritrea. Dal punto di vista numerico, l’offensiva ha causato la morte di 2.000 miliziani.
Nonostante le forti perdite, umane, territoriali ed economiche, al-Shabaab è ben lungi dall’essere neutralizzato. I comandanti hanno avuto l’abilità di ripensare la loro strategia, tornando ad essere una forza asimmetrica. I miliziani hanno infatti abbandonato l’utilizzo di brigate numericamente consistenti (circa 200 unità ciascuna) e si sono riorganizzati in piccole squadre (10-15 componenti ciascuna) facenti capo a un comandante con vasta esperienza di guerriglia.
Il gruppo è oggi ancora presente nelle regioni meridionali della Somalia, ma l’invasione delle truppe keniote ha spinto molti miliziani verso nuovi fronti del jihad globale, come lo Yemen, dove è già forte la presenza delle brigate di al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQPA). Un report pubblicato nel 2010 da Human Rights Watch ha descritto come rigidissima l’amministrazione della società da parte di al-Shabaab nei territori occupati. Il gruppo islamico proibisce ogni sorta di assembramento di persone (perfino in occasione dei matrimoni), l’utilizzo delle suonerie dei cellulari, la musica e i film occidentali, e l’uso del reggiseno, ritenuto una sconsiderata pratica occidentale. Le punizioni sono molto dure, e vanno dalla confisca dei beni alle amputazioni, passando per il taglio dei capelli e le frustate. Le donne sono obbligate a indossare l’abaya, un velo che copre l’intero corpo, e non possono viaggiare senza un accompagnatore di sesso maschile. Non possono prendere parte a nessuna attività legata al commercio.
Il 2 aprile 2015 i miliziani di al-Shabaab hanno fatto irruzione nel campus universitario di Garissa, compiendo una strage, con almeno 148 morti e decine di feriti. L’episodio dimostrava che al-Shabaab, nonostante abbia perso molti dei suoi territori e delle sue fonti di reddito rispetto agli anni precedenti, conservava ancora una capacità di compiere attentati terroristici con poche spese, e abbia subito una trasformazione quanto ai propri scopi non aspirando più al controllo del territorio ma ad operazioni di guerriglia.

[3] Muzungu viene chiamato in Africa la persona che non ha la pelle color ebano, al plurale diventa wazungu. Però, la parola non vuol dire “uomo bianco”, né tanto meno “occidentale”, categoria tutta nostra.
È una parola bantu, derivato dal kiswahili “mzungu”. Togliendo il prefisso, rimane la radice “zungu”, un aggettivo tradotto con “strano o meraviglioso”. Poi zungu o zunguka è la parola per indicare il girare nello stesso punto che tradotto letteralmente, quindi significa “qualcuno che va in giro” o “vagabondo”, originariamente appartenente agli spiriti. Il termine fu usato per la prima volta in Africa per descrivere commercianti ed esploratori arabi, indiani ed europei nel XVIII secolo, apparentemente perché si muovevano senza meta.
Il termine non riferisce soltanto a “qualcuno con la pelle bianca”, perché può essere usato per riferirsi a tutti gli stranieri più in generale. Però, traslare il significato da “strano” a “straniero”, rischia di far perdere quella sfumatura cruciale che rivela lo stupore che gli Africani hanno probabilmente provato, di fronte ai primi stranieri, percepiti, non tanto come stranieri (in senso politico), ma come esseri strani, appunto; con quella pelle così diversa, ricoperta di peluria, magari con gli occhi color del mare e i capelli lisci, come il crine della zebra e rossi come la sabbia del deserto, padroni di tecniche e tecnologie (buone e cattive, capaci di guarire e di uccidere), incomprensibili e per questo meravigliose.
Il possessivo kizungu si traduce come “comportarsi da ricchi”. Tradizionalmente, gli europei erano visti come persone benestanti e ricche e quindi la terminologia è stata estesa per indicare persone benestanti indipendentemente dalla razza.

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