Il peso del coraggio. 58° viaggio di solidarietà e speranza in Kenya. La bilancia del coraggio

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 22.08.2023 – Vik van Brantegem] – Dopo la consueta Santa Messa di inizio viaggio, concelebrata domenica 17 settembre nel Santuario Madonna dei Campi di Stezzano, Mons. Luigi (Don Gigi) Ginami è partito il giorno successivo per il 58° viaggio di solidarietà e di speranza in Kenya. Questo nuovo viaggio è molto impegnativo ed è il più lungo dei 58 compiuti da Don Gigi finora e prevede tra altro l’inaugurazione dalla Fondazione Santina di un sistema di irrigazione dei campi aridi della prigione di Garissa vicino alla Somalia e nella missione di Mpeketoni come abbiamo riferito [QUI]. Oggi iniziamo il reportage del viaggio, riportando il suo Report 58/1 – La bilancia del coraggio.

Da queste parti il coraggio ha ancora un peso, perché sua bilancia è speranza nella notte più buia della miseria del piccolo e sperduto villaggio di Anastasia.

Con la piccola Anastasia, perfettamente guarita e la sua mamma Nema.

Report 58/1 – La bilancia del coraggio

Se il coraggio ha un peso, vi deve essere una bilancia per misurare il suo valore. Sono in Africa da soli tre giorni e la natura cura il cuore e l’anima. La nuotata tonificante nelle acque dell’Oceano Indiano e una corsa lungo la spiaggia con la sabbia di farina bianca, ritemprano all’alba il fisico per la giornata. E questa volta si tratta di un viaggio di ben 24 giorni. Nulla a che vedere con i viaggi di 8-10 giorni di quando lavoravo in Segreteria di Stato e… non sono più 52 anni ma ben 62. Eppure in tutte le mie contraddizioni ed ottusità, l’entusiasmo mi sembra sempre lo stesso, anzi libero dall’ufficio.

L’entusiasmo sembra aumentare di anno in anno, perché l’incontro con i poveri e gli ultimi, il confronto con loro, è una benzina raffinata per il motore della mia vita. Come l’incontro di ieri sera con la piccola Anastasia, che voi ben conoscete, nel buio di un misero villaggio nell’area di Mashabaha. Se vi ricordate, Anastasia è una bimba di circa un anno che nel gioco aveva messo la sua manina nel fuoco e prendendo tra le sue mani un carbone ardente si era ustionata profondamente [QUI]. Abbiamo dedicato proprio a lei un libro dal titolo Anastasia [QUI], nel quale mostro la triste vicenda della piccolina, la nostra corsa al dispensario, le dolorose cure mediche ed il costo di alcune medicine per curare la bimba. La bimba rischiava la setticemia: ricordo ancora le strazianti urla della piccola mentre il medico toglieva brandelli di pelle ustionata e piccole porzioni di carne dalla manina tanto piccola e delicata. Con Jimmy tornammo a visitare la piccola al suo villaggio alcuni giorni dopo, aveva le manine fasciate ma sorrideva felice.

Fondazione Santina – In Kenya la piccola Santina compie sette anni.

Finita ieri la visita all’orfanotrofio di Mambrui per incontrare la piccola Santina, al tramonto diciamo con Jimmy di andare a fare visita ad Anastazia. Si unisce a noi Nello Petrucci, un famoso artista di strada, che è molto curioso di visitare un povero villaggio. Partiamo in modo e la magia dell’Africa mi rapisce gli occhi ed il cuore. Il sole sta tramontando e la mezzaluna si alza in cielo. La natura si riempie di magici colori ed è difficile fermare nell’animo una preghiera al creatore.

La moto guidata da Baraka lascia la statale e si inerpica per sentieri polverosi. Mentre la moto continua il suo viaggio, Baraka accende i fari: “Gigi, sta scendendo la notte e tra poco non vedremo se non il buio più nero. Guardo avanti, sull’altra moto vi è Jimmy e Nello che con il telefonino sta riprendendo tutto pieno di emozione per la inaspettata avventura di percorrere sentieri dimenticati nella notte africana.

E così finalmente, dopo mezz’ora arriviamo al villaggio. Scendiamo dalle moto. I fari si spengono e piombiamo nel buio più nero che mi coglie sprovvisto. Non esiste luce elettrica, non vi è generatore e tantomeno è acceso un fuoco per la cena, perché con ogni probabilità non vi è niente da cucinare. Sembra tutto una enorme macchia di inchiostro nero.

Alcuni bambini festanti ci accolgono, vedere un muzungu [1] è sempre una attrazione per questi piccolini. Alcuni gridano jambo [2], altri gridano il nome di Jimmy, altri invece il mio. Pieni di allegria i riconoscono e questa loro allegria esplode nel mio cervello con grande dolore. Come è possibile tanta gioia in un ambiente tanto, ma tanto buio? Dove trovano questa forza i bambini? Immaginati per un istante di spegnere tutte le luci di casa tua, di non avere luce e di passare una serata al buio. Solo per questo semplice fatto, probabilmente andremmo in depressione. Ma immaginati di non avere nulla da mangiare e di vivere in una squallida capanna dove dei vecchi e consunti pagliericci sono la tua misera abitazione.

Provo profondo disagio in quel buio. Vorrei prendere la moto e scappare alla luce, ma sono alla ricerca di una bilancia, la bilancia del coraggio. Ed allora mi interrogo profondamente, accoltello i fantasmi che ho nel cuore e che vengono con me dall’Italia. Quando vedi che le pietre di solidi rapporti umani, che con fatica hai costruito si spezzano e ti ritrovi da solo; costruisci con una persona rapporti profondi fatti di riflessione, condivisione e preghiera, e poi? Vengono meno… Sono rapporti per i quali ti sei messo in gioco, ti sei compromesso e tutto finisce. Anche il cambio di casa ti crea disorientamento. Sono tre mesi che abito in una bellissima casa e non mi sono ancora abituato. Cerchi risposte e non le trovi. E inchiostro nero appare attorno a te.

Ieri sera, a Mashabaha, tutti questi fantasmi al buio sono usciti dal cuore, perché i fantasmi si mostrano nel buio. Mentre sono completamente assediato dai miei fantasmi notturni, mi sento tirare i pantaloni. Guardo in basso e vedo i contorni di un piccolissimo bambino nero sporco, che mi tira festante i pantaloni. Troppo buio. Alzo il bimbo e sento tutto il suo sederino sporco di pupù e bagnato di pipì. Le mani si sporcano. Lo metto davanti agli occhi, sembra un fuscello tanto è leggero. Lo guardo negli occhietti. Nella notte nera, senza luce e fuoco. Il bianco degli occhietti risalta potente e esclamo pieno di gioia: “Anastasia!” Lei sorride divertita e mi stampa in fronte un grande bacio. Quel bacio pieno di affetto è una bomba atomica che polverizza i miei superbi e stupidi fantasmi. Non ci sono più, esiste solo lei ed il suo bacio forte di vita e di affetto. La stringo forte forte al mio petto e mi fa bene al cuore sentirla vicina al mio vuoto, lo riempie, lo cancella.

Con Nema, la mamma della piccola Anastasia.

I bambini continuano a schiamazzare festanti per la nostra visita improvvisa. Nello pieno di stupore entra nelle povere capanne e rimane profondamente impressionato. Me la vorrei mangiare, la mia piccolina. Per il sentiero giunge di corsa Nema, la mamma di Anastasia. Corre, perché i bambini le hanno detto che vi è il padre muzungu al villaggio. Anche lei con grande slancio supera i pochi passi e con forte impeto mi abbraccia tutta sudata.

Anche questo meraviglioso abbraccio di una povera ragazza di 22 anni fa bene al mio cuore e mi curano dentro. Come il dottore aveva curato la manina di Anastasia staccando brandelli di pelle e carne morta, loro due, mamma e figlia, riescono a staccare dal mio cuore brandelli di carne e pelle morta costituiti da un passato ancora non profondamente superato e da tante relazioni morte e sepolte dalla celebre frase: “Gigi, guarda che io ci sono sempre e ti voglio sempre bene!” Queste frasi non sono solo di oggi, vengono da lontano dal 2005 all’arresto cardiaco di mia madre, vengono dal 2012 con la sua morte e finalmente dal 2021. Anastasia e Nema con il loro bacio ed abbraccio sudato mi curano e mi danno coraggio anche ora, mentre sto scrivendo il mio report sotto una palma prima di visitare il carcere di Mtangani.

In tutto quel buio, in tutta quella miseria, con Nello ci confrontiamo: “Gigi, mai avrei creduto di vedere una cosa del genere! Chi immaginava un abisso di povertà simile mentre io a Napoli vivo nel benessere. Vedo l’artista molto partecipe e commosso. Le passo Anastasia in braccio e lui felice la riceve. Penso che anche a lui Anastasia abbia strappato brandelli di carne e pelle morti. “Devi sapere Nello che la mia piccolina nel mese di marzo aveva messo la manina destra nel fuoco ed aveva riportato una importante ustione. L’ho portata al dispensario e l’abbiamo curata. Mentre la piccola urlava dal dolore si stringeva contro di me, le sue urla mi assordavano e le sue lacrime mi bagnavano la maglietta. Alcuni giorni dopo però giocava festante qui, pur con la manina bendata”.

“A proposito – mi rivolgo a Nema -, non ha avuto più problemi? E la cicatrice?” Nema con un gesto elegante quanto solenne e potente prende lentamente la bimba dalle braccia di Nello ed ancora più lentamente con occhi pieni di gioia, con occhi che scoppiano di felicità in silenzio lentamente mi mostra la manina di Anastasia. Guardo con attenzione la manina destra, la scruto meticolosamente, prendo l’altra manina nella convinzione che Nema abbia sbagliato. Lei con forza e decisione prende la mia mano e mi ridà la manina destra di Anastasia: NULLA. Assolutamente più nulla, non vi è cicatrice! “Nema nulla, niente di niente! Ma questo per me è un miracolo”. “No Gigi, questo non è un miracolo, questa è la bravura del dottore, questa è la tua determinazione nel portarla al dispensario contro le mie resistenze, questo è il frutto di 1.500 scellini che ci avete regalato (11,50 euro) e che hanno saputo cancellare la cicatrice del dolore. Troppo buio per fare una foto, ma ci tornerò.

Quella manina si trasforma per me nella bilancia del coraggio, che stavo cercando. Il coraggio parte sempre da una speranza. Ed è proprio la speranza, la bilancia del coraggio. Più nel tuo cuore coltivi speranza e più cresce il coraggio, il coraggio di una fede che anche nell’imbrunire e nella notte spera nell’alba.

Nema vede la mia sorpresa e con dolcezza inizia un discorso bellissimo: “Gigi, ho saputo da Jimmy che avete aperto un programma che si chiama #AnastasiaProgram, sono orgogliosa che il dolore della mia piccolina sia divenuto speranza per tanti piccoli bambini che giocando si feriscono, o bruciano od addirittura riportano fratture”.

Nema è molto dolce ed orgogliosa del programma che prende nome da sua figlia. Nel buio della notte inizio a parlare: “Nema, quel giorno mentre la tua bambina urlava dal dolore il medico cambiava garze piene di sangue con delle nuove pulite per tamponare. Ho rubato una di quelle garze con il sangue di Anastasia. Bianca a Bergamo ha messo quella garza in una elegante scatolina, ed ogni volta che la guardo prendo forza. Ma sai che il dolore della tua bambina ha provocato la guarigione di 21 bambini in un solo mese? Ho i loro nomi e l’elenco dei traumi riportati è lungo e articolato.
Questo programma in Italia ha avuto un buon successo grazie ad un sito cattolico Korazym.org, che ha pubblicizzato la nostra iniziativa, raccogliendo tante adesioni [QUI, QUI e QUI]. In questo viaggio, voglio incontrare nuovamente il dottore al dispensario e con Jimmy far partire un bel programma per l’anno 2024. Che ne dici? Il dolore di tua figlia, come quello di mia madre Santina, si è trasformato in opportunità di bene per coloro che soffrono”. La giovane donna mi guarda con grande gioia e mi dice: “Dio ti benedica padre per il bene che fai ai più poveri ed agli ultimi!” La lascio con una carezza e nel buio della notte salgo in moto, è ora di rientrare.

Ieri sera mi sono addormentato gustando ancora il bacio di Anastasia e l’abbraccio di sua madre Nema. Penso davvero che questo viaggio sia iniziato in modo splendido e spero presto di mostravi come da queste parti il coraggio ha ancora un peso, perché sua bilancia è speranza nella notte più buia della miseria del piccolo e sperduto villaggio di Anastasia.

[1] Muzungu viene chiamato in Africa la persona che non ha la pelle color ebano, al plurale diventa wazungu. Però, la parola non vuol dire “uomo bianco”, né tanto meno “occidentale”, categoria tutta nostra.
È una parola bantu, derivato dal kiswahili “mzungu”. Togliendo il prefisso, rimane la radice “zungu”, un aggettivo tradotto con “strano o meraviglioso”. Poi zungu o zunguka è la parola per indicare il girare nello stesso punto che tradotto letteralmente, quindi significa “qualcuno che va in giro” o “vagabondo”, originariamente appartenente agli spiriti. Il termine fu usato per la prima volta in Africa per descrivere commercianti ed esploratori arabi, indiani ed europei nel XVIII secolo, apparentemente perché si muovevano senza meta.
Il termine non riferisce soltanto a “qualcuno con la pelle bianca”, perché può essere usato per riferirsi a tutti gli stranieri più in generale. Però, traslare il significato da “strano” a “straniero”, rischia di far perdere quella sfumatura cruciale che rivela lo stupore che gli Africani hanno probabilmente provato, di fronte ai primi stranieri, percepiti, non tanto come stranieri (in senso politico), ma come esseri strani, appunto; con quella pelle così diversa, ricoperta di peluria, magari con gli occhi color del mare e i capelli lisci, come il crine della zebra e rossi come la sabbia del deserto, padroni di tecniche e tecnologie (buone e cattive, capaci di guarire e di uccidere), incomprensibili e per questo meravigliose.
Il possessivo kizungu si traduce come “comportarsi da ricchi”. Tradizionalmente, gli europei erano visti come persone benestanti e ricche e quindi la terminologia è stata estesa per indicare persone benestanti indipendentemente dalla razza.

[2] Jambo in kiswahili è molto simile al nostro “ciao” o buongiorno”. Jambo è un tipico saluto africano che si fa tutte le volte in cui si incontra una persona, ed è particolarmente utilizzato nel linguaggio comune in quanto è un termine immediatamente in grado di trasmettere simpatia e solarità. È dunque una delle parole più comuni che si sente pronunciare frequentemente nei Paesi dell’Africa subsahariana e perciò è la prima parola che si impara, il saluto universale. In Italia solo in contesti particolari, come in alta montagna, è usanza salutare le persone che non si conosce. Da noi, di fatto, non ci si saluta quasi più. Poi, visto che è il saluto in kiswahili più facile da pronunciare, è la prima parola appresa da chiunque arrivi in visita. Quindi, i turisti ne fanno largo utilizzo durante la loro permanenza, al punto tale che amano farla propria e utilizzarla ogni qualvolta incontrano un abitante del luogo, che risponderà a sua volta divertito con un altro jambo in segno di stima.
Anche perché è un saluto rivolto rigorosamente con il sorriso di chi non ha bisogno di niente per essere felice.

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