Trieste è la prima diocesi a scegliere di contrastare le parole violente sul web

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Mons. Enrico Trevisi, vescovo di Trieste, nelle settimane scorse ha firmato il ‘Manifesto della comunicazione non ostile’, diventando così la prima diocesi italiana a confermare il suo supporto al decalogo ideato dall’Associazione ‘Parole O_Stili’, nata nel 2017 con l’obiettivo di portare avanti un’azione di sensibilizzazione per contrastare l’uso violento delle parole e la comunicazione aggressiva online.

Un canale, quello di internet e dei social che, stando alle ultime rilevazioni della banca dati Ipsos svolte su un campione di 1.000 italiani maggiorenni, è gestito in maniera efficace da parte della Chiesa nella comunicazione ai fedeli per il 63% del campione intervistato, dato che sale all’87% nel caso dei credenti più impegnati e, in ogni caso, non scende sotto il 39%, incidenza registrata tra chi non segue alcuna religione.

Nella percezione generale, soprattutto negli ultimi anni, strumenti come social network e blog hanno facilitato una maggiore vicinanza alle questioni legate a spiritualità e religione per il 40% degli intervistati, dato che, guardando ai segmenti delle diverse fasce di età, sale al 45% per i ‘millennials’, mentre a essere maggiormente scettici sull’efficacia della comunicazione social da parte della Chiesa sono i baby boomer tra i quali il dato scende al 35%. Più fiduciosi sono invece gli over 75, il 67% dei quali è convinto che questi canali abbiano contribuito ad avvicinarli maggiormente alle questioni spirituali.

La firma rappresenta un’ulteriore tappa di consolidamento nel rapporto tra Parole O_Stili e la diocesi di Trieste, avviato proprio in occasione dell’ultima edizione del Festival della ‘Comunicazione non ostile’ nel maggio scorso, nel quale mons. Trevisi aveva annunciato la volontà di sottoscrivere il Manifesto, come aveva dichiarato:

“Nella comunicazione digitale siamo ancora apprendisti. La firma del Manifesto della comunicazione non ostile non è una meta ma una responsabilità: si tratta di importare nel digitale quella bella umanità che traspare nei Vangeli.

Se talvolta gli strumenti sembrano giustificarci nell’usare parole violente, stili aggressivi, impeti irragionevoli, occorre invece recuperare il valore della Parola, che è un ponte, come la Parola di Dio che si è fatta carne, ponte tra l’umano e il divino”.

La presidente dell’associazione, Rosy Russo, Rosy Russo, ha espresso che tale firma possa coinvolgere le altre diocesi: “Credo che la parola chiave delle nostre vite onlife sia consapevolezza. Una questione importante da affrontare, non soltanto per gli utenti laici ma anche per un vescovo, un parroco, un sacerdote o una religiosa.

Perché il digitale è un luogo abitato da tutti e da tutte, che sta cambiando profondamente le relazioni tra le persone chiedendoci così di rivedere il nostro modo di evangelizzare, di testimoniare e di condividere la fede.

Il lavoro di ascolto portato avanti all’interno del Sinodo digitale, al quale ho personalmente partecipato, ha evidenziato con forza questa necessità anche nella Chiesa. E’ per questo che il nostro augurio è che il Manifesto diventi la firma di tutti, parrocchia dopo parrocchia. Anche alla luce delle prossime sottoscrizioni che coinvolgeranno le diocesi di Grosseto, Pinerolo e Brindisi-Ostuni con i vescovi mons. Giovanni Roncari, mons. Derio Olivero e mons. Giovanni Intini”.

E, concludendo il festival delle ‘Parole O_Stili’, dedicato alle ‘scelte di pancia, di testa e di cuore’, svoltosi nei mesi scorsi a Trieste, Rosy Russo, ha affermato: “Ogni scelta prevede un’assunzione di responsabilità soprattutto se si è un personaggio pubblico, un influencer o un politico. La parola deriva dal latino ex-legere ovvero separare la parte migliore di una cosa dalla peggiore, eleggere ciò che par meglio. ‘Parole O_stili’ è la parte migliore della rete. Noi la scegliamo con la testa, un po’ con la pancia ma soprattutto con tantissimo cuore”.

Quindi a Rosy Russo abbiamo chiesto, a distanza di mesi dalla conclusione del festival, di raccontarci come vivono i giovani l’attesa nell’era di Whattsapp: “Purtroppo non la sanno gestire, perché online i tempi di attesa sono quasi nulli: c’è sempre qualcosa da ‘scrollare’ (tradotto: contenuti da scorrere). Mi spiego meglio: WhatsApp è stato creato per soddisfare l’esigenza di una comunicazione veloce e diretta, una rapidità che ormai si riflette in molti aspetti delle nostre vite, portando spesso a una disabitudine ai momenti di pausa ed all’attesa.

Questo, ovviamente, è un problema; invio il messaggio, le due spunte mi dicono se e quando il messaggio è stato visualizzato, il codice comportamentale di WhatsApp mi spinge a rispondere subito… e quando la risposta non arriva, provo ansia. In questo modo però dove si trova il tempo dell’elaborazione? Della riflessione? Di un silenzio discorsivo? Prendiamo ad esempio il tema della noia: è un’esperienza importantissima che nell’era degli smartphone è quasi azzerata”.

Cosa significa ‘parlare con il cuore’, come ha invitato il papa nel messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali,  nel mondo dei social?

“Credo che parlare con il cuore sia molto legato al “sentirsi accolti’, perché come dice Maya Angelou: ‘Le persone possono dimenticare ciò che hai detto, ciò che hai fatto, ma non dimenticheranno mai come le hai fatti sentire’. E’ possibile scegliere questo modo di comunicare anche sui social? Penso proprio di sì. Si tratta di far prevalere non la forza delle idee, ma il desiderio di incontrarsi, cercando quello che ci unisce più di quello che ci allontana, scegliendo le ‘parole ponte’; come suggerisce il quinto principio del Manifesto della comunicazione non ostile. E così, anche i social possono diventare il mezzo per raggiungere quelle che Papa Francesco chiama le ‘periferie esistenziali’; delle persone, fatte di solitudini profonde in un mondo iperconnesso”.

Il ‘problema’ potrebbe essere il rapporto tra genitori e figli: come colmare questa distanza?

“Personalmente sono sempre molto severa con i genitori. E lo sono anche con me stessa, dato che sono madre di quattro figli. Perché sta a noi fare il primo passo per colmare questa distanza, e per farlo dobbiamo tenere ben a mente tre parole chiave: – apertura, senza lasciarci condizionare da pregiudizi nei loro confronti ma consapevoli che siamo diversi, che apparteniamo a generazioni digitali diverse; – Interesse, per quello che sono, che fanno e che sentono. Interesse anche per i social che abitano, per gli influencer che seguono e per le persone che incontrano online.

Vivere la Rete non è un’esperienza ‘virtuale’, anzi è dannatamente reale e come tutti i luoghi reali ha una loro cultura. Non dobbiamo commettere l’errore di ritirarci sull’Aventino delle nostre convinzioni che ci rendono, effettivamente, dei ‘boomer’; Regole, perché per comunicare sono necessari dei criteri condivisi, così come sono fondamentali per navigare in Rete.

Ad esempio, il tempo è una regola imprescindibile che ci permette di circoscrivere l’esperienza digitale all’interno di specifici momenti, non permettendo l’invasione di altri come quello per giocare, per studiare o per stare con gli amici”.

I social possono accorciare le distanze delle relazioni?

“Assolutamente sì, ma è essenziale che autenticità e identità siano le due protagoniste del dialogo; oggi si rischia di confondere lo strumento con il contenuto. Le mie scuse non varranno di più solo perchè te le faccio su Instagram, ma perché le parole o immagini che sceglierò di usare racconteranno realmente la mia fatica e la voglia di riconciliarmi con te”.

In quale modo poter distinguere il reale dal virtuale?

“Dobbiamo riappropriarci di alcuni spazi, anche fisici, che per comodità spesso scegliamo di non abitare. Perché il calore di un abbraccio o la bellezza di uno sguardo fuori da un monitor non possono essere delegati a social e algoritmi. Anche se tutto questo richiede più fatica”.

La comunicazione ha bisogno di Parole O_Stili?

“Ancora sì, purtroppo. Perché vivere la Rete richiede educazione e cultura, e ancora queste mancano. Le attività e le iniziative di Parole O_Stili provano a lavorare proprio sullo sviluppo di questa consapevolezza”.

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