Papa Francesco e la cancel culture nella stessa Chiesa

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 08.05.2023 – Andrea Gagliarducci] – Quando dieci anni fa Papa Francesco fu eletto, fu subito chiara la decisione di riscrivere parte della storia recente della Chiesa. Lo hanno detto la straordinaria enfasi data ai gesti di Papa Francesco, l’attenzione dei media, ma anche alcuni gesti compiuti dallo stesso Francesco fin dall’inizio.

In questi dieci anni di pontificato, Papa Francesco ha alternato tradizione e innovazione, ma senza dare davvero alle due parole un significato profondo. La sua scelta di dare la berretta cardinalizia a Lorenzo Baldisseri, Segretario del Conclave, era in linea con quanto si diceva avesse fatto anche Giovanni XXII [QUI], in altre circostanze. Tuttavia, le sue decisioni sulla Curia sono discutibili e puntano a una teologia che era stata messa da parte anni fa.

L’idea di un papato missionario, mettendo da parte l’istituzionalità [QUI]; il desiderio di un centro che sia realmente al servizio delle periferie, abbandonando le vecchie strutture di potere; la dialettica sui problemi della Chiesa istituzionale e quindi l’attacco al clericalismo; tutte idee che si erano diffuse durante e dopo il Concilio Vaticano II e che erano esplose in modo virulento nei dibattiti.

Paolo VI cercò di tenere la barra dritta. Istituì il Sinodo dei Vescovi, e soprattutto promulgò Humanae vitae, un’enciclica che riaffermava l’insegnamento tradizionale della Chiesa [QUI] e che, di fatto, spazzava via ogni tentativo di andare oltre il depositum fidei. Quell’enciclica fu molto contestata, eppure l’adesione ai principi di quell’enciclica fu molto ampia, quasi totale. Il Cardinale Karol Wojtyła, infatti, ha sottolineato che l’enciclica avrebbe dovuto essere legata al tema dell’infallibilità [QUI], sottolineando come il Papa non abbia presentato un’opinione, ma abbia riassunto la corretta dottrina.

Insomma, c’era un dibattito in corso, che i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano cercato di risolvere. Giovanni Paolo II lo aveva fatto ricercando un dialogo costante sui temi della fede, e al tempo stesso creando istituzioni autorevoli. L’approccio di Benedetto XVI è stato quello di sottolineare sempre la centralità di Cristo – e in modo particolarmente simbolico con la pubblicazione dei libri su Gesù di Nazareth.

Queste sono decisioni simboliche che sono molto rivelatrici. Benedetto XVI ha voluto aggiungere due parole al tema del Convegno di Aparecida, che ha avuto Bergoglio come relatore generale, che è stato “Perché i nostri popoli abbiano la vita”. Con Benedetto XVI è diventato “Perché i nostri popoli abbiano la vita in lui” [QUI].

Giovanni Paolo II, da parte sua, ha cambiato la struttura del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), facendone un Consiglio composto dai Presidenti delle Conferenze Episcopali e non più dai vescovi delegati. In questo modo ha elevato il dibattito dei vescovi europei dando loro maggiore autorità. Il corpo è diventato un corpo di presidenti, e i dibattiti europei potevano facilmente diventare dibattiti nazionali, perché venivano trasferiti dai presidenti alle assemblee.

Una vittoria per la Curia? Un libro, Storia di una sconfitta, di Francesca Perugi [QUI], sostiene di sì. Si evidenzia infatti come quello che era un “focolare” a San Gallo – sede del CCEE – sia stato invece messo da parte da un nuovo protagonismo della Curia romana, e che quindi tutto quel seme del grande dibattito postconciliare avesse stato spazzato via.

Tra i guerrieri del dialogo e i guerrieri della cultura, Giovanni Paolo II avrebbe scelto i secondi, ponendo fine alla grande esperienza del focolare sangallese che si era formato intorno al Cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano e per diversi anni presidente di quel Convegno.
Queste sono parole che vogliono spezzare la narrazione sulla “Sankt Gallen Mafia“, lanciata in particolare da un libro della storica Julie Malone, che invece nota come il gruppo fosse strutturato per un vero e proprio “colpo di Stato”, puntando prima su Bergoglio come candidato al conclave del 2005, e poi accettando di convergere su Ratzinger per evitare la candidatura del Cardinal Ruini. Infatti, Ruini sarebbe stato l’esponente di quella svolta di “guerrieri culturali” che Giovanni Paolo II avallò al Convegno ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana nel 1985. Insomma, Giovanni Paolo II avrebbe chiuso ogni esperienza di dibattito e di collegialità, imponendo il proprio modello, e mostrando così ancora una volta lo strapotere di una Curia che non voleva che emergessero le periferie.

Ma è davvero così? Papa Francesco sembra dare credito a questa idea, e le sue decisioni sono andate tutte verso una progressiva decostruzione della Curia e delle strutture di potere. Nessun incarico è certo con Papa Francesco, nessun titolo arriva automaticamente, e tutto va compreso all’interno di uno spirito missionario che è quello che spinge avanti la riforma della Curia. Allo stesso tempo, però, nulla avviene senza l’autorizzazione del Papa, nessuna decisione può essere autonoma e, in un luogo dove gli incarichi e anche le “regole di ingaggio” possono cambiare rapidamente, l’unico punto di riferimento diventa il Papa, con la sua personalità e le sue decisioni.

Papa Francesco canalizza la narrazione antiromana in molti dei suoi discorsi, e fin dall’inizio ha usato l’espressione “la vecchia Curia” per riferirsi a un gruppo di curiali fedeli che sono rimasti attaccati alla Chiesa, e in particolare a coloro che si sentivano erano stati “sconfitti” dagli ultimi due pontificati.

Pure nei Concistori, Papa Francesco non ha mancato di “riparare” simbolicamente i presunti torti che avevano subiti, inserendo spesso i cosiddetti “cardinali di riparazione” (come gli ex nunzi Rauber, le cui raccomandazioni per la nomina dell’Arcivescovo di Mechelen-Brussel non sono state seguite, e Fitzgerald, riassegnato dall’importantissimo incarico di Segretario del dicastero per il dialogo interreligioso a inviato diplomatico in Egitto).

Non sappiamo se queste mosse del Papa siano state una concessione per evitare pressioni, o per adesione ideologica. Eppure è da notare come ci sia, all’interno della Chiesa stessa, una cancel culture [*] che sta cercando di riscrivere la storia, mostrando in chiave negativa tutto ciò che andrebbe contro la mentalità corrente o a favore delle istituzioni. Le istituzioni sono considerate quasi cattive, mentre un governo personalista è accettato senza problemi. È un paradosso, ma è la realtà del giorno.

Il fatto è che abbiamo una Chiesa che non conosce se stessa [QUI], e non comprende nemmeno l’importanza della storia e del suo passato. La Chiesa è sempre stata ossessionata dal passato, dal ritorno alle origini, perché nell’esperienza di Cristo tutto si ricapitola. Oggi, invece, il passato sembra essere un peso e le decisioni vengono prese senza nemmeno considerare le esperienze precedenti. È un mondo in cui la finzione prevale sui fatti. E in cui viviamo il dramma di ecclesiastici più interessati a una certa narrazione che alla storia della Chiesa, della sua tradizione, della sua vita.

C’è confusione tra decisioni pratiche e adesioni ideologiche. Certo, c’era voglia di un colpo di stato narrativo, con l’elezione di Papa Francesco. Non è una coincidenza che Austen Ivereigh ha parlato di un vero e proprio “Team Bergoglio” [QUI], che si riuniva a San Gallo (“eravamo una specie di mafia”, ha detto il Cardinal Danneels scherzando solo a metà), ma che non era il “cenacolo” della CCEE. Non a caso, il pontificato ha avuto questo impatto mediatico. Eppure, quando si trattava di studiare l’Humanae vitae, il Professore Gilfredo Marengo, non certo un conservatore, ha riconosciuto: Paolo VI non agì da solo [QUI].

C’è una Chiesa che continua a vivere e una tradizione che non è mai stata messa da parte. La domanda è se sopravviverà o soccomberà alla narrazione.

Questo articolo nella nostra traduzione italiana è stato pubblicato oggi dall’autore in inglese sul suo blog Monday Vatican [QUI].

[*] Definire la cancel culture (cultura della cancellazione) non è facile, anche perché il termine, che è nato negli Stati Uniti, si è evoluto e in Italia è arrivato anche in una versione non originale.
La cancel culture in Italia è diventato un termine ombrello in cui sono ricadute l’iconoclastia, la censura preventiva degli editori, le polemiche sulle favole e altre notizie arrivate soprattutto dagli Stati Uniti, dove però nessuno le definiva espressione della cancel culture. Poi, il concetto è stato trasformato nel sinonimo del “politicamente corretto” che “non ci permette più di esprimerci liberamente”. L’utilizzo di cancel culture per identificare i fenomeni più disparati è un esempio di ridefinizione del significato, un processo che rischia di far perdere il senso originario del termine.
La Treccani definisce cancel culture come “atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento”.
C’è poi la cancel culture visto come fenomeno che miri a eliminare e quindi cancellare le tracce di un passato caratterizzato da valori e ideali definiti come anacronistici per i nostri tempi.
In Italia il termine viene utilizzata quasi esclusivamente con questa accezione.

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