Card. Petrocchi: la Pasqua risveglia dal letargo

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“L’annuncio della Pasqua, che la Chiesa proclama con gioia, deve risuonare in noi come invito alla conversione, ma anche come preziosa opportunità per fare un ‘momento di verità’. Di qui la domanda fondamentale che siamo chiamati a porci: in che misura la Pasqua di Cristo è diventata la nostra Pasqua?”

Questa è la domanda che l’arcivescovo de L’Aquila, card. Giuseppe Petrocchi, ha stimolato la lettera ai fedeli, ‘Nella Pasqua di Gesù ogni ‘croce’ diventa sorgente di vita’, ricordando che Dio non ha abolito il male: “Ricordiamo che Dio non ha abolito il male, né ha cancellato il dolore (che ci devastano ‘dentro’), ma ha inviato il Figlio ad assumerli su di sé e a vincerli…

In questa luce, l’apostolo Pietro ci esorta a vedere la sofferenza con occhi ‘pasquali’ ed a viverla con lo stile di ‘risorti’. Scrive nella sua Prima Lettera: nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi”.

E’ un invito a non rimanere in letargo: “Pur essendo credenti, il rischio è che rimaniamo prigionieri di un ‘cristianesimo in letargo’. La maturità della nostra fede si misura anche nel nostro modo di gestire i problemi. Se il livello della nostra carità è basso, nell’impatto con le avversità l’umore assume toni cupi che amplificano le reazioni negative, in noi e negli altri.

Così facilmente finiamo incagliati nelle secche del nostro egoismo: allora la nostra ‘navigazione’ evangelica si arena nel pessimismo risentito, in cui si agitano l’irritazione graffiante o il rigetto avvilito”.

Il cardinale ha ribadito la presenza di Cristo nella vita quotidiana: “Ci conforta la certezza che il Signore non ci lascia mai soli, abbandonati a noi stessi, ma accende sempre lungo i nostri sentieri le luci di cui abbiamo bisogno per procedere nella direzione giusta e ci comunica tutta l’energia di cui abbiamo bisogno per superare le difficoltà, che sembrano sbarrare il percorso”.

La Pasqua non elimina il dolore, ma offre un appiglio per superarlo: “La Pasqua dà o restituisce senso al dolore: anche le Scienze umane sottolineano che la sofferenza più distruttiva è quella a cui non riusciamo a dare significato. E’ nel campo dell’anima che si gioca la partita dell’esistenza.

Quando si è in grado di dare valore ‘redentivo’ alle afflizioni, allora cambia tutto ‘dentro’, anche se ‘fuori’ tutto resta lo stesso. L’amore che sa soffrire, è anche amore che sa ‘con-patire’: perciò è amore che sa aiutare quanti attraversano periodi di aridità e di amarezza”.

Stesso linguaggio nell’omelia per ricordare i deceduti del terremoto del 2009: “Nell’orizzonte della fede, della carità e della speranza, inaugurato dalla Pasqua di Gesù, l’ ‘al-di-là’ è ben collegato con l’ ‘al-di-qua’: anzi, compare un ‘di più’ rispetto alla pienezza raggiunta ‘prima’.

Lo sguardo del cristiano si posa sul volto di coloro che già abitano nel Giorno senza tramonto, sapendo che nulla è perduto di ciò che è segnato dall’amore, perché porta in sé il sigillo perenne della infinità di Dio”.

E la ricostruzione non è soltanto materiale, ma soprattutto culturale e sociale: “Bisogna sempre mantenere in primo piano la certezza che la ricostruzione non è solo opera ingegneristica e amministrativa, ma anche etica, culturale e sociale. Non basta rifare le strutture architettoniche e murarie, ma si deve pure riedificare la Comunità: nella dimensione spirituale, economica e civica.

Per restaurare bene le pareti delle abitazioni e le pubbliche pertinenze, occorre prima ricostruire le case nel cuore della gente: con i mattoni della fiducia e il cemento della concordia. I protagonisti di questa avventura epocale debbono ‘ricostruirsi’ per diventare efficienti ‘ri-costruttori’, dotati di intelligenza profetica e di abilità rinnovanti”.

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