Foibe: uno sguardo in parte innovativo | Dante adriaticus
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 04.04.2023 – Giuseppe Rusconi] – Il Senato della Repubblica ha ospitato a marzo due presentazioni di volumi di sicuro interesse per chi ha seguito con attenzione le vicende sviluppatesi nei secoli lungo i confini orientali d’Italia. Il primo riguarda la pagina di storia legata ai massacri delle foibe, al dramma dell’esodo, al doveroso e persistente culto della memoria. Protagonista del secondo è invece Dante Alighieri, con il suo influsso su sentimenti e comportamenti della comunità italiana di quelle terre sfortunate.
Foibe, esodo, memoria. Il lungo dramma dell’italianità nelle terre dell’Adriatico orientale di Giovanni Stelli, Marino Micich, Pier Luigi Giuducci e Emiliano Loria (Aracne Editore)
È un (triste) dato di fatto che nel Giorno del Ricordo (il 10 febbraio) non si esprima ancora una memoria pienamente condivisa di quanto successe tra il 1943 e fine Anni Cinquanta ai confini orientali italiani. Ne sono conferma le persistenti minimizzazioni da parte di intellettuali molto ideologizzati (che si avvicinano in questo loro sostanziale giustificazionismo a chi, a cadaveri ancora caldi, parlava delle foibe come di “irregolarità marginali”). Un altro segno della difficoltà di una vera pacificazione nazionale sul tema è venuto anche il 4 marzo dalla manifestazione di Firenze (convocata in segno di protesta – per l’occasione da parte della sinistra – contro l’ultimo di tanti episodi di violenza tra opposte fazioni giovanili, stavolta accaduto davanti al Liceo Michelangiolo): da alcuni partecipanti al corteo si è voluto inneggiare al Maresciallo Tito come maestro di infoibamenti.
Un lugubre ritorno al passato insomma, in direzione opposta all’ampia riflessione – coordinata da Marino Micich – che si è sviluppata il 13 marzo 2023 presso il Senato della Repubblica (anfitrione il Senatore Maurizio Gasparri), nella Sala Capitolare della Minerva. In quella sede infatti è stato presentato un volume fresco di stampa (Aracne editore, pubblicato con il contributo della Società di Studi Fiumani) su Foibe, esodo, memoria, che raccoglie quattro contributi qualificati e tesi a proporre con pacato rigore scientifico alcuni sviluppi che storiograficamente la questione ha conosciuto negli ultimi anni.
Da relatore principale della serata, lo storico Giuseppe Parlato (tra l’altro Presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e a capo del Comitato 10 Febbraio), ha sintetizzato i contenuti dell’opera, ponendo in particolare l’accento sulle ultime ricerche in materia di foibe ed esodo. Ancora oggi siamo confrontati con l’ostinazione di taluni a voler de facto giustificare le une e l’altro (come conseguenza inevitabile dell’italianizzazione forzata voluta dal regime fascista): il necessario contrasto di tale ostinazione – ha rilevato lo storico – dovrebbe fondarsi su un approccio storico non più incentrato solo e soltanto sulle tragedie di cui furono vittima tanti Istriani, Fiumani, Dalmati, ma anche su una direttrice nuova, suggerita dagli studi più recenti. Si è detto e si dice che quella delle foibe e dell’esodo fu pulizia etnica ai danni degli Italiani. Vero, ma c’è dell’altro.
Dagli archivi ex-jugoslavi sta infatti emergendo una verità più ampia: la pulizia etnica citata era parte di un piano spietato di imposizione del totalitarismo comunista elaborato a livello centrale del partito jugoslavo agli ordini del Maresciallo Tito (accadde in Jugoslavia quanto accadde generalmente anche nell’Est europeo). È sempre più chiaro che le vittime della concretizzazione cinica di tale piano furono tutti coloro che si presumeva avrebbero potuto intralciare l’ascesa e la permanenza dei comunisti al potere. Gli Italiani compromessi con il regime fascista certo, ma anche gli Italiani non disposti a inginocchiarsi ai nuovi padroni. E poi Croati e Sloveni, Serbi e Bosniaci che avevano collaborato o non combattuto il regime ustascia di Ante Pavelić e gli alleati nazisti e fascisti, ma anche Croati, Sloveni, Serbi, Bosniaci che non intendevano sottostare ai muovi diktat comunisti. Non si creda però che la ricerca storica su foibe ed esodo sia conclusa: prima di tutto mancano ancora molti documenti degli archivi dell’ex-Jugoslavia comunista (chissà se mai emergeranno…), poi è tuttora assai carente la documentazione da parte governativa italiana fondata su rapporti inviati a Roma e riguardante tra l’altro l’atteggiamento tenuto da Quirinale e Palazzo Chigi negli anni della tragedia (e in quelli successivi). Anche gli archivi della Croce Rossa potrebbero contenere annotazioni molto utili, ad esempio sull’identità delle persone scomparse in quelle drammatiche contingenze storiche.
Un capitolo a parte è quello indagato dallo storico della Chiesa Pier Luigi Guiducci: ha riguardato la politica religiosa comunista jugoslava, che si abbattè con particolare durezza anche su Istriani, Fiumani, Dalmati di cui si voleva in ogni caso sradicare i tratti identitari (e il Cattolicesimo era uno dei più importanti). Nel suo contributo Guiducci si occupa tra l’altro dei quattro vescovi italiani (Mons. Radossi/Pola, Mons. Camozzo/Fiume, Mons. Munzani/Zara, Mons. Santin/Trieste e Capodistria) che vissero la realtà della violenza comunista e dell’esodo. Non dimentica però la tragedia di tanti sacerdoti, alcuni dei quali furono messi a morte: Don Angelo Tarticchio fu orribilmente torturato, gli fu messa una corona di spine in testa, fu ucciso da una raffica di mitragliatrice e poi fu buttato in una cava di bauxite a Lindaro; Don Francesco Bonifacio (oggi beato) fu picchiato a morte e buttato nella foiba detta di Martines; Don Miroslav Budelić fu sgozzato in canonica a Lanischie. Diverse pagine sono dedicate al complesso “caso Stepinac” (beato), cardinale e Arcivescovo di Zagabria, che si trovò ad essere pastore sia con Pavelić, i suoi ustascia e la Wehrmacht che con il regime di Tito. Ma lasciamo che siano i lettori a prendere conoscenza delle ragionevoli considerazioni di Guiducci riguardo a una personalità che ancora oggi non trova concordi nel giudizio Serbi e Croati, Cattolici e Ortodossi.
Nella Sala Capitolare hanno preso la parola anche due dei tre altri co-autori del volume (era assente Emiliano Loria, Caporedattore della rivista di studi adriatici Fiume): Giovanni Stelli (tra l’altro Presidente della Società di Studi fiumani) e Marino Micich (tra l’altro Direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume e già citato coordinatore della serata).
Di foibe, di difficoltà della ricerca del numero delle vittime, di ragioni che spinsero i partigiani comunisti jugoslavi a ricorrere all’infoibamento dei “nemici del popolo” ha parlato Giovanni Stelli, del cui contributo nel volume riteniamo utile riprodurre un paio di passi:
- Sussistono alcune difficoltà oggettive che impediscono una quantificazione precisa del numero delle vittime (NdR: poi Stelli lo situa da un minimo di 4-5 mila a un massimo di 10-12mila). Innanzi tutto la distruzione degli archivi avvenuta nel corso delle vicende belliche e postbelliche. In secondo luogo l’impossibilità di accedere alle fonti documentali jugoslave per l’indisponibilità delle autorità comuniste dell’epoca. (…) Infine le difficoltà, incontrate a suo tempo, sia per censire le foibe contenenti corpi (…) sia per recuperare i cadaveri. Si tratta di ostacoli non più superabili. Fino a tempi relativamente recenti nessuna ricerca in territorio sloveno e croato era autorizzata e infatti nessun recupero fu possibile nelle zone occupate dalla Jugoslavia. In molti casi il recupero fu per varie ragioni impossibile nelle stesse zone italiane, come a Basovizza e a Monrupino. Del resto (…) in molte voragini fu gettato esplosivo per farle franare e rendere così impossibile il recupero dei corpi.
- Ma a frenare l’indagine storica sulle foibe e quindi anche la ricerca sul numero delle vittime sono state difficoltà soggettive, altrettanto se non più importanti di quelle oggettive. Tra queste difficoltà soggettive va ricordato, innanzitutto, il condizionamento ideologico e politico di buona parte della storiografia italiana (…). Essa era tanto cosciente quanto succube del ruolo decisivo svolto dal Partito Comunista Italiano (Pci) nel secondo dopoguerra.
Marino Micich nel suo contributo si è invece occupato del “Lungo esodo dall’Istria, Fiume e Zara (1943-1958) – L’accoglienza in Italia”. Come ha scritto nel volume (e ribadito in sala): “L’esodo degli italiani non fu sancito da un decreto di espulsione: (…) l’assenza di un simile atto politico ufficiale ha portato la storiografia jugoslava prima, croata e slovena poi, a sottolineare gli aspetti volontaristici di questo drammatico fenomeno. Eppure la volontà da parte jugoslava di espellere una buona parte di italiani dopo la fine del conflitto è documentata da un atto ufficiale del Comitato del movimento popolare jugoslavo, sezione croata di Pisino, relativo alla riunione del 26 settembre 1943, in cui tra le conclusioni assembleari, al secondo punto, si diceva che tutti gli italiani giunti in Istria dopo il 1918 sarebbero stati rimandati in Italia. (…) Ora, stabilire se nel caso delle popolazioni istriane, fiumane e dalmate si sia verificato un genocidio culturale e fisico o una pulizia etnica pianificata rimane un problema storico ancora difficile da risolvere, perché scarsa è la documentazione disponibile e manca comunque a livello generalizzato la sensibilità culturale adatta per affrontare in modo non politicizzato questo tipo di problematica. Senz’altro ritengo condivisibile il giudizio dello storico Raoul Pupo a questo riguardo: ‘Quello dei giuliano-dalmati andrebbe dunque considerato come un fenomeno di espulsione di massa avvenuto non in forza di leggi, ma di quelle che gli storici pudicamente chiamano pressioni ambientali e che in molti casi risultano non meno efficaci dei decreti di espulsione’.
Ricordiamo infine il quarto co-autore, Emiliano Loria (assente in sala), che nel suo contributo ha raccolto testimonianze dell’esilio, ancora ben vive, incise nella carne, dando voce alle esperienze di profughi dall’Istria, Fiume e Zara.
Dante adriaticus, a cura di Donatella Schürzel, Giuliana Eufemia Budicin, Maria Grazia Chiappori, Lorenzo Salimbeni e Barbara Vinciguerra (Giammarò Edizioni)
È risultata stimolante anche la serata – sempre in Senato ma stavolta nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani – in cui sono stati presentati gli Atti di un ciclo di Convegni su Dante adriaticus svoltisi nel 2021 a Roma, Verona e Pola (Giammarò Edizioni). Promosso dal Comitato provinciale di Roma dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVG), l’incontro – introdotto dal Senatore Andrea De Priamo e coordinato da Lorenzo Salimbeni – ha visto la presenza al tavolo dei relatori di Giuseppe Parlato, Eufemia Giuliana Budicin, Maria Grazia Chiappori, Barbara Vinciguerra e Donatella Schürzel, Vicepresidente dell’ANVG nazionale e autrice dell’introduzione al volume. In sala anche un gruppo di studenti del Liceo classico Giulio Cesare di Roma.
Centrale la relazione dello storico Giuseppe Parlato che ha subito evidenziato la ricchezza di contenuti degli Atti, in cui hanno un loro posto giustificato gli aspetti storici, artistici, letterari, filatelici, bibliografici, giuridici, teatrali correlati al vero e proprio culto per Dante sviluppato fin dal Medio Evo (ed esploso nell’Ottocento) nelle popolazioni stanziate sui confini orientali di un’Italia non ancora configurata come Stato nazionale.
Per il Presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice sono due i motivi principali per cui le comunità italiane di Istria, Fiume e Dalmazia hanno guardato con ardente ammirazione al Sommo Poeta, considerato prima di tutto come mito fondante della Nazione italiana e poi come profeta dell’irredentismo.
Riguardo al primo punto non si può dimenticare che quelle terre per secoli hanno fatto parte della Repubblica di Venezia, “unico Stato della Penisola in cui l’italiano è stato popolarizzato” (ad eccezione di Firenze, che però “non era punto di riferimento nazionale”). Non c’è dubbio che, grazie a tale sviluppo culturale, le popolazioni adriatiche erano mediamente molto più alfabetizzate di quelle della Penisola e dunque hanno potuto avvicinare più facilmente la lingua del grande fiorentino. È allora ben comprensibile il grande fervore nazionalistico suscitato da qualche passo di Dante, dapprima nel De vulgari eloquentia, quando tra le lingue d’Italia cita quella degli “Istriani”, poi nell’Inferno (Canto IX) quando fissa i confini orientali dell’Italia a Pola, “presso del Carnaro ch’Italia chiude e suoi termini bagna”. Un riconoscimento già diffuso nel Medio Evo, una constatazione che l’Istria era parte integrante, sia geograficamente che culturalmente, della Penisola.
Il secondo punto è legato al radicarsi dell’irredentismo nelle popolazioni di sentire italiano escluse dal Regno d’Italia (Trento, Trieste, Istria, Fiume, Dalmazia). Ogni occasione era buona per manifestare attraverso Dante l’amore per la patria al di là della frontiera politica. La Lega Nazionale e la Società Dante Alighieri (fondata nel 1889) erano attivissime e a loro si indirizzavano le simpatie ardenti delle varie comunità italiane. Di tale fervore culturale e identitario (e finalmente politico) si accorsero anche gli Austro-Ungarici che – sebbene dal 1882 Italia, Austria-Ungheria e Germania facessero parte della Triplice Alleanza – cercarono in vari modi di ostacolare, comprimendoli, gli entusiasmi danteschi vivi da Trieste a Zara e Spalato. Dante è poi anche citato due volte nella dannunziana Carta del Carnaro, un testo costituzionale.
Non è tutto. Non si può dimenticare che Dante è anche il “Ghibellin fuggiasco”, che ha provato “come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale” (Paradiso, Canto XVII): un’esperienza analoga l’hanno vissuta anche gli esuli dai confini orientali.
Il volume presentato racchiude oltre una ventina dei contributi che hanno arricchito i tre Convegni del 2021: “Nel nome e nella lingua di Dante – ha osservato nell’introduzione Donatella Schürzel – si è cercato di tracciare una traiettoria da Roma attraverso la Penisola, sino all’Istria e alle bocche di Cattaro, passando da Verona, Gorizia, Trieste, Capodistria, Fiume, Zara, Spalato”. Il risultato? “Si è creata una comunità di intenti, si è risvegliata l’attenzione allo studio dantesco e si è aperto uno squarcio importante per la conoscenza dell’opera e del ‘Sommo Poeta’ da più di settecento anni nell’Adriatico orientale”. Tanto che “nell’evento di Pola si sono già visti i frutti di questo progetto (…), si è raggiunto l’obiettivo di ricostruire un futuro insieme, grazie alla cultura e alla lingua” di Dante.
Tra i contributi potenzialmente in grado di stimolare l’interesse di chi ci legge, troviamo quelli di Luigi Fattorini (“La figura di Dante nel patriottismo istriano” ovvero del patriottismo che rientra nella storia delle terre irredente) e di Stefano Pilotto (“Dante nella proiezione culturale italiana in Istria tra fine Ottocento e inizio Novecento”). Una miniera di informazioni preziose si rivela “Pola, presso del Carnaro… Dante, un percorso culturale di 700 anni in Adriatico”, di Donatella Schürzel, mentre Kristjan Kierz ci ragguaglia sulle “Celebrazioni dantesche del 1865 in Istria”, che “rappresentarono l’ultima occasione in cui gli italiani dei territori già parte integrante della Repubblica di Venezia – e in quel frangente soggetti alla Casa d’Asburgo – parteciparono uniti ad un evento centrale del Risorgimento e del neocostituito Regno sabaudo”.
Due infine i contributi (di Marino Micich e di Rita Tolomeo) sul dantista dalmata ottocentesco Antonio Lubin (conterraneo e quasi contemporaneo di Niccolò Tommaseo) una figura che la Croazia indipendente ha opportunamente riscoperto e valorizzato.
Questo articolo è stato pubblicato oggi dall’autore sul suo sito Rossoporpora.org [QUI].