La strage dimenticata. La storia sconosciuta del pogrom di Armeni in Azerbajgian nel 1988

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Nei giorni scorsi ci siamo fermati diverse volte per commemorare il 35° anniversario del pogrom di Sumgait in Azerbajgian tra il 27 e 29 febbraio 1988, quando gli Azeri sterminarono la minoranza armena cristiana a Sumgait per bloccare la libertà dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh [QUI]. I massacri di Sumgait sono stati la prima campagna di pulizia etnica che gli Azeri hanno commesso come una risposta brutale alle legittime esigenze del popolo dell’Artsakh per esercitare il loro fondamentale diritto all’auto-determinazione. Il brutale pogrom di Sumgait ha alimentato l’odio sponsorizzato dallo Stato azerbajgiano nei confronti degli Armeni e ha preceduto ulteriori episodi sanguinose di pulizie etiche perpetrate dalle autorità azere a Kirovabad, Mingechaur, Baku e altrove in Azerbajgian e in Nagorno-Karabakh.

Il 21 aprile 1988, il Premio Nobel Andrei Sakharov, scienziato attivista per i diritti umani, in una lettera indirizzata al leader sovietico Mikhail Gorbaciov sul pogrom di Sumgait scriveva: «Se prima degli eventi di Sumgait qualcuno poteva avere ancora dei dubbi, dopo questa tragedia non resta nessuna possibilità morale di insistere sul mantenimento dell’appartenenza territoriale del Nagorno-Karabakh all’Azerbajgian». In un’intervista al New York Times Sakharov dichiarava che «i massacri degli Armeni rappresentavano una vera minaccia per lo sterminio della minoranza armena dell’Azerbajgian e della popolazione del Nagorno-Karabakh».

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 01.03.2023 – Renato Farina] – Le tre giornate del pogrom di Sumgait non le ricorda nessuno. Tantomeno si terranno cerimonie nella città industriale sul Mar Caspio dove asce, coltelli e forbici sparsero il sangue degli Armeni che in 18mila vivevano fiduciosamente tra gli Azeri.

Be’, noi sì. Non sarà geo-politicamente e idrocarburicamente corretto, vista la nostra dipendenza energetica da chi a Baku non gradirà questo articolo, ma la memoria è importante: infila spine tra le costole, toglie l’alibi dell’ignoranza alla nostra ignavia per il destino dei nostri fratelli Armeni.

L’occasione è il 35° anniversario di un eccidio impunito, i cui autori sono stati elevati a eroi nazionali della Repubblica islamica dell’Azerbajgian. Furono sterminati ufficialmente “solo” 29 Armeni; in realtà forse 500, forse 1500 (i dati nessuno è in grado di confermarli, neanche le tombe ne parlano: molti cadaveri finirono dispersi negli obitori di Baku e di altre località).

Accadde tra il 27 e il 29 febbraio del 1988. L’Unione Sovietica in quel periodo della sua tragica storia si avviava a tirare le cuoia. I popoli percepivano la frantumazione incombente. A dispetto del lavoro di Stalin e dei suoi successori che deportavano e mescolavano i popoli per sradicarne il sentimento nazionale e fabbricare così l’homo sovieticus, moti indipendentisti percorrevano l’immenso territorio. Per i Paesi baltici la questione era semplice: tornarono ai confini precedenti l’annessione all’URSS del giugno 1940. Lituani, Lettoni ed Estoni avrebbero riavuto le rispettive lingue e capitali, mentre l’importante minoranza russa sarebbe passata da longa manus colonizzatrice a mano colpevole e maltrattata.

Nuovi confini

Nelle Repubbliche Socialiste Sovietiche situate nel Caucaso del Sud (Armenia e Azerbajgian) la situazione era complicata. Voglia di indipendenza tanta. Ma anche volontà di ridisegnare i confini, scombinati appositamente da Stalin per tenere sotto schiaffo gli Armeni, popolo inossidabile, con la testa dura come la pietra delle sue croci che coprono il territorio. Soprattutto assegnò all’Azerbajgian, del tutto innaturalmente, l’Artsakh (Nagorno-Karabakh) a grande maggioranza armena, e soprattutto cuore primigenio e pulsante della più antica nazione cristiana, così da inaridirne l’identità. Con l’atroce sfregio di destinare agli Azeri, per così dire diversamente Turchi, quei monasteri favolosi da trasformare in magazzini. Gli Azeri, come illustra plasticamente l’attuale alleanza d’acciaio tra Aliyev (Baku) ed Erdoğan (Ankara), sono dello stesso ceppo linguistico e antropologico di chi nel 1915 aveva sterminato 1,5 milioni di Cristiani Armeni, compiendo il primo genocidio del Ventesimo secolo.

L’irredentismo dell’Artsakh era puro desiderio di sopravvivenza nella facile previsione dell’onda che avrebbe sommerso qualsiasi identità non coincidente con quella azero-turca. Noi siamo abituati a considerare “pogrom” una orribile esclusiva degli Ebrei. Be’ quest’orrore shakespeariano se lo sono spartito – in modo minore ma poco raccontato – con gli Armeni. Accade improvvisamente che, per un dannato mulinello nel fiume della storia, l’odio razziale e religioso verso una comunità, specie se dotata di connotati fisici e culturali inconfondibilmente “altri” da quelli della maggioranza, da sentimento di avversione tenuto, pronto all’uso, nei cassetti della mente, esploda in violenza di massa. Una guerra, la mancanza di pane, una malattia, una diceria colpa loro! Basta una scintilla, ed ecco che folle di brave persone attraversano come legioni di demoni città e villaggi per spargere sangue di ebrei o – è il nostro caso – di Armeni.

Il più grave fu il “massacro di Shushi” nell’Artsakh (1920). Determinò la completa distruzione del quartiere armeno della città e la fuga della popolazione armena sopravvissuta al pogrom. Il numero finale delle vittime è incerto ed oscilla tra le cinquecento e le trentamila.
Questi precedenti inducevano gli Armeni residenti in Azerbajgian a ritenersi spacciati. La gran parte degli Azeri (che sono poi i famosi Tartari) viveva in pace e armonia con i 500mila Armeni, presenti con folte comunità in particolare proprio a Baku e Sumgait. Ma quando la storia corre e – come scriveva Lord Byron – “cambia cavalli”, i miti e gli inermi sono soverchiati da masnade vituperose. Andò proprio così. Davanti a chiare mosse dei capi di Baku di farla corta con la presenza degli Armeni, specie nel Nagorno-Karabakh (in armeno Artsakh), il 20 febbraio del 1988 il “Soviet Supremo del Nagorno-Karabakh” votò l’annessione della regione autonoma all’Armenia. Il tentativo era di sigillare legalmente quello che storia e diritto all’autodeterminazione dei popoli imponevano.

Non c’è solo il male

La vendetta si compì, perfettamente pianificata dalle autorità allora comuniste di Baku, scegliendo come teatro dello spettacolo di sangue la città di Sumgait (in russo) ora Sumgayit (in azero). E siamo al 35° anniversario che qui ricordiamo: il famigerato triduo del 27-28-29 febbraio 1988. Crudeltà e fuoco si riaccesero presto. La Repubblica titola il 28 novembre 1988: «Il pogrom dilaga nei villaggi». Ezio Mauro, allora corrispondente da Mosca, racconta: «A Erevan le notizie dei nuovi morti arrivano insieme con le informazioni frammentarie, confuse, allucinanti sul pogrom di Kirovabad». Quanti morti? Migliaia. Continua Mauro: «Nel pomeriggio, dalla capitale armena partono venti autobus, scortati da auto militari, per arrivare fino alla città azerbajdzana in un’operazione di recupero e salvataggio degli ultimi armeni asserragliati dalla paura nelle case o nelle chiese».

Nel gennaio 1990 altro pogrom a Baku. Di lì la guerra del Caucaso meridionale. Alla vittoria degli Armeni dei primi anni ‘90, con infiniti dolori da entrambe le parti, segue nel settembre del 2020 l’aggressione a freddo degli Azeri, coadiuvati da Turchi e mercenari jihadisti siriani: assaltano l’Artsakh, ne occupano l’80 per cento. I 120mila Armeni radunati nella porzione di terra rimastagli sono sotto assedio, sono ormai 77 giorni senza rifornimenti, nel gelo, e tra essi 30mila bambini. Essendo noi ottimi clienti dell’Azerbajgian, oltre che badare al prezzo del suo gas, forse potremmo trattare sul prezzo della libertà e della vita di questa gente.

P.S. Nota personale. Fin qui ho descritto il male, la tremenda potenza dell’odio. Se mi fermassi qui, avrei gettato un covone di verità (ne sono convinto, ci credo!) nel dibattito sulle responsabilità della guerra. Si tratta per me di salvare un popolo. Non c’è solo il male però. In tanti cercano dai fronti opposti di soccorrere e curare come possono il nemico. Il soccorso Armeno ai terremotati Turchi allarga il cuore. Così la volontà di giovani Azeri di incontrarsi come fratelli con coetanei Armeni per pregare e capirsi. Utopie? No, fiori.

Questo articolo è stato pubblicato ieri su Libero Quotidiano.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Foto di copertina: il monte Ararat e Khor Virap, uno dei più importanti monasteri armeni, nei pressi del confine con la Turchia. Questo monastero ha un significato speciale per gli Armeni. Gli eventi dell’inizio del XX secolo hanno rafforzato questo concetto quando il confine definitivo tra la Turchia e l’Unione Sovietica è stato tracciato non lontano dal monastero. Così, Khor Virap è diventato il punto del territorio armeno oggi più vicino all’Ararat, il simbolo nazionale degli Armeni, dopo che la montagna è stata annessa alla Turchia. Se il tempo lo permette, il monastero offre una delle più belle viste sulla montagna a 31 km di distanza.

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