Adesso parla ancora più che da vivo. “Nulla sia anteposto a Cristo!”

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 07.01.2023 – Vik van Brantegem] – Condividiamo Qualche ricordo di Benedetto XVI di Don Alessandro Belano, FDP, con l’introduzione di Mons. Giovanni D’Ercole, FDP, Vescovo emerito di Ascoli Piceno. Anch’io, già proverbialmente parsimonioso con le esternazioni personali, non me lo sento sull’onda mediatica emotiva, di parlare di Papa Benedetto XVI, al cui servizio sono stato, specialmente in occasione delle visite pastorali in Italia e dei viaggi apostolici fuori nell’Italia.

Dopo gli interventi di Mons. D’Ercole e Don Belano, segue la traduzione italiana delle considerazioni conclusive di un intervento del Professore di Teologia Joseph Ratzinger durante una trasmissione radiofonica del 25 dicembre 1969, rispondendo alla domanda di coloro che si chiedevano cosa sarebbe diventata la Chiesa in futuro. Sono considerazioni utili oggi più che mai. Certamente, Ratzinger non fingeva di saper predire il futuro, dicendo: «Dobbiamo quindi essere cauti nei nostri pronostici. Quello che ha detto Sant’Agostino è ancora vero l’uomo è un abisso; nessuno può prevedere quello che uscirà da queste profondità. E chiunque creda che la Chiesa sia non solo determinata dall’abisso che è l’uomo, ma raggiunga l’abisso più grande, infinito, che è Dio, sarà il primo a esitare con le sue predizioni, perché questo ingenuo desiderio di sapere con certezza potrebbe essere solo l’annuncio della sua inettitudine storica». Ma quei tempi pieni di pericolo esistenziale, cinismo politico e caparbietà morale, chiedeva una risposta. La Chiesa Cattolica Romana, faro morale nelle acque turbolente del suo tempo, aveva sperimentato alcuni cambiamenti sia tra i propri aderenti e che tra i dissenzienti, che si chiedevano cosa sarebbe diventata la Chiesa in futuro.

La “profezia” di Ratzinger sul futuro di una «Chiesa della Fede» e «quel piccolo gregge di credenti» concluse un ciclo di cinque lezioni radiofoniche alla Hessischer Rundfunk, che svolse nel 1969, in cui il futuro Papa Benedetto XVI tracciava in quel complesso 1969 la propria visione sul futuro dell’uomo e della Chiesa. È soprattutto l’ultima lezione, nel giorno di Natale del 1969, ad assumere i toni della “profezia”. Ratzinger paragonava i tempi attuali con quella di Papa Pio VI, morto il 29 agosto 1799 a Valence in Francia prigioniero di Napoleone e di cui il 17 febbraio 1802 il suo successore Pio VII celebrò in San Pietro i funerali. La Chiesa si era trovata allora alle prese con una forza che intendeva estinguerla per sempre, aveva visto i propri beni confiscati e gli ordini religiosi dissolti. Una condizione non molto diversa, spiegava, potrebbe attendere la Chiesa odierna, minata dalla tentazione di ridurre i preti ad “assistenti sociali” e la propria opera a mera presenza politica. Quello che il Professor Ratzinger delineava, era «un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata».

Abbiamo bisogno di lui

«Su Benedetto XVI in questi giorni tante cose sono state scritte ed io continuo a leggerle con attenzione conservando nel cuore le mie esperienze personali e meditandole alla luce del suo esempio, giacché ora tanti spiragli della sua vita appaiono più chiari ed eloquenti. Avrei tanta voglia anch’io di parlarne, ma un freno interiore mi sussurra: aspetta! Sento cioè il bisogno di lasciare qualche giorno perché l’onda mediatica emotiva si calmi per riprendere nella sua interezza l’insegnamento di questo grande Papa che giustamente già alcuni lo ritengono Dottore della Chiesa e lo considerano il teologo più grande e significativo di questo nostro tempo. Se da vivo ha scritto molto, da morto, adesso immerso nella gloria del Cielo, continuerà a guidarci con lo stile del silenzio adorante e il coraggio della coerenza che lo ha contraddistinto sempre e in particolare nei quasi dieci anni del suo ritiro in monastero. Abbiamo bisogno di lui, della sua profondità spirituale per non cedere alla deriva del relativismo che senza paura ha continuato a denunciare anche quando è stato attaccato in tutti i modi dentro e fuori della Chiesa. Abbiamo bisogno della sua serietà intellettuale, della sua onestà morale e della sua coerenza evangelica per mettere in pratica il suo testamento spirituale che ben ha evidenziato in due impellenti compiti da assolvere: “Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere… Gesù Cristo è veramente la Via, la Verità, e la Vita…e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo”. Ho bisogno di lui io stesso come penso abbia bisogno ogni cristiano, ogni prete, ogni apostolo, ogni vescovo e in primo luogo papa Francesco che immagino voglia continuare a sentirlo al suo fianco perché lo aiuti a proseguire il suo ministero a servizio di tutto il mondo non solo cristiano. Benedetto XVI assieme a Giovanni Paolo II sono stati i Pontefici al cui servizio ho speso lunghi anni della mia esistenza e fu proprio Benedetto nel novembre del 2009 a nominarmi vescovo Ausiliare dell’Aquila facendomi dono dell’anello episcopale. Un legame profondo di affetto e gratitudine che non si spegnerà con la mia morte. Grazie Papa Benedetto! Mi permetto aggiungere a queste brevi righe la testimonianza di un mio confratello orionino che con lui ha lavorato a lungo nella Congregazione per la Dottrina della Fede e tuttora vi prosegue il suo servizio. Grazie, caro Don Alessandro!» (Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito di Ascoli Piceno).

Qualche ricordo di Benedetto XVI

«Un venerdì di maggio di molti anni fa. Ho appena terminato il lavoro presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, in Vaticano. Mi appresto a uscire. Sono le ore 13:20. Giù, nel cortile del cinquecentesco Palazzo del Sant’Uffizio, il mio superiore, il Cardinal Joseph Ratzinger, sta salutando qualcuno, per poi recarsi, anche lui, nel proprio appartamento, al di là di piazza San Pietro. A piedi, come ogni giorno. Affretto il passo per raggiungerlo. “Eminenza, posso accompagnarla?”. “Certo”, risponde amabilmente. Mi accosto alla sua destra. Qualcuno, in ufficio, mi spiegherà più tardi che, in simili frangenti, “è bene mettersi alla sinistra”. Lui non tiene in gran conto queste cose. Proseguiamo appaiati, in barba al mio scarso galateo curiale. Superato il portone dell’antico ingresso ci attende un rapido slalom tra le fila di automobili che intasano l’antistante cortile. È questione di poco. Al cancello, due giovani guardie svizzere scattano sull’attenti e accompagnano il gesto con il saluto militare. Ormai siamo fuori, “in Italia”, come scherzosamente faccio rilevare. Ma per poco: superato il colonnato di sinistra, in prossimità del braccio di Carlo Magno, ci tuffiamo nell’enorme bacino di piazza San Pietro, rientrando “in Vaticano”, commenta lui. Lo scenario è sempre straordinario: davanti a noi, in alto, il Palazzo Apostolico con le famose finestre del Santo Padre. A sinistra, imponente, si erge la facciata della basilica, il cui aspetto è un misto di eleganza, serietà e sacralità. Al centro, svetta il celebre obelisco che segnava la “spina” dell’antico circo di Nerone. Il via vai multicolore dei pellegrini e dei turisti è incessante, accompagnato da un vociare sommesso, ma percettibile, che sembra il commento sonoro di una giornata di festa.

Continuo io, azzardando. “Eminenza, la nostra vita rassomiglia a un pendolo: ogni giorno su e giù, avanti e indietro, attraverso il quadrante di questa piazza che sembra segnare le ore delle nostre entrate e uscite dal lavoro”. “È vero”, commenta sorridendo, “ma ringraziamo Dio che ci dà la carica!”, aggiunge argutamente. La “traversata” prosegue con qualche interruzione: un Monsignore, come tanti ce ne sono a Roma, lo ha riconosciuto e si avvicina con gesto ossequioso. Lui tende la mano per primo, come sempre, e ricambia i saluti con una stretta. C’è anche il tempo per un rapido scambio di battute. Si va avanti. Alcuni giapponesi (o coreani?, sembrano tutti uguali), si avvicinano agitando l’immancabile macchina fotografica e vociferando qualcosa d’incomprensibile. Abbiamo capito. Amabile, paziente, il Cardinale si ferma e si lascia fotografare in compagnia di quell’improvvisato gruppetto di sconosciuti che, subito dopo, si allontana tra inchini, sorrisi e gesti di compiacimento. Proseguiamo. Ormai abbiamo attraversato la piazza e siamo davanti all’ingresso del palazzo nel quale abita, in piazza della Città Leonina. Lo ossequio con riverenza. “Buon pranzo, Eminenza!”. Ringrazia, contraccambia i saluti e allunga il braccio per l’ennesima stretta di mano. Scompare nella penombra dell’androne. Mi fermo rispettoso; più in là non posso andare: è l’appartamento privato del Cardinal Joseph Ratzinger, di colui che, il 19 aprile 2005, è diventato Benedetto XVI, il Vicario di Cristo.

Rifletto e sorrido nel pensare che da qualcuno è stato dipinto come un mastino della fede, un guardiano della dottrina, un uomo solitario e intransigente. Gli appellativi folcloristici che gli hanno affibbiato negli anni si sprecano: il Panzer-Kardinal, il grande Inquisitore, la nuova Cassandra, il Cardinal No, il Carabiniere della Fede. Vulgate mediatiche di chi non sa o preferisce non sapere. Anche il ruolo di grande inquisitore, spesso attribuitogli da pseudo–teologi, non ha alcun fondamento. Posso, al contrario, testimoniare che anche nel trattare casi gravi e delicati la sua azione era contrassegnata non dal rigore, ma dal rispetto del diritto e dal desiderio di guadagnare tutti a Cristo e alla Chiesa, ispirandosi al principio della “salus animarum”.

Per ventiquattro anni è stato a capo di quel Dicastero romano che continua a essere chiamato, talvolta in tono sprezzante, con il nome di “Sant’Uffizio”, un nome che ancora oggi, in molti, suscita mistero, timore e preoccupazione. Ma l’unica traccia dell’antica sede giudiziaria voluta da Paolo III nel 1542 con l’appellativo di “Santa Romana e Universale Inquisizione”, è quella inoffensiva che si può scorgere nella lastra marmorea che reca l’indicazione della piazza, a sinistra del colonnato del Bernini.

I primi giorni del suo pontificato sono serviti a fare retromarcia su tanti luoghi comuni: davanti al mondo è apparso come un uomo affabile, semplice, limpido. Chi lo ha descritto come gelido, distaccato, inaccessibile e troppo intellettuale non lo ha mai conosciuto da vicino. Si è invece, via via, fatto strada il ritratto di un uomo non comune per rigore teologico, profondità dello scritto, chiarezza della parola. Ho condiviso con lui dodici anni di lavoro e, qualcosa, credo di conoscerla.

La sua preghiera, anzitutto, lo spirito di orazione, il suo amore per la liturgia. Quando al mattino arrivava in ufficio, puntualissimo, alle ore 9:00, con una borsa di pelle scura in mano, il primo atto era una visita al SS.mo Sacramento, nella cappella interna di San Pio V, il nostro fondatore. Nell’intimità della penombra forse chiedeva a Dio luce e sostegno per l’immane compito che la Provvidenza gli aveva affidato: Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un ruolo che molti criticano, pochi invidiano e pochissimi accettano.

Manifestava la sua profonda spiritualità, la sua capacità di interpretare gli eventi alla luce della Parola di Dio, anche in altro modo. Nella stessa cappella, in qualche particolare ricorrenza, era solito celebrare la Santa Messa, alla presenza di Superiori e Officiali. Per noi, quella liturgia era una grazia e un onore che si trasformava in tangibile conforto in occasione di lutti familiari, quando era lui a celebrare la Messa di suffragio, manifestandoci la sua vicinanza e il suo affetto. Così è stato alla morte di mio padre. Pochi sanno che ogni giovedì, alle ore 7:00, celebrava la Messa nella cappella del Collegio Teutonico, in Vaticano, per i pellegrini di lingua tedesca. Una messa seguitissima, diffusa perfino in diretta dalla radio Bavarese. Una volta, mentre eravamo in visita al Sacro Speco di Subiaco, camminavo al suo fianco. Tra una battuta e l’altra, sfacciatamente, gli ho chiesto a che ora si alzasse la mattina. “Fino a qualche anno fa alle 5:00”, mi rispose affabile, “adesso che sento il peso degli anni mi sveglio alle 6:00. Soltanto così riesco a svolgere le pratiche di pietà: la Messa, la meditazione, la recita del breviario. La mia giornata non mi permette un attimo di pausa: incontri, riunioni, conferenze, scritti da rivedere, documenti da firmare”. Quest’uomo di fede, dalla spiritualità semplice e profonda al tempo stesso, non appariva mai agitato, né quando dirigeva le riunioni, né durante gli incontri con i Superiori Generali o altri Vescovi “problematici”. Sono stato sempre convinto che la sua serenità e calma esteriore fossero la conseguenza diretta della sua serenità di spirito, della sua amicizia con Dio.

Ho avuto, inoltre, il dono di lavorare accanto a un grande uomo dotato di un’intelligenza rarissima, una cultura superiore e una chiarezza cristallina nell’esprimersi. In ufficio era di esempio per tutti: la mole di lavoro che riusciva a svolgere era impressionante. Non c’era dossier, pratica, documentazione o corrispondenza che potesse sfuggire al suo controllo. E alla sua prodigiosa memoria, accompagnata da una cultura teologica, storica e letteraria che lasciava (e lascia) ammutoliti. Basti pensare che, tra i suoi amici e colleghi teologi, si annoveravano personalità del calibro di Karl Rahner, Yves Congar, Henri De Lubac, Rudolf Schnackenburg, Hans Urs von Balthasar, Carlo Colombo.

Ricordo che una volta, in Congresso, nel corso di una occasionale discussione, a sostegno di quanto affermava citò a mente, in latino, un lungo canone del Concilio di Trento. L’Officiale vicino a me riuscì appena in tempo a controllare il mitico Denzinger, verificandone l’esattezza. A conclusione dell’Assemblea Plenaria della Pontificia Commissione Biblica era solito rivolgere ai Membri un breve discorso di chiusura; lo scriveva a mano, direttamente in latino, con pochissime correzioni, mentre seguiva le ultime sessioni dei lavori in aula. La sua produzione editoriale, composta da libri, articoli, saggi, interviste, conferenze e omelie, è sbalorditiva: è stato necessario pubblicare, a parte, un libretto di 85 pagine per riportarne tutti i titoli! Scriveva di getto, a mano, preferibilmente di pomeriggio, usando penna o matita: non conosceva il computer e, credo, neppure la macchina da scrivere. Poi rileggeva con attenzione, verificando, li- mando con pazienza certosina. Un gigante della teologia. Un prodigio di scienza. In una delle prime riunioni in Vaticano, subito dopo la nomina cardinalizia, esordì con le seguenti parole: “Il mio italiano non è ancora buono, non ho studiato a Roma, quindi, con il vostro permesso, gradirei fare il mio discorso in latino…”. E proseguì davvero, continuando a parlare speditamente nella lingua ufficiale della Chiesa, il latino, suscitando impressione e commozione tra i presenti. Sul lavoro, particolare attenzione prestava alla corrispondenza, non solo quella ufficiale proveniente da altri Dicasteri della Curia romana, dai Presidenti delle Conferenze Episcopali, dai singoli Ordinari sparsi in tutto il mondo, dai Superiori di Ordini Religiosi, da Direttori e Presidenti di istituzioni, da ecclesiastici e docenti, ma anche quella ordinaria (mediamente 10/20 lettere al giorno) proveniente da semplici fedeli che, nelle varie lingue, segnalano, implorano, suggeriscono, interpellano, confidano, e qualche volta insultano. A questi interlocutori minori, considerati e trattati con uguale attenzione, molto spesso rispondeva di proprio pugno, su alcuni foglietti volanti, con una grafia minutissima, quasi indecifrabile, talvolta persino stenografando. Sono gli appunti autografi che venivano poi passati a Suor Birgit Wansing, la sua segretaria storica, per essere dattilografati.

Bisognava vedere in che modo meraviglioso guidava le riunioni, in particolare l’Assemblea plenaria della Congregazione. Preciso, metodico, preparatissimo. Una volta, aprendo la seduta del Congresso ordinario, al venerdì, riferì che il giorno precedente era stato inaspettatamente invitato a tenere una importante relazione fuori Roma. Candidamente si scusò perché “pur essendosi alzato alle 4:00 del mattino” non era riuscito a completare la lettura del voluminoso dossier che gli veniva passato, sistematica- mente, la mattina del giovedì, per prepararsi in tempo. Alle riunioni arrivava con i fogli segnati da annotazioni marginali, sottolineature, punti esclamativi. Il suo approccio alle problematiche di fede e morale era sempre aperto, senza sotterfugi mentali, rispettoso delle persone, ma anche integerrimo per quanto riguardava la verità del Vangelo e la fede cattolica. In quelle sedute emergeva, in modo straordinario, sia il teologo che la persona, capace di dirigere, precisare, commentare e soprattutto decidere. Le sue vere qualità, insomma: profondità, competenza, costante disponibilità al dialogo, moderazione del carattere. Non l’ho mai visto infastidito, alterato o agitato. Con lui l’ex Sant’Uffizio, un nome che suscita in molti mistero e inquietudine, è cambiato in maniera quasi radicale. Il Prefetto Ratzinger ha inaugurato uno stile di vita che ha impresso dinamismo e profondità all’azione della Congregazione. Rispetto al passato, segnato principalmente da un atteggiamento eminentemente giuridico e disciplinare, si è passati a delineare un nuovo indirizzo non solo improntato alla difesa della fede, ma soprattutto alla sua promozione, in termini positivi. È stato proprio lui a dare un nuovo vigore a questo cammino, rivedendo, tanto per fare qualche esempio, le procedure per l’esame dei libri, la nuova normativa relativa al regolamento per l’esame delle dottrine, o semplicemente approvando e sostenendo in maniera entusiasta la pro- posta di pubblicare un dépliant a colori, in varie lingue, sulla storia, la struttura e l’attività dell’ex Sant’Uffizio per dare una immagine più viva, positiva e propositiva della Congregazione.

Sull’onda di queste aperture, oggi c’è sempre qualcuno che chiede di visitare il Sant’Uffizio e di avere maggiori informazioni. Sono gruppi di ecclesiastici, docenti e studenti, cattolici e non, provenienti da tutto il mondo. Quando si trattava di visitatori particolarmente attenti era lui stesso a intervenire e a sottomettersi con pazienza alla raffica delle domande. Rispondeva a tutto, anche agli interrogativi più scabrosi. Ha sempre avuto la passione di spiegare, di insegnare la ragione e la bellezza della fede cristiana. Sul versante della scienza della fede o del dialogo teologico l’ho conosciuto come un uomo aperto, leale, in grado di discutere con ogni interlocutore, anche ateo. È lo stesso teologo Joseph Ratzinger a offrirci la chiave di lettura della sua opera di pensatore della fede e di uomo di dialogo con i cercatori di Dio quando afferma che lo scopo della sua vita è stato quello di dedicarsi “al servizio della parola di Dio che cerca e si procura ascolti tra le mille parole degli uomini”.

La sua ricerca intellettuale è stata impostata come un servizio alla Verità, quella di Dio, quella di Cristo e della Chiesa, non quella accattivante, ma spesso falsa, del mondo. Ecco perché la negazione cristiana e umana è da lui identificata nel relativismo, in quella posizione, cioè, che riconoscendo il pluralismo delle verità, in nome di un principio di libertà più o meno legato all’arbitrio soggettivo, esclude l’idea della Verità della fede cattolica, sostituendola con l’unica certezza che tutto sia relativo. È “la dittatura del relativismo”, come efficacemente la definì nel corso dell’omelia pronunciata durante la Messa “Pro eligendo Pontifice”, il 18 aprile 2005, davanti ai 115 Cardinali che si apprestavano a eleggere il nuovo Pontefice. Una espressione pesante, ma significativa, che ha suscitando dibattiti tra filosofi e teologi. Una chiara radiografia del nostro modo laico di pensare e credere, ormai frammentato in mille rivoli di verità che hanno come ultima misura soltanto il proprio io e, spesso, le proprie voglie. Lucidissime, al riguardo, le altre parole da lui pronunciate nel corso della stessa omelia: “Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso, dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Avere una fede chiara, secondo il credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Noi abbiamo un’altra misura, il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo. In Cristo coincidono verità e carità. Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo”.

Per queste sue posizioni è stato spesso bollato come conservatore e restauratore, con quelle tipiche formule, sciocche e semplificatorie, in stile politichese. In realtà egli è stato il teologo fedele a Cristo e alla tradizione della Chiesa, che vive il presente con lo spirito dei tempi nuovi segnati dal Concilio Vaticano II. Per questo, il Prefetto del Sant’Uffizio, divenuto Benedetto XVI, ha sempre evitato il pericolo di uno sterile conservatorismo, ma anche, in nome di una malintesa libertà intellettuale o ecclesiale, i rischi non meno gravi di una innovazione estemporanea, legata più o meno alle mentalità secolari del momento. “La verità di Cristo e della Chiesa non dipende dai voti della maggioranza”, disse una volta nel corso di una conferenza. Nella Chiesa non si tratta di essere conservatori o progressisti, ma semplicemente di non confondere o mescolare l’identità cristiana con categorie antropologiche, ideali sociali o programmi politici che rischiano di snaturarla. Davanti alle sfide della società e delle nuove teologie l’ho sempre visto come un uomo libero, un autentico “cooperatore della verità”, come si legge nel suo stemma, “un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”, secondo le sue prime parole da Papa. Non ricordo in lui nessuna forma di protagonismo ecclesiastico o esibizione di ruolo, nemmeno con i suoi collaboratori subalterni.

In occasione dei nostri Congressi settimanali, la sua capacità di Prefetto che univa in sé il teologo, il pastore e l’uomo di Dio, brillava davanti a tutti. Il Congresso particolare è, si può dire, uno dei momenti istituzionali più importanti dell’attività svolta dal Dicastero per la Dottrina della Fede. Si teneva e si tiene ogni venerdì mattina. Si procede in modo collegiale, cosa rara presso i Dicasteri della Curia romana. Ciascun Officiale deve presentare lo “status quaestionis”, ossia una sintetica relazione del tema o problema da lui seguito in quel momento e per il quale si rende necessaria la decisione dei Superiori. Comincia così una rapida carrellata di interventi, rigorosamente in scala ascendente: al parere espresso dall’Officiale segue quello del Capo Officio, del Promotore di Giustizia, del Sottosegretario, del Segretario e infine quello del Prefetto. Ricordo come il Cardinale ascoltava con attenzione le nostre relazioni, attendeva con molto rispetto il nostro parere e se qualcuno se ne asteneva lo sollecitava: “Lei che ne pensa? Che suggerimenti dà? Quale decisione reputa migliore?”. Non era raro che egli facesse sua proprio la proposta iniziale, magari con qualche aggiustamento, concludendo il dibattito con la classica formula “in voto relatoris”.

Il Congresso si interrompeva alle 11:15 per una pausa. Si tratteneva anche lui conversando amabilmente, mentre assaggiava qualche biscotto e sorbiva un po’ di caffè macchiato. Si interessava di tutto: chiedeva, commentava avvenimenti, si informava, rispondeva a qualche battuta sulla politica italiana, sorrideva divertito per qualche amenità. Era in mezzo a noi, sembrava quasi uno di noi. Dimostrava questo spaccato di semplicità, amabilità e umanità anche in occasione di altre particolari circostanze, come lo scambio di auguri per il suo onomastico (San Giuseppe) o alla vigila del Natale e della Pasqua. In simili circostanze pronunciava, a braccio, un discorsetto, nel quale sapeva cogliere sempre nuovi aspetti, ripescando dal suo bagaglio culturale citazioni di Padri della Chiesa o di qualche teologo di rilievo.

Durante le gite annuali organizzate dalla Congregazione sedeva sullo stesso pullman, in clergyman, come un qualsiasi Officiale. Seguiva la guida a piedi, confuso tra i suoi collaboratori, onorati di avere al proprio fianco un pellegrino così insigne. Sulle ripide strade del Santuario di Oropa o lungo le salite del Sacro Speco, a Subiaco, solo un po’ di affanno tradiva la fatica impostagli dagli anni. A tavola, “il Tommaso D’Aquino dei nostri giorni”, come è stato definito, i cui libri sono oggetto di studio e dibattito anche fra i laici più agguerriti, manifestava la sua familiarità e amabilità. Non beveva vino né birra, ma soltanto aranciata o limonata amara. Raramente l’ho visto sorseggiare mezzo bicchiere di spumante, come nei brindisi ufficiali che concludevano il pranzo solenne dell’Assemblea plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede o quella della Pontificia Commissione Biblica.

Talvolta, nel primo pomeriggio di martedì e venerdì, prima di rientrare al lavoro, lo incontravo mentre passeggiava lungo le caratteristiche viuzze tra il Passetto di Borgo e i vicoli di Borgo Pio, rigorosamente “in nigris”, senza alcun segno della sua dignità episcopale e cardinalizia, ma con l’immancabile baschetto nero sulla testa. Con questo suo quartiere aveva un rapporto speciale, poiché, ogni giorno, attorno alle ore 15:00, era solito fare una passeggiata fin verso la riva del Tevere. Lo conoscevano tutti. Rispondeva ai saluti togliendosi il basco, anche quando piovigginava.

Circa il Conclave, durante il quale il Card. Joseph Ratzinger venne eletto Papa, qualcosa è trapelato. Non mi riferisco alle casarecce boutade giornalistiche, ma a qualche innocua indiscrezione di chi c’era. Si è saputo così che, quando è stato superato il quorum, si è levato subito un grande applauso. Il Cardinale Angelo Sodano gli ha quindi chiesto se accettava l’elezione. Il Card. Joseph Ratzinger ha risposto subito di sì e, sempre in latino, ha detto che accettava “sub ductu Evangelii”, sotto la guida del Vangelo, spiegando, poi, che sceglieva il nome di Benedetto XVI in riferimento sia a Papa Giacomo della Chiesa, un Pontefice di pace e di riconciliazione, sia in omaggio a San Benedetto da Norcia, il riformatore del cristianesimo in Occidente. E ha concluso il suo breve intervento citando proprio la sua regola: “Nulla sia anteposto a Cristo!”.

Poco dopo, nella tarda sera del 19 aprile 2005, dalla loggia centrale della basilica di San Pietro è apparso emozionato e benedicente, tra l’esultanza di migliaia di presenti, accorsi alla “fumata bianca”. Poche parole, ma programmatiche: “Un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”. Così, con la forza della semplicità, Benedetto XVI si è presentato al mondo. All’indomani della sua elezione, scelse di fare la sua prima visita ai suoi ex collaboratori, suscitando in tutti noi viva meraviglia, gioia e commozione. Nel vederlo comparire nello splendore della sua nuova veste bianca, qualcuno si asciugò frettolosamente le lacrime.

Dopo avere vissuto come Papa emerito nove anni, pregando e meditando nella solitudine del monastero Mater Ecclesiae, all’interno dei giardini vaticani, la mattina del 31 dicembre 2022 Benedetto XVI ha concluso la sua esistenza terrena con le parole: “Signore, ti amo!”. Adesso, il dottore della Chiesa che, per lunghi anni, ha studiato e insegnato la scienza di Dio, non ha più bisogno di consultare trattati, commentari, compendi, prontuari, catenae e dizionari: ormai vede, “faccia a faccia” (1Cor 13,12)» (Don Alessandro Belano FDP, 3 gennaio 2023).

Il futuro della Chiesa

«Il futuro della Chiesa può risiedere e risiederà in coloro le cui radici sono profonde e che vivono nella pienezza pura della loro fede. Non risiederà in coloro che non fanno altro che adattarsi al momento presente o in quelli che si limitano a criticare gli altri e assumono di essere metri di giudizio infallibili, né in coloro che prendono la strada più semplice, che eludono la passione della fede, dichiarandola falsa e obsoleta, tirannica e legalistica, tutto ciò che esige qualcosa dagli uomini, li ferisce e li obbliga a sacrificarsi. Per dirla in modo più positivo: il futuro della Chiesa, ancora una volta come sempre, verrà rimodellato dai santi, ovvero dagli uomini le cui menti sono più profonde degli slogan del giorno, che vedono più di quello che vedono gli altri, perché la loro vita abbraccia una realtà più ampia. La generosità, che rende gli uomini liberi, si raggiunge solo attraverso la pazienza di piccoli atti quotidiani di negazione di sé. Con questa passione quotidiana, che rivela all’uomo in quanti modi è schiavizzato dal suo ego, da questa passione quotidiana e solo da questa, gli occhi umani vengono aperti lentamente. L’uomo vede solo nella misura di quello che ha vissuto e sofferto. Se oggi non siamo più molto capaci di diventare consapevoli di Dio, è perché troviamo molto semplice evadere, sfuggire alle profondità del nostro essere attraverso il senso narcotico di questo o quel piacere. In questo modo, le nostre profondità interiori ci rimangono precluse. Se è vero che un uomo può vedere solo col cuore, allora quanto siamo ciechi!

In che modo tutto questo influisce sul problema che stiamo esaminando? Significa che tutto il parlare di coloro che profetizzano una Chiesa senza Dio e senza fede sono solo chiacchiere vane. Non abbiamo bisogno di una Chiesa che celebra il culto dell’azione nelle preghiere politiche. È del tutto superfluo. E quindi si distruggerà. Ciò che rimarrà sarà la Chiesa di Gesù Cristo, la Chiesa che crede nel Dio che è diventato uomo e ci promette la vita dopo la morte. Il tipo di sacerdote che non è altro che un operatore sociale può essere sostituito dallo psicoterapeuta e da altri specialisti, ma il sacerdote che non è uno specialista, che non sta sugli spalti a guardare il gioco, a dare consigli ufficiali, ma si mette in nome di Dio a disposizione dell’uomo, che lo accompagna nei suoi dolori, nelle sue gioie, nelle sue speranze e nelle sue paure, un sacerdote di questo tipo sarà sicuramente necessario in futuro.

Facciamo un altro passo. Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che aveva costruito nella prosperità. Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. In contrasto con un periodo precedente, verrà vista molto di più come una società volontaria, in cui si entra solo per libera decisione. In quanto piccola società, avanzerà richieste molto superiori su iniziativa dei suoi membri individuali. Scoprirà senza dubbio nuove forme di ministero e ordinerà al sacerdozio cristiani che svolgono qualche professione. In molte congregazioni più piccole o in gruppi sociali autosufficienti, l’assistenza pastorale verrà normalmente fornita in questo modo. Accanto a questo, il ministero sacerdotale a tempo pieno sarà indispensabile come in precedenza. Ma nonostante tutti questi cambiamenti che si possono presumere, la Chiesa troverà di nuovo e con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio Uno e Trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra. Essa farà questo con fatica. Il processo infatti della cristallizzazione e della chiarificazione la renderà povera, la farà diventare una Chiesa dei piccoli, il processo sarà lungo e faticoso, perché dovranno essere eliminate la ristrettezza di vedute settaria e la caparbietà pomposa. Si potrebbe predire che tutto questo richiederà tempo. Il processo sarà lungo e faticoso, come lo è stata la strada dal falso progressismo alla vigilia della Rivoluzione Francese – quando un vescovo poteva essere ritenuto furbo se si prendeva gioco dei dogmi e insinuava addirittura che l’esistenza di Dio non fosse affatto certa – al rinnovamento del XIX secolo. Ma dopo la prova di queste divisioni uscirà da una Chiesa interiorizzata e semplificata una grande forza. Gli uomini che vivranno in un mondo totalmente programmato vivranno una solitudine indicibile. Se avranno perduto completamente il senso di Dio, sentiranno tutto l’orrore della loro povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto.

A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede. Certo essa non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte. La Chiesa cattolica sopravvivrà nonostante uomini e donne, non necessariamente a causa loro, e comunque abbiamo ancora la nostra parte da fare. Dobbiamo pregare e coltivare la generosità, la negazione di sé, la fedeltà, la devozione sacramentale e una vita centrata in Cristo» (Professore Joseph Ratzinger – Hessischer Rundfunk, 25 dicembre 1969).

Foto di copertina: Viaggio Apostolico in Portogallo, 12 maggio 2010, Centro Culturale di Belém, Lisboa (Foto di Luca van Brantegem).

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