Una Chiesa, due popoli. Ora Bergoglio deve diventare il Papa di tutti

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Papa Francesco dovrà stare attento ai cattivi consiglieri e riportare a casa gli scontenti e i ribelli in una Chiesa divisa tra riformatori e tradizionalisti. Fra i fedeli a San Pietro per i funerali di Benedetto c’era malcontento… Adesso sul Papa regnante c’è il peso di diventare il Pontefice di tutti. Come un secondo mandato.

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 07.01.2023 – Renato Farina] – Nella storia della Chiesa, la domanda su che cosa sarebbe accaduto dopo la morte di un Papa emerito è un inedito assoluto. Le esequie pallide e il cordoglio smunto per Benedetto hanno fornito una risposta chiara, insieme esistenziale e canonica, su quale e quanto sia stato l’apporto dell’emerito Benedetto XVI alla Chiesa, al Papato e al mondo. Zero. Non perché fosse in sé una nullità come uomo, ma perché sottolineare la sua autorevolezza, addirittura ingigantita dall’agonia e dal suo modo di morire, avrebbe nuociuto all’unicità della potestà petrina. La sentenza è stata tagliata così aspramente con il machete sudamericano da manifestare la volontà di restare incisa nella pietra per saecula saeculorum. Non era un fatto personale insomma, ma non c’è nulla di peggio dei fatti impersonali, di essere cioè maltrattati per il bene della causa, a prescindere dalla assoluta singolarità di ciascuno. Ehi Benedetto è (scusate: era) Benedetto, non un fantoccio di carnevale vestito da emerito.

Francesco, coadiuvato dal sacro cerchio seduto alla sua tavola rotonda, dove non mancano né Giovanni Senza-Terra e neppure lo Sceriffo di Nottingham, ha detto tutto e anche di più, proprio con il non-detto e il non-fatto. In sintesi. Negli eventi di questi giorni non è rilevabile niente di pubblicamente rilevante ed è stato buono e giusto per ragioni di politica ecclesiastica trasferire la salma emerita alla chetichella, su un anonimo furgone, senza accompagnamento non diciamo regale, ma neppure umanamente dignitoso.

Non si doveva dar voce a null’altro che al cristiano dolore per la dipartita “del nonno”. Niente nel rito e nel protocollo doveva costituire un precedente. La morte del Papa emerito, chiunque sia, si chiami come si vuole, e abbia avuto la potenza spirituale e intellettuale di un gigante, resta un avvenimento privato, un fatto che riguarda il defunto e il Giudice Eterno.

Benedetto XVI è stato in questi anni di romitaggio un amico amabile e amato, era bello sorbire un tè con lui, ma c’è sempre stato un solo successore del capo degli apostoli. Non c’è mai stato un trono a due posti, o come si usa dire con metafore talvolta esagerate, una croce per due. Il Pontefice era uno e sarà uno, si chiamava e si chiama Francesco. La domanda stessa sul “dopo Benedetto emerito” è un’invenzione dei mestatori, così come non è mai esistito in agenda il problema a “Papa emerito vivente”.

La proiezione

Intonando le esequie in do minore, anzi, se esistesse, in do minimo, non c’è stato alcun intento maligno di screditare il predecessore. Il gesuita vestito di bianco ha voluto far plasticamente sapere anzitutto a se stesso e ai cardinali che dovessero decidere con chi sostituirlo che, se mai dovesse rinunciare come fece Benedetto XVI l’11 febbraio del 2013, dopo quell’eventuale gesto sarà un nessuno, un emerito niente, preferibilmente si situerà, per non dar pretesto alla confusione, fuori “dal recinto di San Pietro”. Insomma, un atto di umiltà preventiva.

Eppure… Magari tutto fosse così semplice e piano, ah se la teoria fosse capace con la sua logica giuridica di spianare le montagne e tappare le buche dei serpenti a sonagli. Ratzinger ha pensato e agito esattamente annullandosi, anticipando con i suoi quasi dieci anni in monastero i concetti di cui sopra. Ma c’è modo e modo di comunicarli. Il Vaticano ha scelto quello tafazziano, con una cerimonia mesta come negli avvisi mortuari pre-conciliari, con un oscuramento compiaciuto persino del nome del (poco) festeggiato.

Si potevano sostenere le stesse cose: con la gioia però, non con il muso; con il presentimento dell’infinito azzurro, non impedendo alle campane di squillare.

Fonti attendibili fanno trasparire che il Papa in queste ore sta ponendo domande serie al suo Principale. E sta riflettendo sulla realtà-reale: impossibile non sia giunto al suo naso di pastore l’odore delle pecore in piazza e nelle parrocchie. Diciamocelo: Piazza San Pietro giovedì mattina non somigliava proprio al racconto zuccheroso di tanti cicisbei che hanno riempito le cronache dei giornali e delle tivù mainstream, convinti di ottenere così la prossima intervista bergogliana. Ho sbagliato occhiali? Di sicuro, come tanti che non scrivono però sui giornali, ho visto ben altro che una dolce sobrietà e la commozione stendersi uniforme e luccicante tra il seggio di Francesco (avvolto da un piviale persino troppo grande per lui) e i fedeli partecipi e commossi. Evitiamo finzioni consolatorie. Via i braghettoni, please, non siamo in Iran.

Tristezza del popolo e solitudine di Bergoglio, questo abbiamo visto. Nessun alito di speranza ha bucato la nebbia. Il Papa ha perso un’occasione, ascoltando consiglieri un po’ serpenteschi, di far suo Benedetto, di essere finalmente il Papa di tutti, anche di quelli che non gli piacciono tanto, gli appaiono “rigidi e indietristi” che fa rima con tristi, ma più triste e rigido appariva lui, intirizzito nel cliché di una misericordia che non riesce a comunicarsi fuori dall’ambito delle sue preferenze. Queste ore per il Papa regnante sono il tempo dell’abbandono nella capanna di Betlemme, tra le braccia di Maria, aiutando Giuseppe a presentare il bambino ai Magi venuti dall’Oriente. Ratzinger nel monastero è stato per tutti, anche per Bergoglio, “maestro di preghiera”, e questo insegnamento perdura, è il bulbo vivo innestato da Benedetto nel tronco del pontificato argentino.

Gli interrogativi

Adesso si apre un tempo nuovo. Può essere tutto. Potrà essere il tempo della magnanimità di un Francesco che da padre sa come tenersi in casa i figli scontenti e ribelli, destandoli a un’obbedienza operosa e vicina ai poveri. Il suo Papa preferito, San Paolo VI, dopo gli anni illusori delle riforme, si accorse degli errori e orrori che avevano sconvolto la fede dei piccoli aprendo la strada al “fumo di satana nel tempio” (Omelia del 29 giugno 1972). I tempi di Dio, ma anche quelli dei Papi, non sono i nostri.

Non era forse ieri che i piedi piagati dei magi, in un inverno inclemente, trovarono “una grandissima gioia”? Il Vangelo dell’Epifania ha profetizzato questo a Bergoglio. Non l’aridità spaventosa della fine, ma un virgulto fiorito nella vecchiaia.

Questo articolo è stato pubblicato oggi su Libero Quotidiano.

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