La ong ‘Nove’ racconta le drammatiche conseguenze dell’editto talebano in Afghanistan

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Ormai la notizia ha fatto il giro del mondo: Ismail Meshal, docente all’Università di Kabul, su Tolo Tv, l’emittente indipendente afghana che in passato si è già resa protagonista di diverse proteste contro le restrizioni imposte dall’emirato islamico, mostra i suoi diplomi universitari, frutto di una vita di studio, poi li straccia in diretta televisiva di fronte al conduttore: “Da quando ci sono i talebani, l’Afghanistan non è più un posto dove ci si può istruire, se mia madre e mia sorella non possono studiare io non accetto di insegnare”.

Il video è stato postato su twitter anche da Shabnam Nasimi, ex consigliera del ministero per la Ricostruzione dell’Afghanistan che a Londra è la direttrice di un’organizzazione che aiuta gli afghani emigrati nel Regno Unito: “Scene sorprendenti in Afghanistan dove un docente distrugge i suoi diplomi in diretta televisiva e dice: Non accetto quest’istruzione”.

Ma non è l’unico, sono almeno 41 i professori universitari che si sono dimessi dopo che, il 20 dicembre, il ministro dell’Istruzione Superiore, Neda Mohammad Nadeem, in un’ordinanza inviata a tutte le università pubbliche e private delPaese, ha dato ordine di vietare alle afghane l’accesso agli atenei.

Decine di ragazze sono scese in piazza in diverse città dell’Afghanistan, sfidando i talebani che hanno usato anche i cannoni ad acqua per disperderle. Molte di loro sono state arrestate. Nei giorni scorsi su twitter il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva invitato il governo di Kabul a fare retromarcia: “Le ultime restrizioni imposte dai talebani all’occupazione e all’istruzione di donne e ragazze sono violazioni ingiustificate dei diritti umani e devono essere revocate”.

La decisione, che esclude le donne anche dalle università e dall’istruzione secondaria, lascia  tante ong e agenzie dell’ONU attive nel paese senza personale. Oltre che essere altamente discriminatorio, il provvedimento avrà l’effetto di peggiorare ulteriormente le diverse crisi in corso in Afghanistan. Il paese è infatti altamente dipendente dal lavoro delle associazioni umanitarie, sia per i servizi offerti sia per l’occupazione creata dalle stesse.

I Talebani stanno quindi preferendo un regime di apartheid di genere a scapito delle stesse economia e società afghane, in una rigida applicazione della sharia. Il divieto arriva infatti in un momento in cui il paese attraversa una grave crisi alimentare: secondo le Nazioni Unite, 23.000.000 di afghani sono a rischio di insufficienza alimentare, mentre il 97% della popolazione vive in povertà.

Secondo dati ONU, circa 23.000.000 persone (il 55% della popolazione afgana) è a rischio insufficienza alimentare: una vera e propria crisi umanitaria in un paese che conta 3.500.000 sfollati interni. Il 75% della spesa pubblica afghana è garantito dagli aiuti internazionali, che assicurano il sostentamento a oltre metà della popolazione.

Inoltre l’ONU ritiene che se il veto per le ong rimarrà in vigore, l’assistenza salvavita in Afghanistan sarà ridotta del 50%, escludendo oltre 11.600.000 donne e ragazze. E se i partner umanitari decideranno di sospendere tutte le operazioni, l’assistenza salvavita mancherà a 23.700.000 persone.

E fintantoché i Talebani saranno riluttanti a fare concessioni sulle condizioni fissate per il rilascio delle riserve estere dal Fondo afghano, la banca centrale afghana rimane incapace di svolgere il proprio ruolo nella distribuzione di denaro. Mentre le famiglie sono costrette a scelte drastiche per la propria sopravvivenza, ad aggravare la crisi alimentare nel lungo periodo ci sono anche gli effetti dei cambiamenti climatici.

L’Afghanistan entra nel terzo anno di siccità, dopo un anno in cui il paese è stato colpito da alluvioni causate da precipitazioni sopra la media. Secondo le previsioni, infine, gli effetti del fenomeno atmosferico conosciuto come La Niña comprometteranno la produzione agricola anche l’anno prossimo, aumentando ancora il numero di persone che lascerà certe regioni del paese.

Quindi l’emirato talebano dell’Afghanistan ha progressivamente negato alle donne libertà e diritti fondamentali, come quello di frequentare università e scuole superiori.

Altre drastiche restrizioni fanno sì che molte attività di sostegno alle donne afghane possano essere svolte solo da personale femminile; ma il recente divieto alle ong di impiegare donne, emesso dal ministero afghano dell’Economia, impedisce di fatto lo svolgimento di tali attività, come ha dichiarato Susanna Fioretti, presidente dell’ong ‘NOVE’:

“Una decisione crudele che, oltre a privare un enorme numero di donne di aiuti essenziali forniti dalle organizzazioni non governative, costringe lo staff femminile delle ong a restare a casa, rinunciando allo stipendio da cui spesso dipende la sopravvivenza di una famiglia”.

In seguito al divieto, l’ong ‘NOVE’ ha dovuto sospendere alcune attività ma ne continua altre, decisa a mantenere il suo impegno per la popolazione afghana fino a quando sarà possibile operare. Monitora la situazione costantemente, coordinandosi con ACBAR (Agency Coordinating Body for Afghan Relief & Development).

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