Un segno in mezzo alla tragedia. Il platano dell’Artsakh illumina la desolata terra armena

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 19.10.2022 – Renato Farina] – Araksia, una carissima professoressa di Erevan deve aver scoperto chi è il Molokano e dove abita. Mi ha recapitato, tramite mani amiche, nella rustica dimora da cui scorgo il lago di Sevan guizzante di trote – e che gli Azerbajgiani e i Turchi vorrebbero annettere all’impero neo-ottomano in fieri -, un segno, un soffio dello Spirito Santo che ha portato via le nubi nere dalla mia mente stanca di produrre scenari di desolazione e di nuovo genocidio. Ha fatto battere il cuore non più per il desiderio di cavarmela o peggio di vendetta, ma inondandomi di pace, che sarà il nostro destino finale, qualunque cosa accada.

Grazie Araksia. Sono stanco di essere profeta di sventura. Ma non potevo astenermi. Era troppo evidente quel che sarebbe successo. L’aggressione dell’Azerbajgian, contro non più soltanto l’Artsakh ma invadendo il territorio stesso della Repubblica d’Armenia, era nelle cose. Non mentano gli analisti occidentali pagati per disegnare l’evoluzione geopolitica delle forze caucasiche. Lo sapevano che sarebbe successo. Ne hanno di certo informato i loro leader, i quali avranno sbadigliato: amen, vada come deve andare, questi Armeni contano zero sul piano del Pil e del gas, la loro terra è fatta di pietre da cui sorgono miracolosamente le albicocche più dolci del mondo. Vorrà dire che avranno il timbro del Sultano e del suo sodale azero. Non c’era bisogno neppure di fotografie dai satelliti per capire o di notizie riservate. Al punto che persino io, un ignorante Molokano che beve latte e sogni antichi, l’avevo millimetricamente anticipato nell’ultima mia corrispondenza per Tempi [QUI]. A causa delle distanze e del precario assetto delle comunicazioni in quest’angolo dove volteggiano droni azero-turchi, ho scritto e spedito la mia lettera di Molokano il 25 agosto scorso. Raccontavo la visita servile, a nome di voi Europei, di Ursula von der Leyen al dittatore Ilham Aliyev. Il quale intese questo omaggio portato a casa sua, a Baku, come il via libera dato al lupo. Il 12 agosto Aliyev annunciò via Twitter: «Possiamo effettuare qualsiasi operazione sul nostro territorio in qualsiasi momento». Traduco: l’Armenia intera, non solo il Nagorno-Karabakh, è nostro. Lo scrissi il 25 agosto. Il 13 settembre ecco l’attacco [QUI]. Sta ancora accadendo, adesso, mentre scrivo [QUI]. Fino a quando? Fino al martirio degli Armeni? Credetemi: hanno già versato abbastanza sangue.

Anush Abetyan, 36 anni, madre di tre figli, stuprata, orribilmente mutilata e uccisa dai barbari di Aliyev. Le hanno amputato le gambe, le dite e infilate un dito nella sua bocca, cavato gli occhi e sostituiti con delle pietre, e messo il suo corpo nudo in posa degradante, l’hanno filmato e poi pubblicato il video. Chi ha postato il video su Telegram, ha scritto che la donna era un cecchino e con il dito infilato nella sua bocca avrebbe premuto il grilletto. I social network come Telegram, Twitter o TikTok sono pieni di immagini disgustose delle atrocità commesse dai soldati azeri durante i combattimenti. Ma ciò che colpisce è che queste foto e questi video sono postate dai militari azeri stessi, prendendo di mira il pubblico armeno con fiducia nell’impunità.

L’Occidente non dice una parola, non informa nessuno sui crimini di guerra perpetrati dalle milizie di Aliyev. Tu che mi leggi, sai qualcosa della orribile sorte delle donne-soldato armene, fatte prigioniere? Di una sola riferisco. Anush Abetyan, 36 anni, madre di tre figli, stuprata, orribilmente mutilata e infine assassinata. Le hanno amputato le gambe, le mani. Una delle sue dita gliel’hanno infilata in bocca, cavati gli occhi e sostituiti con pietre. Hanno filmato il suo corpo nudo in posa degradante. Si sente l’uomo che riprende il video dire: «Guarda questa puttana, è diventata una pietra». In Occidente che cuore avete? Batte forte di pietà o si fa di pietra inerte a seconda di chi sono le vittime e chi i carnefici?

Ma ecco il dono di Araksia illumina la terra desolata e fa fiorire la speranza. È la foto incorniciata del famoso platano di Artsakh. Non lontano dal villaggio di Skhtorashen c’è il più grande platano di tutto l’immenso territorio dell’ex Unione Sovietica. Ha più di duemila anni. Raggiunge un’altezza di 54 metri. Il diametro alla base è di 27 metri. Ha visto l’uomo camminare dall’età del bronzo all’era atomica. Ha visto re trionfare e morire, il ghigno degli invasori e la mitezza dei martiri, e guerre e guerre. Eppure ogni anno il platano rinnova i suoi germogli. Che possa vincere la forza del platano, che nessuno osi abbatterlo.

P.S. Apprendo che in Italia ha vinto Giorgia Meloni. Applicherà anche lei il doppio standard, quell’etica di convenienza per cui si salvaguarda la libertà dei popoli solo quando è utile ai progetti del più forte? In una bella intervista al Washington Post ha osato difendere l'”identità cristiana dell’Occidente”, ha esposto il fianco. Il platano dell’Artsakh le sorride. Memento Armenia, cara.

Il Molokano

Questa corrispondenza del Molokano è stato pubblicato il 1° ottobre 2022 su Tempi.

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