Filomeno Lopes racconta l’Africa

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Le guerre africane nella contemporaneità, l’epoca della globalizzazione del XXI secolo, sono definite ‘guerre nere’ a causa della loro enigmaticità: conflitti le cui radici sono difficili da capire. In Europa e sui media occidentali in genere sono rappresentate come brutali e selvagge, dal sapore esclusivamente etnico e perciò stesso arcaiche, quasi incomprensibili per chi non è di quelle parti. Si tratta in realtà di conflitti molto più moderni di ciò che si potrebbe pensare, legati alle condizioni socioeconomiche e ambientali delle terre in cui scoppiano, dove si mescolano registri culturali e umani diversi.

Le guerre africane sono politiche tanto quanto quelle degli altri continenti, e sono frutto delle trasformazioni che il continente sta vivendo fin dal volgere del millennio. L’Africa non è indietro o in ritardo, non è estranea alla storia: paradossalmente è entrata nella globalizzazione prima dell’Europa, cogliendone le opportunità e accettandone le sfide, soprattutto quelle contraddittorie del mercato.

In questo modo durante le festività di san Nicola il giornalista e cantante della Guinea-Bissau, Filomeno Lopes (in arte Fifito), ha raccontato in maniera oggettiva il continente africano in guerra per soddisfare le ‘esigenze’ occidentali:

“Dopo un decennio di abbandono l’Africa è tornata a essere al centro degli interessi del commercio globale, sia per le materie prime che per le infinite possibilità economiche che offre, inclusi i traffici illeciti. Tutto ciò sta alla base di molti conflitti e crisi che hanno insanguinato il continente e continuano a tormentarlo. L’analisi dei conflitti conduce necessariamente a quella del fenomeno dei ‘signori della guerra’ come reazione socio antropologica alla decomposizione della società tradizionale”.

Ed ha portato ad esempio la guerra nella Repubblica democratica del Congo: “E’ il caso complesso della Repubblica Democratica del Congo ma anche del conflitto ivoriano. Commentati spesso come guerre etniche, quei conflitti rappresentano i prototipi della ‘doppia narrazione’ spesso utilizzata dai protagonisti per esporre le loro ragioni.

Paradossalmente la creazione o la manipolazione dei rancori etnici si è intrecciata con la fine stessa del sistema delle etnie o la sua definitiva lacerazione, avvenuta nell’urto con le conseguenze delle trasformazioni globali”.

Al termine dell’incontro abbiamo avvicinato il giornalista e, partendo da un episodio avvenuti durante il viaggio apostolico di papa Francesco in Kazakhstan, gli abbiamo chiesto di spiegarci il significato della veste africana regalata al papa: “Quella veste si chiama ‘bambara’, che significa il manto, con cui le mamme portano addosso i propri figli; è il simbolo della fraternità e della sororità. E’ un panno sacro”.

Quanto incide nel continente africano la guerra in Ucraina?

“Molto! Non solo per la mancanza dei cereali, ma soprattutto a causa dell’aumento dei costi per il cibo. A causa della guerra il costo della vita è diventata più cara”.

Il continente africano è sempre più impegnato nelle guerre: la musica può essere un mezzo di pacificazione?

“La musica è un ottimo strumento per suonare le campane della coscienza e del cuore della gente. Però è compito della gente compiere il passo. Il musicista bussa alla porta del tuo cuore e della tua testa. La decisione deve aspettare a ciascuno di noi”.

Lei, insieme al prof. Roberto Mancini, ha scritto un libro intitolato ‘Per una democrazia post razziale. Lettera aperta ai vescovi dell’Italia e dell’Africa sul problema dell’immigrazione’: cosa significa costruire una democrazia post razziale?

“La democrazia post razziale è un testo che ho scritto con il prof. Roberto Mancini: dobbiamo allargare gli orizzonti della partecipazione a tutti i popoli, indipendentemente dalla pelle e dalla religione. Siamo nel XXI secolo ma purtroppo il tema del razzismo è molto radicato. Finché esiste il razzismo uno Stato non può dirsi democratico”.

Allora è possibile essere portatori di speranza?

“Sì. Basta che ciascuno faccia con entusiasmo il proprio lavoro. Guai se mancano questi segni di speranza. Nonostante tutto l’aurora c’è sempre. Molte volte più fitta è la notte, più vicina è l’alba. Però c’è bisogno di persone che sappiano capire e leggere i segni dei tempi”.  

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