P. Renato Zilio: a Casablanca per costruire una città accogliente

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“Il senso ultimo del nostro ‘viaggio’ in questo mondo è la ricerca della vera patria, il Regno di Dio inaugurato da Gesù Cristo, che troverà la sua piena realizzazione quando Lui tornerà nella gloria. Il suo Regno non è ancora compiuto, ma è già presente in coloro che hanno accolto la salvezza”: così inizia il messaggio di papa Francesco, ‘Costruire il futuro con i migranti e i rifugiati’, in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che si è celebrata domenica 25 settembre.

Nel messaggio il papa propone una nuova visione della città: “Il suo progetto prevede un’intensa opera di costruzione nella quale tutti dobbiamo sentirci coinvolti in prima persona. Si tratta di un meticoloso lavoro di conversione personale e di trasformazione della realtà, per corrispondere sempre di più al piano divino”.

Partendo da queste riflessioni del papa abbiamo contattato p. Renato Zilio, che appartiene alla Congregazione dei Missionari di San Carlo (scalabriniani), da qualche mese nella parrocchia ‘Notre Dame de Lourdes’ di Casablanca in Marocco per aiutare il parroco, don Antoine: “Una chiesa immensa, vetrate magnifiche da cattedrale francese, una grotta di Lourdes di fronte, a grandezza naturale”.

E racconta che in questo territorio ci sono anche alcune congregazioni di religiose: “In un altro quartiere, chiamato Bourgogne, si notano povertà e trascuratezza. Già da lontano, tuttavia, una piccola siepe vi attira: è fiorita, curata. Crea un altro clima, anzi, si fa messaggio.

Povertà e bellezza possono coabitare insieme. Ed è qui che abitano le Piccole sorelle di Gesù. Nate nel deserto dell’Algeria come un dono di Dio, quando il deserto sa farsi fecondo… Coltivano la contemplazione e la fratellanza universale, ereditate da Charles de Foucauld.

In un altro quartiere vivono le clarisse. Trovarle non è facile, si dovrà forse suonare al campanello di qualche vicino… Un muro alto, bianco, nessuna iscrizione esterna. Come già facessero parte dell’invisibile. E’ il loro monastero. Sono di varie parti dell’Africa. La superiora è italiana. Al loro canto si aggiunge il suono allegro delle nacchere, del tamburello e di altri strumenti, come in un qualsiasi villaggio africano.

Nel quartiere ‘Oasi’ si erge un’imponente e bella costruzione, l’Ècole du Carmel St. Joseph. E’ diretta da suore venute dal Libano, parlano tranquillamente arabo o francese. L’istituto fa parte delle scuole cattoliche, ma di cristiano c’è ben poco, a prima vista…

Tutti gli allievi, un migliaio sono, infatti, musulmani. Il corpo insegnante è musulmano, così pure il personale di servizio. Ma resta la sostanza. Nel quartiere Roches Noires, vi sorprenderà una suggestiva chiesa gotica con le sue altissime guglie, diventata una frequentata moschea. A due passi abitano le suore di Madre Teresa”.

In quale modo è possibile costruire il futuro insieme a migranti e rifugiati?

“I migranti possiedono due qualità essenziali, vitali, quando si parla di futuro: il coraggio e la speranza. Sono due ingredienti di base per costruire l’avvenire, perché ‘vola solo chi osa farlo’, ha scritto Sepúlveda. E i migranti hanno, come afferma qualcuno, ‘un senso aggressivo della vita’, cioè vogliono vivere a tutti i costi. Personalmente, a Casablanca, vedo che i giovani migranti subsahariani mostrano un coraggio che trasporta le montagne!

Sono pronti ad affrontare le altissime barrière di 7 metri con la Spagna, ancora una volta… dopo ben 17 volte che vi hanno provato e riprovato, spezzandosi spesso le gambe, cadendo. Solo in questo modo hanno la coscienza di costruire un avvenire per sé, per la famiglia, per il loro villaggio. ‘Non c’è altra scelta’, vi diranno. Non tutto é programmato, preordinato, già stabilito.

La loro vita, un passo dopo l’altro,… così per arrivare in Spagna, poi in Francia, in Germania, in Inghilterra. Ogni migrante porta sempre con sè la speranza: un sogno dentro di sè, un desiderio fortissimo, insopprimibile, di un futuro migliore. ‘La loro colpa, in fondo?’, si domandava con lucidità il vescovo di Senigallia (ora emerito), mons. Giuseppe Orlandoni: ‘Voler vivere una vita degna!’ Con le loro qualità migliori è possibile costruire insieme futuro”.

Su quali basi si fonda una città inclusiva?

“Vigilando. Sì, solo facendo attenzione e prendendo cura degli anelli più deboli di essa: ‘La vita non é prendere le cose, ma prendersi cura delle cose’, ricorda un noto scrittore. E ciò rappresenta come un test per la società stessa: il grado di umanità o di disumanità che la fa vivere, di indifferenza o di impegno civile, di forza morale che la anima. Sulla base della fraternità e del mutuo soccorso, con delle regole decise dalla collettività, senza discriminazioni.

Ma affidando a tutti gradualmente delle responsabilità: ciò insegna a ‘rispondere’ o a corrispondere in una realtà che vi ha semplicemente accolto. Come sempre, è dando responsabilità che si creano esseri responsabili. Per non appiattirsi sull’assistenzialismo.

Inoltre, apprendendo in ogni modo la lingua del Paese, in cui si intende costruire il futuro insieme. Infine, far conoscere i diritti di ognuno, lottando per essi e rispettandone anche i doveri. Non dimenticando, così, che ‘costruire la pace significa oggi aprire le porte a chi soffre’. Bisogna imparare a valutare gli uomini ‘non per quello che fanno o non fanno, ma per quello che soffrono’, ricordava Bonhoeffer”. 

Cosa offrono alla comunità ecclesiale i migranti cattolici?

“Offrono un senso forte della fede, sentita come una forza interiore che li fa andare avanti, nonostante tutto. La fede, così, non è solo preghiera, devozione o sentimento. E’ molto di più. Una forza che rigenera, che rialza e che sostiene i passi di un cammino originale come quello di Abramo. Qui e oggi. Vivendo ‘una storia sacra’ dei nostri tempi, un’avventura con Dio. Dove tutto è perduto.

Ma tutto ricomincia a vivere su un’altra terra: ogni realtà vi è sconosciuta, nuova, da addomesticare pian piano. Allora, la patria per un migrante diventa il mondo. E lui stesso, per la comunità cristiana, diventa una finestra sul mondo. Un appello alla fraternità universale.

Un grido per un mondo meno egoista, privilegiato, ripiegato su di sè e individualista. Per ambedue le sponde l’incoraggiamento forte del Vangelo: ‘Avanza su acque profonde!’ Per toccare la terra promessa da Dio: la fratellanza tra gli uomini”. 

Cosa significa accogliere i migranti nella diocesi di Rabat?

“Continuare l’opera del buon samaritano. Nella diocesi di Rabat vivo a Casablanca. La Chiesa Notre Dame de Lourdes, allora, prende l’aspetto di ‘un ospedale da campo’, secondo l’immagine di papa Francesco. Ma per noi assume un senso letterale. Alla domenica la chiesa si riempie di… qualche europeo e centinaia di cristiani da tutta l’Africa dell’ovest: Benin, Togo, Guinea, Senegal, Burkina, residenti a Casablanca.

Ma notte e giorno, come un flusso continuo, arriva un’umanità in cammino: giovani migranti subsahariani. Hanno in testa un sogno: l’Europa. A volte, adolescenti, hanno rubato in casa i soldi ai genitori, mettendosi in viaggio per una vera, inimmaginabile via crucis tra Mali, Niger, Algeria e Marocco. Così triste, dura e umiliante che su questo spesso non aprono bocca!

Come un macigno, che pesa nell’anima, impossibile da sollevare. Con noi vivono in canonica una dozzina di giovani migranti musulmani subsahariani (due miei vicini di camera hanno la tubercolosi), un’altra ventina in un abitato adiacente. Alcuni sono malati, altri feriti. Altri giovani migranti subsahariani arrivano notte e giorno alla parrocchia, a piedi nudi, respinti alla frontiera, a centinaia di km da qui…

Hanno sottratto loro le scarpe. Vicino alla stazione di Casablanca ce ne sono centinaia, stendendosi di notte su un pezzo di cartone. Il lunedì e venerdì, nella mattinata, li vedi arrivare qui a frotte per la colazione, a volte grattandosi dappertutto per le punture di insetti notturni. Le altre mattine vengono alla nostra Caritas (Coordinate bancarie per eventuale donazione:

IBAN FR 76 3000 4025 0300 0100 8585 387 Eglise Catholique au Maroc BNP Causale: Caritas Casablanca) per vestiti, consulenze, medicinali. Spesso c’é da accompagnarli all’ospedale per ore e ore, pagando loro ogni esame e visita, perchè privi di ogni documento.

‘E’ compito della Chiesa, in nome del suo Vangelo, umanizzare questa emigrazione,… curare, confortare, proteggere!’, ci ripete père Antoine, il parroco. Nel suo ufficio con quattro materassini ospita altrettanti giovani migranti musulmani. Così la nostra Chiesa si fa ‘sacramento dell’incontro’. Segno di Cristo in terra d’Islam. Evangelizzare qui significa semplicemente amare. Ma proprio da questo tutti ci riconoscono suoi discepoli”.

Come vivono le comunità cattoliche nella diocesi di Rabat?

“La Chiesa in Marocco è una Chiesa umile, coraggiosa, fraterna. E minoritaria, cioè insignificante per numeri, ma significativa. Solo 25/30.000 cristiani su 37.000.000 circa di musulmani! Fatta di stranieri, ma non straniera a questo popolo. A servizio del Regno di Dio, della giustizia, della pace, del dialogo. E non di sè stessa, non ripiegata su di sé.

Realmente cattolica, perchè di un centinaio di nazionalità differenti. Appassionata e appassionante, nel suo tenace costruire ponti con una società tanto differente. Una buona samaritana… Ma papa Francesco ricorda che non è un problema essere in pochi. Lo è piuttosto essere sale che non ha sapore, essere luce che non fa luce. E qui si vivono allo stesso tempo tre periferie, come le chiamerebbe il papa.

Il rapporto quotidiano tra cristiani e musulmani. Quello di gente del Nord e del Sud dell’Africa. E quello di differenti povertà che si incontrano. Le chiese cristiane si sono riempite di centinaia di giovani universitari subsahariani, a cui il governo marocchino riserva delle borse di studio. Le loro corali alla domenica trasmettono un entusiasmo travolgente, un nuovo soffio all’assemblea.

Ogni cristiano sa che l’unico Vangelo che i musulmani leggono è la sua stessa vita. Nella terra dove Dio è grande dovrà farsi testimonianza di un Dio che è amore. Ed è, senz’altro, l’originalità più bella”.

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