Mons. Beschi: cercare la pace non è starsene tranquilli

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‘Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno’: da questa frase del salmo 85 si è dipanata l’omelia del vescovo di Bergamo, mons. Francesco Beschi, in occasione della festa del patrono sant’Alessandro, perchè la pace è ‘una tentazione pericolosa ritenere la pace una condizione naturale e scontata. La pace è una scelta fondamentale e permanente, una virtù, un abito dell’anima’.

Ma la pace non può esistere senza speranza: “La speranza è la più grande virtù, perché è difficile, ma necessario, vedere come vanno le cose e sperare che, nonostante tutto, domani potranno andare altrimenti. La speranza esige di alimentarsi alla sorgente del desiderio ed è una sorgente che tende ad esaurirsi, come fosse provata da una siccità che rende arida la terra, sempre meno irrigata dall’acqua buona della speranza. Dobbiamo constatare che più che il desiderio di pace, domina il desiderio di ‘starsene in pace’ teso ad alimentare l’indifferenza più che la speranza”.

Mons. Beschi ha messo in guardia da uno scivolamento nell’individualismo: “La guerra che si combatte in Ucraina ormai da mesi, con decine di migliaia di vittime, milioni di profughi, efferate violenze che non risparmiamo nessuno, distruzioni di intere città, villaggi, infrastrutture di ogni tipo, sembra penetrare nel sottosuolo delle nostre esistenze, più per le conseguenze che contribuisce a determinare sul nostro tenore di vita, che per ciò che rappresenta per milioni di esseri umani. Del resto, avviene così per le decine di ‘guerre periferiche’ rispetto ai nostri confini; quelle guerre che disegnano la drammatica ‘terza guerra mondiale a pezzi’: un’immagine efficace di papa Francesco”.

Citando una frase del profeta Isaia scolpita in una parete del palazzo dell’Onu mons. Beschi ha affermato che la paura non può alimentare la pace: “Non può essere il termometro della paura ad alimentare il desiderio e quindi la speranza di pace, ma un’interiore e condivisa convinzione, particolarmente esigente ed impegnativa nel momento in cui nutriamo la consapevolezza che la pace è un bene complessivo, le cui condizioni impegnano ciascuno e la comunità nel suo insieme”.

Non ci si può assuefare alla guerra: “Siamo esposti alla tentazione di ‘diventare inferno’: la tentazione di rassegnarci alla guerra, alla violenza, al sopruso, all’ingiustizia, alla menzogna, all’odio, allo sfruttamento da parte del più forte. Ma le generazioni che hanno vissuto questo ampio arco di pace in Europa sono esposte ad una tentazione ancor più pericolosa: quella di ritenere la pace una condizione ‘pacifica’, ‘naturale’, ‘scontata’.

C’è un’altra insidia alla pace reale, che si annida nella timorata, progressista convinzione che il progresso sia già realizzato, che la civiltà abbia vinto la barbarie e che la guerra, almeno nel nostro mondo, sia stata debellata, come la febbre gialla o il vaiolo lo sono stati dai vaccini”.

Ma la pace è una scelta: “La guerra non si nomina, neanche quando c’è; non la si dichiara, neanche quando si gettano le bombe. In realtà la pace è una scelta, una scelta fondamentale e permanente e dunque una virtù: un abito della mente, del cuore, delle mani, dello spirito”.

L’esempio della pace lo ha praticato anche un pontefice bergamasco, san Giovanni XXIII: “La terza pietra angolare è l’amore, la solidarietà operante che sostiene gli altri due princìpi con la cooperazione in vista del bene comune. Nella solidarietà, secondo san Giovanni XXIII, sarebbe possibile mantenere l’equilibrio tra popolazione, terra ed economia, potrebbe essere affrontato il fenomeno dei profughi, sarebbe immaginabile intraprendere la via del disarmo sia dell’apparato bellico sia dei cuori.

La quarta pietra angolare è la libertà, che richiama ogni comunità politica alla responsabilità di lasciare autonomia alle altre di essere il primo artefice della propria crescita. In questa prospettiva, fare comunità, costruire comunità è la fondamentale condizione per la pace”.

Per questo occorre allargare la parola ‘noi’: “Si tratta di superare un ‘noi’ esclusivo e lavorare per un “noi allargato”, particolarmente a coloro che sono emarginati perché scartati, inutili e alla fine pesanti o addirittura pericolosi: dalle persone in condizioni di non autosufficienza, a quelle limitate nella libertà, da coloro che cercano nel nostro paese una vita migliore a quanti scivolano in condizioni di povertà e con frequenza vengono indicati come colpevoli”.

Per questo la pace si chiama anche riconciliazione: “Il cristiano accoglie il dono della pace che viene da Dio ed è diverso dalla pace del mondo. Il dono di Dio si chiama riconciliazione: con Lui, con se stessi, con il prossimo. La riconciliazione non è solo un processo spirituale, ma diventa sociale e infine politico. Testimoni di riconciliazione, dunque, fino al martirio dell’incomprensione, del rifiuto, del dileggio e del disprezzo”.

Il dono della pace è generativo: “Il dono di Dio non è semplicemente assenza di guerra, anche se poter vivere liberi dalla paura di una bomba che cade sulla testa, sulla casa, sulla città, è già gran dono. Il dono di Dio è generativo di un insieme di beni che prendono il nome di salute, accoglienza e cura della vita, conoscenza, libertà, giustizia, ecologia integrale, benessere sociale, integrazione, relazioni generative…

Il dono della pace di Dio, non ha confini: la preghiera e l’impegno del cristiano, fino alla testimonianza più esigente e costosa, come quella dei martiri, è per una pace senza confini. Questa è la pace donata da Cristo: una pace senza confini”.

(Foto: diocesi di Bergamo)

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