Gender. Monsignor D’Ercole: «Lo Stato non può rubare alla famiglia il diritto di educare i figli». L’intervista a Pro Vita & Famiglia

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Accoglienza delle persone omosessuali in nome della misericordia di Dio, fermezza sull’ambigua pericolosità dell’ideologia gender. Secondo Monsignor Giovanni D’Ercole, insegnare ai giovani che il sesso possa essere scelto come fosse un vestito da indossare è un «abuso di potere contro la verità sull’uomo». A colloquio con Pro Vita & Famiglia, il Vescovo emerito di Ascoli Piceno si è espresso sulla libertà educativa e su quella che, a suo avviso, dovrebbe essere l’attitudine pastorale della Chiesa su argomenti così delicati e attuali.

Eccellenza, tra poche settimane riapriranno le scuole e tornerà a porsi il tema della libertà educativa. In Italia vige il principio del consenso informato, spesso calpestato, soprattutto quando c’è di mezzo l’ideologia gender. Qual è la sua posizione in qualità di vescovo?
«Ritengo innanzitutto che su questi temi ci sia un’ignoranza imperante, che si sposa con una superficialità inconsapevole ma colpevole. Da un lato, i genitori non sono sempre ben consapevoli di quanto avviene, dall’altro, lo Stato, non rispettando pienamente la Costituzione – secondo la quale, l’educazione spetta in primo luogo ai genitori – evoca a sé temi educativi delicati e questo mi sembra un abuso di potere. Lo Stato, infatti, senza esplicita delega da parte delle famiglie, anzi spesso contro il loro stesso volere, si è sostanzialmente impossessato di tutte le agenzie educative e diffonde tesi e ideologie spacciandole come strumenti utili alla crescita delle nuove generazioni. La Chiesa Cattolica rimane fra le poche realtà educative a portare avanti un discorso legato alla verità oggettiva dell’essere umano e non alla convenienza sociale del momento: spesso, chi sostiene queste sue posizioni, è tacciato di “oscurantismo medioevale”. Ci stiamo abituando a quest’abuso che diffonde subdolamente l’ideologia gender e quasi nessuno, oggi, osa mettersi contro tale tipo di pensiero dominante, altrimenti sei tacciato d’essere fascista, illiberale, un pericolo pubblico. Arrivati a questo punto, credo vi siano responsabilità a tutti i livelli, a partire da ciascuno di noi, che abbiamo perso la voglia di informarci seriamente su tutto ciò che concerne la vita, la società, l’educazione e le responsabilità che quest’ultima comporta. In secondo luogo, nel conflitto antropologico attuale, anche in ambito cattolico, con la scusa di cercare punti di incontro con tutti a tutti i costi, taluni, a mio avviso, rischiano una specie di autocensura “buonista”. Non mi allineo su una tale posizione: ho sempre sostenuto che bisogna lottare e continuerò a farlo, perché credo che il gender rappresenti la distruzione dell’essere umano nella sua struttura più profonda, e che sia un’ingiusta e pericolosa ingerenza nei confronti della famiglia».

Una delle espressioni più recenti dell’ideologia gender a scuola è la “carriera alias”: a riguardo, cosa ne pensa?
«Anche questo progetto, a mio parere, fa parte di un disegno distruttore dell’essere umano. I fautori di tale presunta “battaglia di civiltà” dimenticano, però, che, dove questa ideologia è stata impiantata negli anni passati, oggi si comincia a fare marcia indietro e a fare mea culpa: basta vedere quello che sta avvenendo in America e in Inghilterra, per capire che tutto questo, prima o poi, cadrà, perché la verità non può essere contrabbandata fino in fondo. Dire a un ragazzo che può scegliere tra essere maschio o femmina o altro ancora, è cosa logica? Essere maschio o femmina è iscritto nella natura dell’essere umano. Poi ci possono essere casi e situazioni particolari che vanno analizzati e affrontati con rispetto ma non distruggendo la verità antropologica. Scegliere fino a 99 e più generi possibili, spero non diventi la norma e uno stile di vita; lo dico specialmente per chi viene dopo di noi. Sono questioni che ripugna persino parlarne, perché sono il frutto di un abuso di potere verso la verità sull’uomo. Ai ragazzi viene data come grande conquista socio-culturale qualcosa che, a mio avviso, costituisce il contrario ed il lato tragico della cosa è che coloro che predicano tutto questo, si credono artefici di una nuova civiltà e, come mi è capitato costatare, qualche volta sono pagati per ripetere a memoria una lezione che nemmeno loro comprendono».

Anche fuori dalla scuola, un grosso rischio è rappresentato dai contenuti che arrivano sugli smartphone, alla portata di bambini anche molto piccoli. Che suggerimenti dare alle famiglie?
«Certamente i bambini oggi crescono per forza di cose in un clima pansessualista, nel senso edonistico e materiale del termine. È la cronaca stessa a raccontarci in modo esauriente gli effetti devastanti degli strumenti social messi in mano ai più piccoli. Certamente è dovere dei genitori controllare ciò che i piccoli vedono ed utilizzano. Non è però sempre facile, perché, fuori dalla famiglia, ci sarà sempre qualcuno che si premurerà di introdurli a questi temi e contenuti. L’altra possibilità è incoraggiare a creare comunità di famiglie ispirate ai valori umani e spirituali, all’interno delle quali si costruisce un clima nel quale i bambini possono crescere nel modo più armonioso possibile e acquisire la capacità critica per saper discernere e trovare le risposte giuste alle domande che si pongono. Tutto questo è già in parte realtà: penso alle scuole parentali, che si stanno diffondendo tra molte difficoltà ma con grandissimi benefici. Ci sono poi famiglie che si uniscono per crescere insieme e condividere l’educazione dei figli. Si tratta di giovani coppie che vanno in controtendenza: hanno il coraggio di mettere al mondo nuove vite e di educarle secondo principi cristiani che la tradizione ha avvalorato nei secoli. Dove però c’è la divisione tra le coppie genitoriali, c’è la devastazione dell’infanzia. Per questo bisogna lottare senza stancarsi e nella preghiera invocare la misericordia di Dio perché solo Lui può metterci una mano. La certezza che Dio guida la storia mi rende fiducioso sul futuro».

Negli ultimi anni, la Chiesa ha dimostrato una certa apertura nei confronti del mondo LGBT+, non tanto verso l’ideologia, quanto verso le persone che vi aderiscono. Al tempo stesso, ai vari Pride degli scorsi mesi, non sono mancati atteggiamenti offensivi e blasfemi nei confronti della fede cristiana. Quale dovrebbe essere allora il giusto approccio nei confronti di questo mondo?
«Se dico: “Compiere l’atto omosessuale è un peccato”, dico una verità chiaramente affermata nel Catechismo della Chiesa Cattolica e il cristiano sa che confessandosi si affida alla misericordia divina. Non combatto però l’omosessualità che è fenomeno complesso e da non banalizzare perché è una condizione che oggi diviene sempre più diffusa. Su questo argomento, si fa molta fatica a trovare la risposta giusta. Spesso si utilizza l’omosessualità come tema provocatorio verso chi, come noi, afferma principi cristiani. Replicare non serve perché, oltre ad amplificare la polemica, non si arriva a un’intesa quando il dialogo è rifiutato in partenza. Lavorando nella comunicazione, so per esperienza che rettificare una notizia o commentarla è come darla due volte. Non troppo vale la pena, allora, controbattere, si darebbe troppa importanza a certe notizie di cronaca dal sapore scandalistico e provocatorio. Diverso il dialogo tra persone che avvertono la loro situazione come problematica. Vorrei poi dire a coloro che, in occasione dei Pride, organizzano cortei di preghiere riparatrici, che fanno bene, perché non si vergognano della loro fede, ma meglio ancora sarebbe farlo evitando ogni rischio di ostentazione e strumentalizzazione. Inoltre, ciò che importa è lavorare a fianco di persone, che vivono l’omosessualità come un dramma interiore e cercano un aiuto. Parlo per esperienza personale: occorre sempre essere delicati e comprensivi con loro. Se invece vedo persone che ostentano platealmente la loro omosessualità in modo pacchiano e provocatorio verso la religione cattolica, mi dispiace e mi arrabbio perché amo la mia Fede. Poi però rifletto e vedo dietro quegli atteggiamenti un grande vuoto e forse un non dichiarato bisogno d’amore, tanta sofferenza e anche inconsapevole sete di verità. Più che rabbia, allora, quei comportamenti mi suscitano un senso di tenerezza paterna. Se avessi un figlio che va al Pride e compie gesti provocatori, dovrei chiedermi se sono stato capace di dargli amore vero. Insomma, l’atteggiamento giusto è guardarli con rispetto e con misericordia e, se chiedono aiuto – perché questo prima o dopo arriva – essere pronti a rispondere, dicendo però tutta la verità, perché non ci può essere amore vero senza l’amore per la verità».

Questa intervista a cura di Luca Marcolivio è stata pubblicata il 10 agosto 2022 da Pro Vita & Famiglia Onlus [QUI].

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