La richiesta di “perdono” del Vescovo di Roma “penitente” in Canada

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A margine del “pellegrinaggio penitenziale” del Vescovo di Roma presso le popolazioni indigene del Canada – monarchia parlamentare federale del Commonwealth, con a capo Elisabetta II (monarco) e Mary Simon ( Governatore generale) – condividiamo di seguito tre articoli, rispettivamente a firma di Rino Cammilleri, Prof. Roberto de Mattei e Andrea Gagliarducci.

«Oggi è di moda parlare di perdono. Ma non si riferisce a quello predicato da Gesù. Infatti nella maggior parte dei casi, le ideologie usano il “perdono di convenienza”. Se può servire alla loro causa allora si può concedere, altrimenti nulla da fare. Così il mondo non si salva» (Don Salvatore Lazzara).

  • Le scuse del Papa agli indiani? È roba politically correct di Rino Cammilleri su Nicolaporro.it del 27 luglio 2022. «La solita giornalista radical nel solito servizio ha scoperto, qualche anno fa, una moria di bambini inuit e indians negli orfanotrofi cattolici, con tanto di foto aerea di rilievi di terra allineati che sarebbero tombe. Abusi, maltrattamenti etc. (la giornalista, di origine native, è partita, ha detto, da una voce diffusa nella sua comunità). A parte il fatto che nessuno a tutt’oggi è andato a vedere cosa c’è in quelle “tombe”, la comunità indian-inuit, opportunamente aizzata, è partita in quarta contro la Chiesa. Soldi, vogliamo».
  • A proposito del “mea culpa” di Papa Francesco in Canada di Roberto de Mattei su Corrispondenza Romana del 27 luglio 2022. Il Prof. De Mattei cita un nostro articolo del 22 febbraio 2022 Fossa comune di bambini indigeni nei pressi di una scuola Cattolica in Canada? Fake news, nessun corpo trovato e conclude: «Il tasso di mortalità nei giovani che frequentavano le scuole residenziali era in media di circa 4 decessi all’anno ogni 1.000 giovani e la causa principale era dovuta a tubercolosi ed influenza.  Sembra che finalmente si siano autorizzati gli scavi a Kamloops, ma, come afferma il Prof. Rouillard, sarebbe stato meglio si fossero svolti lo scorso autunno, così da conoscere la verità ed impedire a papa Francesco di venire a scusarsi sulla base di ipotesi non provate». Ricordiamo il corsivo oggi su questo Blog dell’Editore di Franco Angeli Una tortuosa verità, che commenta l’articolo del Prof. De Mattei.
  • Papa Francesco in Canada: “La fede è sempre trasmessa in lingua materna”. Si chiude la seconda giornata del pellegrinaggio penitenziale del Papa in Canada con un incontro con le popolazioni indigene al Lac St. Anne. Il Papa esalta il lavoro dei missionari, chiede di privilegiare la verità all’istituzione di Andrea Gagliarducci su ACI Stampa del 27 luglio 2022. «Papa Francesco ritiene che “parte dell’eredità dolorosa che stiamo affrontando nasce dall’aver impedito alle nonne indigene di trasmettere la fede nella loro lingua e nella loro cultura”, una perdita che “è una tragedia”». Questo ci fa ricordare che il Cardinale Désiré-Joseph Mercier, Arcivescovo metropolita di Mechelen e Primate del Belgio si oppose alle conseguenze del movimento fiammingo, in particolare per quanto riguarda l’Università di Leuven. Proibì l’insegnamento della teologia in neerlandese, lingua con cui secondo lui non si poteva parlare di Dio, al contrario del francese. Secondo un sacerdote fiammingo, gli avrebbe spiegato la sua visione sulla “convivenza” di neerlandofoni (Fiamminghi) e francofoni (Valloni) in Belgio: “Io sono di una razza destinata a dominare e tu di una razza destinata a servire”. Nelle Fiandre il paladino dell’ecumenismo è soprannominato “Vlamingenhater” (Odiatore dei Fiamminghi). Per quando la richiesta di perdono del Vescovo di Roma al popolo fiammingo?
papa canada

Le scuse del Papa agli indiani? È roba politically correct
di Rino Cammilleri
Nicolaporro.it, 27 luglio 2022


Vista al tg una vecchissima indiana canadese lagnarsi perché le era stata sottratta al sua «indianità» quand’era bambina, vediamo di dire la nostra sul viaggio del papa in Canada. Qualcuno lo ha criticato: come, non vai in Africa dove i cristiani vengono massacrati perché sei in carrozzina e invece ti fai sette ore di volo per andare in Canada dove i massacri non ci sono? La risposta è, sì, perché, tanto, in Africa la sua presenza non avrebbe cavato un ragno dal buco, mentre in Canada le cose sono diverse, molto, e Trudeau, il premier più a sinistra del mondo, l’aveva «invitato». Con una proposta che non si può rifiutare, quando era venuto a Roma a dirgli di venire a «chiedere scusa» a eschimesi e indiani canadesi.

Ora, da quelle parti (e anche nei sottostanti USA), in ogni cesso pubblico c’è appostato un avvocato che ti dice appena entri: se ti becchi qualche infezione questo è il mio biglietto da visita. Ciò significa che molte diocesi nordamericane sono praticamente rovinate da richieste di risarcimenti miliardari per abusi veri o presunti tornato a galla dopo quarant’anni. E, anche là, se il giudice è di sinistra indovinate come va a finire. Ma, pure se è trumpiano, l’incauto querelante è quasi sempre un fallito, perciò si paga sempre e si incassa mai. Detto questo, veniamo al Canada. La solita giornalista radical nel solito servizio ha scoperto, qualche anno fa, una moria di bambini inuit e indians negli orfanotrofi cattolici, con tanto di foto aerea di rilievi di terra allineati che sarebbero tombe. Abusi, maltrattamenti etc. (la giornalista, di origine native, è partita, ha detto, da una voce diffusa nella sua comunità). A parte il fatto che nessuno a tutt’oggi è andato a vedere cosa c’è in quelle «tombe», la comunità indian-inuit, opportunamente aizzata, è partita in quarta contro la Chiesa. Soldi, vogliamo.

Ora, com’è ‘sta storia canadese? Uguale a quella australiana e a tutti quei Paesi che un tempo dipendevano anche politicamente da Sua Maestà Britannica. L’attore e regista Kenneth Branagh nel 2001 ci ha fatto addirittura un film, La generazione rubata. Nei primi decenni del Novecento il pensiero politicamente corretto di allora diceva che i tribali andavano civilizzati per il loro bene. Così, i bambini venivano prelevati e cresciuti, educati, istruiti, vestiti all’inglese. Ciò avrebbe portato beneficio a loro e agli altri. Insomma, era iniziativa di Stato. Ma detto Stato, di cultura protestante, non era attrezzato per una cosa così vasta. Così, gli aborigeni australiani venivano portati in Inghilterra per essere adottati da famiglie inglesi. In Canada, mezzo francese, c’era però la Chiesa cattolica, che per sua natura era già organizzata all’uopo con educandati ed orfanotrofi. Perciò il governo canadese chiese ad essa di farsene carico. Da qui i bambini eschimesi e indiani allevati dalle suore.

Ricordiamoci però dell’epoca: non c’erano antibiotici e la tubercolosi era tra i problemi più diffusi. I più gracili morivano. Anche perché molti arrivavano già denutriti se non malati grazie all’«indianitudine». Ora Bergoglio sta cercando di pelare questa nuova gatta che il new politically correct ha messo in scena. Buona fortuna, perché ne ha bisogno. Ah, chi non è d’accordo con questa mia ricostruzione (che non è solo mia, visto che molti storici canadesi si sono attivati) ricordi che in ogni buon processo è istruttivo ascoltare anche l’altra versione.

A proposito del “mea culpa” di Papa Francesco in Canada
di Roberto de Mattei
Corrispondenza Romana, 27 luglio 2022


La Chiesa cattolica, fedele al mandato del suo divino Maestro: «Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc. 16, 15), ha svolto, fin dalla sua fondazione una grande opera missionaria, attraverso la quale ha portato al mondo non solo la fede, ma la civiltà, santificando luoghi, popoli, istituzioni e costumi. Grazie a quest’opera, la Chiesa ha civilizzato anche i popoli delle due Americhe, immersi nel paganesimo e nelle barbarie.

In Canada, la prima missione gesuita tra i pellirosse irochesi, diretta dal padre Charles Lallemant (1587-1674), sbarcò a Quebec nel 1625. Una nuova missione arrivò nel 1632, guidata dal padre Paul Le Jeune (1591-1664). Il padre Giovanni de Brébeuf (1593-1649), ritornò nel 1633 con due padri. Di capanna in capanna, cominciarono ad insegnare il catechismo a fanciulli e ad adulti. Ma alcuni stregoni convinsero gli Indiani che la presenza dei padri causava la siccità, le epidemie e ogni altra disgrazia. I gesuiti decisero allora di proteggere i catecumeni isolandoli in villaggi cristiani. Il primo fu edificato a 4 miglia da Québec. Ebbe il suo fortino, la sua cappella, le sue case, l’ospedale, la residenza dei Padri.

Contemporaneamente alcuni volontari si offrivano per convertire gl’Indiani: santa Maria dell’Incarnazione Guyart Martin (1599-1672), un’orsolina di Tours, che aveva fondato con altre due religiose un pensionato a Québec per l’istruzione dei fanciulli indiani; la signora Marie-Madeleine de la Peltrie (1603-1671), una vedova francese, che aveva creato con alcune suore ospedaliere di Dieppe un ospedale, sempre a Québec; i membri della Società di Nostra Signora che, aiutati dal sacerdote sulpiziano Jean-Jacques Olier (1608-1657) e dalla Compagnia del Santissimo Sacramento, costruirono nel 1642 Ville Marie, dalla quale sarebbe nata Montreal.

Gli Indiani Irochesi però si mostrarono irriducibilmente ostili. Essi avevano orribilmente mutilato il padre Isacco Jogues (1607-1646) e il suo coadiutore René Goupil (1608-1642) versando loro addosso carboni ardenti. Nel marzo 1649, gli Irochesi martirizzarono i padri de Brébeuf e Gabriele Lallemant (1610-1649). Il padre Brébeuf fu trafitto con aste arroventate e gli Irochesi gli strapparono brandelli di carne, divorandola sotto i suoi occhi. Poiché il martire continuava a lodare Dio, gli strapparono le labbra e la lingua e gli ficcarono in gola tizzoni ardenti. Il padre Lallemant fu torturato subito dopo con ferocia ancora maggiore. Poi un selvaggio gli fracassò la testa con la scure e gli strappò il cuore, bevendone il sangue, per assimilarne la forza e il coraggio. Un’altra ondata d’odio fece, nel mese di dicembre, due nuovi martiri, i padri Charles Garnier (1605-1649) e Noël Chabanel (1613-1649). Gli otto missionari gesuiti, conosciuti come “martiri canadesi” furono proclamati beati da papa Benedetto XV nel 1925 e canonizzati da papa Pio XI nel 1930.

Questi episodi fanno parte della memoria storica del Canada e non possono essere dimenticati. Papa Francesco, come gesuita dovrebbe conoscere questa epopea, narrata, tra gli altri, dal suo confratello padre Celestino Testore, nel libro I santi martiri canadesi, apparso nel 1941, e ripubblicato in Italia dall’editore Chirico nel 2007.

Ma soprattutto il Santo Padre avrebbe dovuto trattare con maggior prudenza il “caso” della presunta scoperta di fosse comuni nelle cosiddette ‘Indian residential schools’ del Canada, una rete di collegi per gli indigeni canadesi fondate dal governo e affidate prevalentemente alla Chiesa cattolica, ma anche in parte alla chiesa anglicana del Canada (30%), con l’idea di integrare i giovani nella cultura del paese, secondo il  Gradual Civilization Act,  approvato dal Parlamento canadese  nel 1857. Negli ultimi decenni però la Chiesa cattolica fu accusata di aver partecipato a un piano di sterminio culturale dei popoli aborigeni, i cui giovani venivano sequestrati alle famiglie, indottrinati e talvolta sottoposti ad abusi, per essere “assimilati” dalla cultura dominante, Nel mese di giugno 2008 il governò canadese, su posizioni “indigeniste”, fece le sue scuse ufficiali agli indigeni e istituì una Commission de vérité et réconciliation (CVR), per le scuole residenziali indiane.

I ricercatori della Commissione, malgrado i 71 milioni di dollari ricevuti, hanno lavorato sette anni, senza trovare il tempo di consultare gli archivi degli Oblati di Maria Immacolata, l’ordine religioso che, alla fine dell’Ottocento, iniziò a gestire le Residential Schools. Basandosi, invece, proprio su questi archivi, lo storico Henri Goulet, nella sua Histoire des pensionnats indiens catholiques au Québec. Le rôle déterminant des pères oblats (Presses de l’Université de Montréal, 2016) ha dimostrato che gli Oblati erano gli unici difensori della lingua e del modo di vita tradizionale degli Indiani del Canada, a differenza del governo e della chiesa anglicana, che insistevano per una integrazione che sradicava gli indigeni dalle loro origini. Questa linea storiografica trova conferma nelle opere di uno dei maggiori studiosi internazionali della storia religiosa del Canada, il prof. Luca Codignola Bo, dell’Università di Genova.

Dall’accusa di “genocidio culturale” si è intanto passati a quella di “genocidio fisico”. Nel maggio 2021, la giovane antropologa Sarah Beaulieu, dopo aver analizzato con un georadar il terreno vicino all’ex scuola residenziale di Kamloops, ha lanciato l’ipotesi dell’esistenza di una fossa comune, pur senza aver fatto nemmeno uno scavo. Le affermazioni dell’antropologa, divulgate sui grandi media e avallate dal premier Justin Trudeau,si sono trasformate in narrative diverse, alcune delle quali affermano che «centinaia di bambini» sarebbero «stati uccisi» e «sepolti segretamente» in «fosse comuni» o in tumuli irregolari nei terreni di «scuole cattoliche» di «tutto il Canada».

Questa notizia è semplicemente priva di qualsiasi fondamento, visto che non sono mai stati riesumati dei cadaveri, come già ha documentato Vik van Brantegem il 22 febbraio 2022 sul suo blog Korazym.org. Il 1° aprile 2022, sul blog Uccr è apparsa un’accurata intervista allo storico Jacques Rouillard, professore emerito della Facoltà di Storia dell’Università di Montreal, che smentisce categoricamente il genocidio culturale e quello fisico degli indigeni canadesi, negando l’esistenza di fosse comuni nelle scuole residenziali. Egli è convinto che, dietro a tutto, ci sia solo un tentativo di risarcimento milionario. Lo scorso 11 gennaio lo stesso prof. Rouillard ha pubblicato sul portale canadese Dorchester Review un ampio articolo in cui afferma che nessun corpo di bambino è stato trovato nelle presunte fosse comuni, in sepolture clandestine o in qualsiasi altra forma di sepoltura irregolare nella scuola di Kamloops. Dietro i collegi ci sono solo semplici cimiteri, in cui venivano sepolti gli studenti delle scuole, ma anche i membri della comunità locale e gli stessi missionari. In base ai documenti presentati da Rouillard, 51 bambini sono morti in quell’internato tra il 1915 e il 1964. Nel caso di 35 di loro sono stati trovati documenti che provano la causa della morte, soprattutto malattie e in alcuni casi incidenti. Un nuovo articolo del professor Tom Flanagan e del magistrato Brian Gesbrecht, pubblicato il 1 marzo 2022 sul Dorchester Review con il titolo The False Narrative of the Residental Schools Burials, ribadisce come non c’è traccia di un solo studente ucciso nei 113 anni di storia delle scuole residenziali cattoliche. Secondo gli stessi  dati forniti dalla Commission de vérité et réconciliation (CVR) il tasso di mortalità nei giovani che frequentavano le scuole residenziali era in media di circa 4 decessi all’anno ogni 1.000 giovani e la causa principale era dovuta a tubercolosi ed influenza.  Sembra che finalmente si siano autorizzati gli scavi a Kamloops, ma, come afferma il prof. Rouillard, sarebbe stato meglio si fossero svolti lo scorso autunno, così da conoscere la verità ed impedire a papa Francesco di venire a scusarsi sulla base di ipotesi non provate. Queste le parole dell’accademico canadese: «È incredibile che una ricerca preliminare su una presunta fossa comune in un frutteto abbia potuto portare a una tale spirale di affermazioni avallate dal governo canadese e riprese dai media di tutto il mondo. Non si tratta di un conflitto tra storia e storia orale aborigena, ma tra quest’ultima e il buon senso. Sono necessarie prove concrete prima che le accuse contro gli Oblati e le Suore di Sant’Anna possano essere scritte nella storia. Le esumazioni non sono ancora iniziate e non sono stati trovati resti. Un crimine commesso richiede prove verificabili, soprattutto se gli accusati sono morti da tempo. È quindi importante che gli scavi avvengano al più presto, affinché la verità prevalga sulla fantasia e sull’emozione. Sulla strada della riconciliazione, il modo migliore non è forse quello di cercare e raccontare tutta la verità piuttosto che creare miti sensazionali?».

Papa Francesco in Canada: “La fede è sempre trasmessa in lingua materna”
Si chiude la seconda giornata del pellegrinaggio penitenziale del Papa in Canada con un incontro con le popolazioni indigene al Lac St. Anne. Il Papa esalta il lavoro dei missionari, chiede di privilegiare la verità all’istituzione
di Andrea Gagliarducci
ACI Stampa, 27 luglio 2022

Il Papa arriva fino alla riva del lago e benedice alla maniera indigena, toccando i punti cardinali. Ed è la chiusura di una due giorni in cui le celebrazioni e gli incontri sono stati pervasi da una simbologia dei nativi americani, dalla croce che si dipana a forma di teepee (la tenda dei nativi americani) nella parrocchia del Sacro Cuore al concetto dell’albero delineato da Papa Francesco nell’incontro di ieri alla parrocchia del Sacro Cuore, per arrivare dunque all’acqua. Questa è segno di purificazione e guarigione, spiega Papa Francesco. Che però aggiunge: questa purificazione e guarigione possono avvenire solo guardando alla Croce di Gesù, solo partendo da quella rivoluzione dell’amore nata con Cristo.

Il secondo giorno in Canada si è chiuso, così, con una richiesta di purificazione, ma anche con l’esaltazione del ruolo delle nonne, nel giorno di Sant’Anna. A Sant’Anna, i nativi americani, specialmente quelli delle First Nations, sono molto devoti. E al pellegrinaggio verso il lago, organizzato dagli Oblati sin dal 1889, partecipano da sempre anche membri delle Prime Nazioni, che già consideravano il lago santo ben prima che fosse ribattezzato dal missionario Thibaut Lac St. Anne.

Così, a fianco e con le tradizioni indigene, la cura della natura, il segno dell’acqua, l’amore per la creazione, gli Oblati hanno creato una opera di evangelizzazione, fatta di gesti, di segni, di vicinanza, e anche dei miracoli che sono cominciati a proliferare nel lago, mentre la devozione di Sant’Anna, la nonna di Gesù, si diffondeva anche nelle comunità indigene, da sempre legate alle kokum, alle nonne.

Papa Francesco la definisce “inculturazione materna” che “ è avvenuta per opera di sant’Anna, unendo la bellezza delle tradizioni indigene e della fede, e plasmandole con la saggezza di una nonna, che è mamma due volte”.

Per il Papa, “anche la Chiesa è donna, è madre”, e infatti “non c’è mai stato un momento nella sua storia in cui la fede non fosse trasmessa in lingua materna, dalle madri e dalle nonne”.

Anzi, Papa Francesco ritiene che “parte dell’eredità dolorosa che stiamo affrontando nasce dall’aver impedito alle nonne indigene di trasmettere la fede nella loro lingua e nella loro cultura”, una perdita che “è una tragedia”, ma che oggi può essere superata, perché “Ora tutti noi, come Chiesa, abbiamo bisogno di guarigione: di essere risanati dalla tentazione di chiuderci in noi stessi, di scegliere la difesa dell’istituzione anziché la ricerca della verità, di preferire il potere mondano al servizio evangelico”.

È il tema del viaggio, è la lettura che il Papa dà a quello che è successo nelle scuole residenziali. Anche se poi la responsabilità dei cattolici è molto attenuata, se si pensa al grande lavoro pastorale che trova espressione proprio a Lac St. Anne.

Un lago, come il lago di Galilea, nota Papa Francesco, dove ha luogo molta della predicazione di Gesù, e che si può definire “un condensato di differenze”, perché “sulle sue rive si incontravano pescatori e pubblicani, centurioni e schiavi, farisei e poveri, uomini e donne delle più variegate provenienze ed estrazioni sociali”.

Quel lago era un “meticciato di diversità”, e divenne “sede di un inaudito annuncio di fraternità”, ovvero di “una rivoluzione senza morti e feriti, quella dell’amore”.

Papa Francesco invita ad immaginarsi “al lago con Gesù, mentre Lui si avvicina, si china e con pazienza, compassione e tenerezza, guarisce tanti malati nel corpo e nello spirito”, una guarigione di cui noi stessi abbiamo bisogno.

“Signore – è la preghiera di Papa Francesco – come la gente sulle sponde del mare di Galilea non aveva paura di gridarti i suoi bisogni, così noi stasera veniamo a te, con il dolore che abbiamo dentro. Ti portiamo le nostre aridità e le nostre fatiche, i traumi delle violenze subite dai nostri fratelli e sorelle indigeni”.

Continua la preghiera: “In questo luogo benedetto, dove regnano l’armonia e la pace, ti presentiamo le disarmonie delle nostre storie, i terribili effetti della colonizzazione, il dolore incancellabile di tante famiglie, nonni e bambini. Aiutaci a guarire le nostre ferite. Sappiamo che ciò richiede impegno, cura e fatti concreti da parte nostra; ma sappiamo pure che da soli non ce la possiamo fare. Ci affidiamo a Te e all’intercessione della tua madre e della tua nonna”.

C’è anche una Madonna di Guadalupe nel santuario, e Papa Francesco non può non pensare anche alla Madre delle Americhe, la quale “durante il dramma della conquista” fu quella che trasmise “la retta fede agli indigeni, parlando la loro lingua e vestendo i loro abiti, senza violenze e senza imposizioni. E poco dopo, con l’arrivo della stampa, vennero pubblicate le prime grammatiche e i primi catechismi in lingue indigene”.

Esclama Papa Francesco: “Quanto bene hanno fatto in questo senso i missionari autenticamente evangelizzatori per preservare in tante parti del mondo le lingue e le culture autoctone!”

Secondo Papa Francesco, per risanare la vita delle comunità “non possiamo che partire dai poveri, dai più emarginati”, perché “troppo spesso ci si lascia guidare dagli interessi di pochi che stanno bene”, ma invece “occorre guardare di più alle periferie e porsi in ascolto del grido degli ultimi; saper ascoltare il dolore di quanti, spesso in silenzio, nelle nostre città affollate e spersonalizzate, gridano: ‘Non lasciateci soli!’”.

Lo chiedono gli “anziani che rischiano di morire da soli in casa o abbandonati presso una struttura, o di malati scomodi ai quali, al posto dell’affetto, viene somministrata la morte”, ma anche “ragazzi e ragazze più interrogati che ascoltati, i quali delegano la loro libertà a un telefonino, mentre nelle stesse strade altri loro coetanei vagano persi, anestetizzati da qualche divertimento, in preda a dipendenze che li rendono tristi e insofferenti, incapaci di credere in loro stessi, di amare quello che sono e la bellezza della vita che hanno”.

Insomma, dice il Papa “Non lasciateci soli è il grido di chi vorrebbe un mondo migliore, ma non sa da dove iniziare”. Ma “nelle nostre solitudini e insofferenze Gesù ci spinge a uscire, a dare, ad amare. E allora, mi chiedo: che cosa faccio io per chi ha bisogno di me? Guardando alle popolazioni indigene, pensando alle loro storie e al dolore che hanno subito, che cosa faccio per loro le popolazioni indigene? Ascolto con un po’ di curiosità mondana e mi scandalizzo per quanto accaduto in passato, oppure faccio qualcosa di concreto per loro?”

Papa Francesco sottolinea che a volte serve accompagnare le persone, più che dare subito loro quello che vogliono, perché “è in questo modo che, attraverso il bene che potrà fare agli altri, scoprirà i suoi fiumi di acqua viva, scoprirà il tesoro unico e prezioso che è”.

Papa Francesco conclude esprimendo il desiderio che la Chiesa sia “intrecciata” agli indigeni, come “stretti e uniti sono i fili delle fasce colorate che tanti di voi indossano”. E prega che “il Signore ci aiuti ad andare avanti nel processo di guarigione, verso un avvenire sempre più risanato e rinnovato”.

Per quando la richiesta di perdono dei discendenti degli Indiani Irochesi, che martirizzarono in modo orribile tra il 1642 e il 1649 gli otto missionari gesuiti, conosciuti come “martiri canadesi”?

Foto di copertina: Papa Francesco capo indiano (Foto AFP).

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