Stato di eccezione e guerra civile

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Riportiamo un intervento tenuto tempo fa dal filosofo Giorgio Agamben alla Commissione DuPre (Dubbio e Precauzione), costituita dal giurista Ugo Mattei, i filosofi Massimo Cacciari e Giorgio Agamben, e il massmediologo Carlo Freccero, perché «è un dovere difendere lo Stato costituzionale» [QUI]).

In un libro pubblicato qualche anno fa, Stasis. La guerra civile come paradigma politico, ho cercato di mostrare che nella Grecia classica la possibilità – sottolineo il termine “possibilità” – della guerra civile funzionava come una soglia di politicizzazione fra l’oikos [1] e la polis [2], senza la quale la vita politica sarebbe stata inconcepibile. Senza la stasis [3], il levarsi in piedi dei cittadini nella forma estrema del dissenso, la polis non è più tale. Questo nesso costitutivo fra stasis e politica era così inaggirabile che anche nel pensatore che sembrava aver fondato la sua concezione della politica sull’esclusione della guerra civile, cioè Hobbes, questa resta invece fino all’ultimo virtualmente possibile.

L’ipotesi che vorrei proporre è allora che se siamo giunti alla situazione di assoluta depoliticizzazione in cui ora ci troviamo, ciò è appunto perché la stessa possibilità della stasis è stata negli ultimi decenni progressivamente e integralmente esclusa dalla riflessione politica, anche attraverso la sua surrettizia identificazione col terrorismo. Una società in cui la possibilità della guerra civile, cioè della forma estrema del dissenso, è esclusa è una società che non può che scivolare nel totalitarismo. Chiamo totalitario un pensiero che non contempla la possibilità di confrontarsi con la forma estrema del dissenso, un pensiero, cioè, che ammette solo la possibilità del consenso. E non è un caso che è proprio attraverso la costituzione del consenso come unico criterio della politica che le democrazie, come la storia insegna, sono cadute nel totalitarismo.

Come spesso avviene, ciò che si è rimosso dalla coscienza riemerge in forme patologiche e quello che sta oggi accadendo intorno a noi è che l’oblio e la disattenzione nei confronti della stasis vanno di pari passo, come Roman Schnur aveva osservato in uno dei pochi studi seri sulla questione, col progredire di una sorta di guerra civile mondiale. Non si tratta soltanto del fatto, pure da non trascurare, che le guerre, come giuristi e politologi avevano già notato da tempo, non sono più formalmente dichiarate e, trasformate in operazioni di polizia, acquisiscono i caratteri che si era soliti assegnare alle guerre civili. Decisivo oggi è che la guerra civile, facendo sistema con lo stato di eccezione, si trasforma come questo in uno strumento di governo.

Se si analizzano i decreti e i dispositivi messi in atto dai governi negli ultimi due anni appare con chiarezza che essi sono rivolti a dividere gli uomini in due gruppi contrapposti, fra i quali si stabilisce una sorta di ineliminabile conflitto. Contagiati e sani, vaccinati e non vaccinati, muniti di greenpass e privi di greenpass, integrati nella vita sociale o esclusi da essa: in ogni caso, l’unità fra i cittadini, come succede in una guerra civile, è venuta meno. Quel che è avvenuto sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgessimo è, cioè, che le due forme-limite del diritto e della politica sono state utilizzate senza scrupoli come forme normali di governo. E mentre nella Grecia classica, la stasis, in quanto segnava un’interruzione della vita politica, non poteva per nessun ragione essere occultata e trasformata in norma, essa diventa oggi, come lo stato di eccezione, il paradigma per eccellenza del governo degli uomini.

Giorgio Agamben

[1] Oikos: significa famiglia o casa. Un oikos era l’unità di base della società, nella maggior parte della città-stato greche, e comprendeva il capo dell’oikos (di solito il maschio più anziano), la sua famiglia (moglie e figli), e gli schiavi che vivevano insieme in un ambiente domestico. I grandi oîkoi avevano anche delle aziende agricole, di solito condotte dagli schiavi, che erano anche l’unità agricola di base dell’antica economia.
[2] Polis: indica la città-stato dell’antica Grecia, ma anche il modello politico tipico in quel periodo in Grecia.
[3] Stasis: nella terminologia politica degli antichi Greci, discordia tra fazioni di una polis.

Giorgio Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico (Bollati Boringhieri 2019, 114 pagine) [QUI]
Stasis è il nome della guerra civile nella Grecia antica. Un concetto così inquietante o impresentabile per la filosofia e la politica posteriore da non essere fatto oggetto di una dottrina adeguata, neppure da parte dei teorici della rivoluzione. Eppure, sostiene Giorgio Agamben fornendo qui i primi elementi di una necessaria «stasiologia», la guerra civile costituisce la fondamentale soglia di politicizzazione dell’Occidente, un dispositivo che nel corso della storia ha permesso alternativamente di depoliticizzare la cittadinanza e mobilitare l’impolitico, e che vediamo oggi precipitare nella figura del terrore su scala planetaria. Al suo paradigma concorrono insieme due poli antitetici dei quali Agamben mette allo scoperto la segreta solidarietà, quello classico secondo cui la guerra civile è coessenziale alla polis, al punto che chi non vi prende parte è privato dei diritti politici, e quello moderno rappresentato dal Levithan di Hobbes, che ne decreta l’interdizione, ma introduce una scissione – e con questa la possibilità di una guerra civile – all’interno stesso del concetto di popolo. Nel Novecento, è Carl Schmitt a rimettere in onore lo stato di natura così temuto da Hobbes, e a identificare proprio nella pericolosità dell’uomo naturale l’unico contenuto della condizione civile: politica e guerra si presupporrebbero a vicenda. Una visione tragica che esclude ogni altro criterio definitorio del politico, e si contrappone radicalmente a quella «teologia del ludico» che, con Johan Huizinga, ascrive la guerra al dominio del gioco, nell’ipotesi che in origine la funzione agonale, ritualizzata o iniziatica, non mirasse all’annientamento degli avversari, ma fosse addirittura un mezzo per stringere relazioni; insomma, un «gioco serio», poi sequestrato dallo Stato e piegato ad altri fini, mentre il nemico assumeva i tratti dell’inumano da passare per le armi.

Foto di copertina: Andrea Mantegna, I trionfi di Cesare in Gallia – Terza tela, Carro con trofei e portatori di bottino, 1486/circa 1505, tempera a colla, 268×278 cm, Palazzo del bagno di Hampton Court, Londra.

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