La Santa Sede ha venduto il palazzo 60SA a Londra, al centro di un controverso processo in Vaticano. Ecco cosa sappiamo fino ad ora

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Il Palazzo al numero 60 di Sloane Avenue a Londra, il cui acquisto è al centro dell’ultimo processo vaticano, è stato venduto. L’annuncio è arrivato il 1° luglio, con uno scarno comunicato dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica [QUI], cui nel frattempo è stata trasferita l’amministrazione della Segreteria di Stato [QUI]. Il prezzo di vendita è stato di 186 milioni, e, a fronte dell’investimento iniziale di 200 milioni e la svalutazione dovuta anche alla Brexit, è una cifra che rappresenta un guadagno, più che una perdita. Insomma, non un cattivo investimento, ma piuttosto un investimento gestito male.

Nonostante le perdite, il palazzo ha comunque guadagnato, e le perdite sono state contenute. C’erano 16 offerte, a testimonianza della bontà dell’investimento. E viene da chiedersi perché alla fine, invece di terminare il progetto, si sia deciso di vendere. Per guadagnare davvero, bisognava mettere a reddito.
Tanto più che non è un momento propizio per vendere, e la Santa Sede non si sogna nemmeno di vendere le altre proprietà che ha a Londra.
Il punto è: se vale la pena vendere, perché la Santa Sede non vende gli altri immobili che possiede a Londra? È una domanda che resta aperta, mentre prosegue il processo in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato.

Della vendita del palazzo ne aveva parlato già a fine gennaio padre Antonio Guerrero Alves, Prefetto della Segreteria per l’Economia, quando presentò la previsione del cosiddetto “bilancio di missione” della Santa Sede nella ormai consueta intervista istituzionale a Vatican News, resa senza una conferenza stampa e una dialettica con i giornalisti [QUI].

Guerrero aveva detto: “Sono stati assunti un broker a Londra e uno studio legale, entrambi con una gara ristretta, così come una persona di fiducia a Londra per accompagnare il processo e rappresentare i nostri interessi”, che hanno lavorato con un team della Santa Sede e aiuti professionali esterne. Quindi, “sono state ricevute sedici offerte, quattro sono state selezionate, dopo una seconda tornata di offerte, è stata scelta la migliore. Il contratto di vendita è stato firmato, abbiamo ricevuto il 10% del deposito e tutto sarà concluso nel giugno 2022”.

Non solo. Guerrero aveva anche affermato che “la perdita della presunta truffa, di cui si è parlato molto e che ora è sottoposta al giudizio dei tribunali vaticani, era già stata presa in considerazione nel bilancio. L’edificio è stato venduto al di sopra della valutazione che avevamo in bilancio e della valutazione fatta dagli istituti specializzati”.

Le sue parole trovano conferma nel comunicato dell’APSA. Il Palazzo è stato venduto a Bain Capital, le eventuali perdite sono state a carico delle riserve della Segreteria di Stato, senza – viene specificato – “che in nessun modo in questa circostanza sia toccato l’Obolo di San Pietro, e con esso le donazioni dei fedeli”.

L’APSA ha anche spiegato che “per garantire la trasparenza e l’indipendenza del processo di valutazione, la Santa Sede si è avvalsa dell’assistenza del Broker immobiliare Savills, selezionato al termine di una procedura di gara avviata nel gennaio 2021 sotto la vigilanza di advisor immobiliari”.

Il palazzo ha avuto 16 offerte a settembre 2021, e la rosa è stata poi ristretta a 3 offerte, tutte soggette a due diligence (adeguata verifica), e poi si è scelto il compratore e si è fatta una compravendita.

Un chiarimento. L’equivoco che fossero stati usati soldi dell’Obolo di San Pietro deriva dal fatto che le risorse della Segreteria di Stato sono in un conto, il conto Obolo, che deriva il suo nome da quando la Segreteria era responsabile della raccolta dei fedeli e della loro distribuzione in progetti, e che poi ha mantenuto il nome nonostante l’obolo [l’Obolo di San Pietro] non fosse più lì.

A questo punto, però, ci sono anche alcune domande da farsi. La prima domanda: l’investimento nel palazzo di Londra era davvero un cattivo investimento?

Le cronache e una certa narrativa mainstream dicono che la Santa Sede avesse investito nel Palazzo 300 milioni di sterline, e che dunque avrebbe perso un centinaio di milioni. Ma il calcolo appare viziato da un difetto di forma, che si può correggere utilizzando quello che viene fuori dagli interrogatori del processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato [QUI].

Prima di tutto, l’investimento era di 200 milioni di euro, dati al fondo Athena di Raffaele Mincione per l’acquisizione delle quote del Palazzo (non dell’immobile), ma anche per altri investimenti.

Mincione in interrogatorio ha detto che “il gestore non deve dare conto degli investimenti svolti, ma solo sui profitti”. Non può dunque destare scalpore che parte di questi fondi vengano destinati anche ad operazioni di acquisizione della Banca Popolare di Milano o di CARIGE, con tutto quel che ne è conseguito. Era parte delle possibilità date a Mincione.

Il contratto con Mincione è per una gestione di cinque anni più due in caso di eventuale disruption, ovvero di evento inaspettato. Avviene la Brexit, che è un chiaro evento inaspettato, ma monsignor Alberto Perlasca, allora a capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, non è contento dei risultati e vuole cambiare gestione, cosa che alla fine effettivamente fa, prendendo come consulente un altro broker, Gianluigi Torzi.

E così, si rompe un contratto che sarebbe dovuto durare altri due anni, con relativa transazione economica, e si mette tutto nelle mani di Torzi. È questa prima transazione economica a far lievitare il prezzo dell’investimento. La circostanza però non c’entrava né c’entra con l’investimento iniziale, e per questo è fuorviante arrivare a contare l’investimento in 300 milioni di sterline. La transazione è un collaterale.

Torzi terrà poi 1000 azioni, le sole con diritto di voto, prendendo il controllo totale del palazzo. Ed è a quel punto che l’arcivescovo Edgar Pena Parra, nel frattempo diventato sostituto della Segreteria di Stato, prende l’affare in mano, trasferisce Perlasca, tratta per acquisire l’intera proprietà, e non solo le quote, del Palazzo di Londra, con l’obiettivo di terminare il progetto di cambiare destinazione d’uso del palazzo, farne un palazzo residenziale e affittarne gli appartamenti.

Da qui, la richiesta per un prestito allo IOR, che sarebbe stato restituito con interesse, e, dopo l’incredibile rifiuto dello IOR arrivato tre giorni dopo aver accettato la richiesta, la ricerca di un altro finanziamento e il tentativo di rinegoziare quello che la Santa Sede si è trovata in pancia acquisendo il palazzo.

Torzi viene liquidato con 15 milioni, e anche questo fa lievitare i costi dell’affare, come pure le provvigioni da dare alle varie consulenze che si sono succedute, il che fa lievitare la cifra di altri 100 milioni. Si arriva così ai 300 milioni di investimento. In realtà, sono 300 milioni soprattutto si è deciso di uscire prima dai contratti stipulati con due diversi broker, con tutte le conseguenze legali e finanziarie del caso.

Nonostante le perdite, il palazzo ha comunque guadagnato, e le perdite sono state contenute. C’erano 16 offerte, a testimonianza della bontà dell’investimento. E viene da chiedersi perché alla fine, invece di terminare il progetto, si sia deciso di vendere. Per guadagnare davvero, bisognava mettere a reddito.

Tanto più che non è un momento propizio per vendere, e la Santa Sede non si sogna nemmeno di vendere le altre proprietà che ha a Londra. Investimenti fatti in tempi non sospetti, con i soldi della Conciliazione e una società, la Grolux Investments, collegata alla società svizzera Profima, che era gestita dal Vaticano.

Non è un mistero, tanto che il Guardian ne fece una storia nel 2013, alla vigilia della rinuncia di Benedetto XVI, notando come gli immobili a Londra erano stati comprati con i soldi di Mussolini [QUI].

Ma il punto è: se vale la pena vendere, perché la Santa Sede non vende gli altri immobili che possiede a Londra? È una domanda che resta aperta, mentre prosegue il processo in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato.

Insomma, non un cattivo investimento,
ma piuttosto un investimento gestito male.

Questo articolo è stato pubblicato il 2 luglio 2022 da ACI Stampa [QUI].

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