Matthias Canapini: raccontare l’umanità dei confini

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Una serata con il fotoreporter e scrittore Matthias Canapini a Tolentino, in provincia di Macerata, organizzata dall’associazione ‘Hub62029’ (associazione di giovani sorta dopo il sisma del 2016 con l’obiettivo di spronare i giovani alla creatività), supportata dalla libreria ‘Bottega del Libro’, per farsi raccontare i suo libri, i viaggi e le sue narrazioni. Un personaggio fuori dagli schemi, perché Matthias Canapini, fanese del 1992, è un rugbista con la passione per i viaggi e i reportage; supportato da Ong nazionali e internazionali ha attraversato i Balcani, la Turchia, il Caucaso, l’Est Europa, la Siria ed i Monti Sibillini colpiti dal sisma.

Al termine di una serata riscaldata da un racconto appassionante sulle persone che vivono alle ‘frontiere’, gli abbiamo chiesto di raccontarci l’origine dei suoi viaggi: “Io viaggio per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Ho iniziato nel 2012, subito dopo il diploma delle scuole superiori, raccontando il tema delle mine antiuomo nelle campagne di Sarajevo per cercare di capire cosa accadeva a distanza di 20 anni dalla fine del conflitto.

Circostanze e scelta del percorso mi hanno condotto a viaggiare nei Balcani, nel Caucaso, nell’Europa dell’Est, in Turchia, in Siria, nei Paesi africani, seguendo ogni volta un progetto diverso e fotografando volti in aree di conflitto, nelle frontiere e nelle migrazioni; ma anche nei luoghi colpiti dal sisma, come in Pakistan e nell’Italia centrale, nella disabilità o nello sport per raccontare storie, che travalicano i numeri”.

Hai viaggiato anche nel deserto sahariano: per quale motivo hai raccontato le persone disabili nel Saharawi?

“E’ stato un po’ il destino, perché mi sono avvicinato alla disabilità attraverso un progetto sorto nel mondo rugbystico, perché lo sport della palla ovale è inclusivo e propedeutico per le persone con disabilità. Questo progetto mi ha fatto conoscere ‘Rio de Oro’, una piccola onlus che opera a Grottammare nell’ascolano e nel deserto del Sahara, per dare sostegno al popolo del Saharawi nel deserto algerino con un focus particolare sulla disabilità, seguendo i bambini con disabilità all’interno dei campi profughi, cercando di sostenerli nel loro luogo, ma anche portarli in Italia per offrire loro un po’ di sollievo con i campi estivi dalla vita dei campi profughi”.

Quindi sei rugbista: allora ci puoi spiegare per quale motivo il rugby è stato definito uno sport sociale: “Il rugby ha valori molto forti: contatto con la terra od avanzare passando indietro la palla. Il rugby è famoso, perché ognuno ha un ruolo preciso nel campo ed ha una responsabilità. Il rugby ha precisi concetti di base, che aiutano a riscoprirti parte di tutto, senza lasciare nessuno indietro. Il rugby accende i riflettori, dentro e fuori dal campo, su persone senza voce. Il rugby dà dignità e nome a persone, che spesso non vengono raccontate”.

Alcuni anni fa sei stato nel Donbass: cosa ti ha portato lì a raccontare quella guerra che allora era ‘sommersa’?

“Venivo dal conflitto in Siria e qualche anno prima ero stato in Bosnia. Ho sentito che in piazza Maidan a Kiev iniziavano le proteste ed ho sentito l’esigenza di raccontare la guerra, che era vicino alle nostre ‘porte di casa’, nel cuore dell’Europa. A quell’epoca, 8 anni fa, quel conflitto non faceva notizia, però mieteva un alto numero di morti e di sfollati dal Donbass.

Nel 2014 ho focalizzato i reportage nella regione di Kiev, incontrando gli sfollati dal Donbass per entrare poi nelle regioni di Mariupol e di Donetsk nel 2015. L’intento è sempre quello di raccontare con immagini quello che avviene. Dopo anni è terrificante vedere che a distanza di anni si è realizzato tutto; anzi il conflitto si è allargato e sta assumendo tratti molto più vasti”.

E per un fotografo cosa sono i confini?

“La macchina fotografica è un prolungamento dell’occhio sul mondo. Quando alleni l’occhio a cambiare le prospettive ed abolisci i confini significa fonderti con l’umanità. Significa vedere te stesso negli occhi dell’altro e la fotografia è un filtro che racconta, ma contemporaneamente ti mette alla prova, perché unisce la frontiera interiore. Rompe il confine che abbiamo dentro e ti scopri fratello dell’intervistato; quindi compagno di una persona che fino a poco prima era un estraneo. Raccontare e fotografare ti fa sentire parte del mondo: una pedina nella società”. 

Cosa rappresenta per te il viaggio?

“I miei fratelli e io siamo stati educati al viaggio dai nostri genitori, che già da piccolissimi ci caricavano in macchina per andare a scoprire il Nord-Europa. Influenzato da alcune letture, successivamente ho deciso di partire per raccogliere testimonianze dai margini del mondo, incontrando sfollati, profughi di guerra, disabili, migranti, malati mentali, senzatetto, cittadini impegnati a difendere la propria terra.

Il viaggio per me è la necessità di raccontare storie, di stringere mani, di entrare in microcosmi invisibili e tentare molto umilmente di ridare una voce a chi non ce l’ha. La mia voglia di andare oltre i confini (anche interiori) mi ha portato sui campi minati della Bosnia e della Cambogia, in Siria tra le persone in fuga da Aleppo, e nei canali sotterranei di Bucarest che ospitano i reduci dalla dittatura di Ceaușescu.

Ho visitato anche i campi-container negli altopiani della Georgia (costruiti per gli sfollati interni del Sud Ossezia), ed il Vietnam, dove l’Agente Arancio sparato negli anni ‘60/’70 ha procura ancora gravi deformazioni, fisiche e mentali, a migliaia di bambini. Sono circa 4.800.000 i vietnamiti affetti da cancro bellico che, dopo decenni, non smette di ammazzare persone innocenti”.

(Foto: Matthias Canapini)

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