Il permesso di odiare e l’obbligo di amare. La schizofrenia del momento presente. Un caso

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Come si punisce un calciatore reo di non voler sposare l’ideologia gender indossando una maglia arcobaleno? Una multa? Una sanzione penale? La gogna mediatica? Cento frustate? L’esclusione dalla prossima gara? La radiazione dall’album di figurine o dall’ultima versione di Fifa della EA sport?

La domanda non è del tutto peregrina perché in Francia l’opinione pubblica ha messo alla gogna il centrocampista della nazionale senegalese e del Paris Saint-Germain Idrissa Gana Gueye per aver disonorato la maglia arcobaleno e rinunciato alla partita contro il Montepellier per non specificati “motivi personali”.

Eppure il 17 maggio tutte le squadre francesi sono scese in campo coi colori arcobaleno in onore della “giornata mondiale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia”, ricorrenza stabilita dall’Unione Europea e dalle Nazioni unite.

Né il club né il giocatore hanno dato spiegazioni ma le associazioni LGBT (QI+ ecc.) non sembrano voler lasciar correre ed esigono spiegazioni e sanzioni immediate. I giornali parlano di “tensioni in Francia e in Senegal” (Corriere della Sera), di “bufera” (Corriere dello Sport), di “caso mediatico” e di “travolgenti polemiche”.

L’associazione per la lotta all’omofobia nello sport, “Rosso Diretto”, ha fatto sapere di attendere spiegazioni dal giocatore: “L’omofobia non è un’opinione ma un reato. Lfp (lega calcio) e Psg devono chiedere a Gana Gueye di spiegarsi e molto rapidamente. E punirlo se necessario”, scrive l’associazione. Punire uno per educarne cento.

Ma il vero caso mediatico, secondo il modesto avviso di chi scrive, non è che il giocatore abbia delle idee personali in merito a determinate questioni, ma che queste idee abbiano creato scandalo e un inutile polverone nei media, che ora segnalano lo sventurato giocatore come un sovversivo e un insensibile nei confronti di chi soffre discriminazioni di qualche genere.

Siamo alle solite. Da diversi anni ormai la questione delle giornate dedicate e delle iniziative contro le discriminazioni LGBT sono diventate un’imposizione in ogni ambito sociale, in modo particolare in quello educativo, sportivo ed artistico. Nessuno può rifiutarsi di aderire a queste iniziative senza rischiare di venir segnalato e sbattuto in prima pagina. Ecco dunque che film, serie TV, libri, sceneggiatura teatrali, sfilate di moda, catene di ristorazione e alimentari, concorsi canori (v. Il festival di Sanremo) ecc., si tingono dei colori arcobaleno quando la politica e le potenti associazioni in campo lo chiedono. Lo schema funziona facilmente nelle scuole (saldamente in mano alla politica) così come nello sport (saldamente in mano agli sponsor): giochi e campionati amatoriali e professionisti, interi club vengono utilizzati per trasmettere messaggi di tolleranza e fratellanza nei modi e nei tempi stabiliti dall’alto.

Chi si oppone è perduto! Ma quali motivazioni possono spingere una persona a rifiutare di mettere la propria firma su tali iniziative che promuovono la libertà (omo)sessuale, mettendo a rischio la propria buona fama, il proprio stipendio e la propria carriera?

Innanzitutto ci sono motivazioni di natura religiosa. E questo, benché faccia rizzare i capelli a molti, è pacifico. Basti ricordare che le due religioni più diffuse al mondo rifiutano categoricamente le relazioni omosessuali considerandole immorali. Così è per l’Islam (che punisce severamente i rei di sodomia anche con la pena capitale) e così è per il cristianesimo, che considera l’omosessualità un peccato contro natura. Così è, piaccia o no, fino a prova contraria (non fino a insinuazioni, sussurri, conferenze, pratiche dei sacri palazzi o note a piè di pagina contrarie).

Non conosco (e non mi interessa conoscere) la fede personale di Idrissa Gueye e se il suo gran rifiuto è motivato da questa. Ma siccome la questione merita approfondimento, cerco, trovo e leggo che è musulmano e dunque non approva (come invece fanno senza problemi di coscienza tanti suoi colleghi correligionari – ma anche sedicenti cristiani – che preferiscono mammona al loro dio) tali iniziative ideologiche. Tanto di cappello per il coraggio della fede vissuta nel concreto e non sbattuta in prima pagina sulla rivista patinata del momento. Ma, detto en passant, i giornali troveranno il coraggio di riconoscere che vita e che fine fanno gli omosessuali nei paesi della “religione di pace” più belligerante del globo?

Ma se si trattasse solo di motivazioni personali, maturate razionalmente, per coerenza o per prudenza, potremmo biasimarlo? Al di la delle sacrosante credenze religiose qualunque uomo (ateo o credente che sia) potrebbe, appellandosi alla sua ragione (che è in dotazione in ogni modello umano), rifiutare tali iniziative e catalogarle come inutili e inconcludenti iniziative pubblicitarie motivate da, pur appetibili, solleciti economici e politici.

Cosa se ne fanno i ragazzi gay discriminati nel loro quotidiano di una sfilata di calciatori che indossano calzettoni colorati? Cosa se ne fa la ragazza lesbica discriminata a scuola dei laccetti color arcobaleno sul microfono di un cantante? “Creare consapevolezza e risvegliare alle coscienze”, mi diranno. Bene. Se questo dovesse funzionare, sarà una società migliore quando tutti saranno liberi di esprimere liberamente i loro più bizzarri appetiti sessuali con l’appoggio e l’applauso di genitori e maestri, di preti ed imam? Forse. Spesso mi domando se i signori organizzatori di tali eventi abbiano realmente a cuore i ragazzi discriminati o puntino semplicemente (!) a plasmare una nuova società politicamente corretta e i suoi nuovi membri politicamente corretti. La misericordia e l’amore verso i discriminati è un’altra cosa.

E se, per folle ipotesi, si trattasse solamente di un’ingenerosa avversione personale a qualche categoria di persone? È ancora lecito detestare qualcuno? È permesso odiare qualcuno? Potremmo pur sempre consigliare un buon padre spirituale, un bravo analista o un corso di meditazione zen a chi – come il protagonista della serie After Life – vive abbrutito dai suoi cattivi sentimenti nei confronti dell’altro. Ma possiamo obbligare qualcuno ad amare tutti? Chi ha comandato di uniformare il linguaggio, i gesti e i pensieri, creare quello che Philippe Muray chiamava l’Empire du bien, ricco di buoni sentimenti e di like e di cuori (la capitale la chiamava “Cordalia”)?

Per fortuna ci hanno già insegnato come esprimerci e come comportarci. Ora, dopo averci detto come dobbiamo parlare e agire, devono insegnarci anche come pensare. Dovremmo solo ringraziare.

A questo spesso servono le minoranze. Col mantra della diversità non ci è più consentito odiare nessuno. Che dico, non ci è più consentito parlare male, di giudicare, di pensar male di nessuno. O meglio, di qualcuno! Già, perché mentre dobbiamo amare neri (che non possiamo chiamare negri), i rom (che non possiamo chiamare zingari), gli omosessuali (che non possiamo chiamare gay), gli immigrati irregolari (che non possiamo chiamare clandestini) e gli ebrei (li possiamo chiamare ebrei? O meglio, li possiamo menzionare?), possiamo liberamente odiare il vicino di casa, la signora di sotto, quella delle pulizie (dipende dall’etnia? E se fosse filippina?), il politico di destra, i nazisti (quelli tedeschi!), i “suprematisti bianchi”, gli eterosessuali, i russi, i meridionali, il figlio inaspettato e indesiderato in grembo, i cristiani, il prete, la suora, il papa regnante, meglio ancora quello emerito, la moglie (dopo qualche anno), il professore, il maestro, i genitori e… i novax. E possiamo criticare e sbeffeggiare il ritardato, il ciccione, il pelato, il magro, il floscio, il brutto e la brutta, la prostituta e il drogato. Anzi, in alcuni casi odiare è d’obbligo e perdonare un atto vile: chi perdona un tradimento? Chi perdona un omicidio? Chi perdona un’ingiustizia? Quel cretino di un cristiano, avrebbero detto gli antichi…

In questo convulso contesto sociale, in questo travaglio per la nascita del nuovo uomo johnleniano che, privo di ogni rifornimento normativo, ama ciò che deve amare e odia ciò che deve odiare, chi resta libero di pensare “altrimenti”, utilizzando la propria ragione e appoggiandosi anche – perché no signor Lennon? – sulla propria fede rischia di diventare una “caso”, una mosca bianca o una pecora nera. Senza offesa né per i bianchi né per i neri.

Questo articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2022 dall’autore sul suo blog Testa del Serpente [QUI].

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