Don Bruno Bignami: nel lavoro la vera ricchezza è la persona

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Secondo i dati forniti dall’Inail nel primo bimestre dell’anno sono state 121.994 (+47,6% rispetto allo stesso periodo del 2021) le denunce di infortunio arrivate all’Istituto, 114 delle quali con esito mortale (+9,6%) e sono in aumento pure le patologie di origine professionale denunciate, che sono state 8.080 (+3,6%), precisando che il fenomeno infortunistico risulta in salita del 26,4%, rispetto al periodo gennaio-febbraio 2020.

Davanti a tali dati, nello scorso gennaio papa Francesco, ricevendo in udienza l’associazione nazionale dei costruttori edili, aveva sottolineato che nel lavoro la persona è una ricchezza: “La vera ricchezza sono le persone: senza di esse non c’è comunità di lavoro, non c’è impresa, non c’è economia. La sicurezza dei luoghi di lavoro significa custodia delle risorse umane, che hanno valore inestimabile agli occhi di Dio e anche agli occhi del vero imprenditore”.

Partendo da tale presupposto i vescovi italiani, in occasione della festa dei lavoratori, hanno scritto un messaggio (‘La vera ricchezza sono le persone. Dal dramma delle morti sul lavoro alla cultura della cura’), in cui hanno sottolineato che il lavoro non può essere causa di morte:

“Il nostro primo pensiero va, in particolare, a chi ha perso la vita nel compimento di una professione che costituiva il suo impegno quotidiano, l’espressione della sua dignità e della sua creatività, e anche alle famiglie che non hanno visto far ritorno a casa chi, con il proprio lavoro, le sosteneva amorevolmente. Così come non possono essere dimenticati tutti coloro che sono rimasti all’improvviso disoccupati e, schiacciati da un peso insopportabile, sono arrivati al punto di togliersi la vita”.

Al direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali ed il lavoro della Cei, don Bruno Bignami, chiediamo di spiegare in quale modo il lavoro può diventare una cultura della cura: “Nell’enciclica ‘Laudato sì’ troviamo riflessioni bellissime sul lavoro: a essere rigorosi non si può pensarlo se non come capacità di prendersi cura. Del resto, il mandato biblico all’uomo è di ‘coltivare e custodire’ (Gen 2,15). Ciò significa che l’attività umana è in connessione con il progetto creativo di Dio.

Inoltre, qualsiasi lavoro presuppone un’idea di relazione. Lo vediamo nell’esperienza quotidiana. Quando un’azienda licenzia per rispondere unicamente al profitto degli investitori significa che ritiene il lavoro secondario rispetto al senso dell’impresa. Come suggerisce il n^ 128 della ‘Laudato Sì’, la diminuzione del lavoro corrisponde a una erosione del ‘capitale sociale’, perché fa venir meno gli elementi basilari di fiducia, di affidabilità, di rispetto del diritto, di valorizzazione delle competenze.

E’ un tradimento della cultura della cura! Al contrario, ogni volta che si salvaguarda il lavoro e si colloca al centro la persona, siamo in presenza di creativa costruzione del mondo futuro.

Non si dimentichi che nella tradizione cristiana il monachesimo aveva saputo dare nuovo impulso alla cultura del lavoro, associandolo alla vita interiore. La bonifica di territori paludosi ha portato benefici non solo alla vita dell’uomo, ma anche alla cultura del lavoro, che vedeva la manualità come degradante la dignità umana. In realtà, niente ci avvicina di più all’abilità creatrice di Dio della capacità di ‘fare’ e creare all’interno di un disegno di cura”.

Come le persone possono diventare una ricchezza?

“La Chiesa ha coniato uno slogan che parafrasa una citazione del Vangelo: il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro. Vuol dire che la persona è la misura per valutare la bontà dell’esperienza lavorativa. Sono sotto i nostri occhi crescenti forme di precariato e di disoccupazione, oltre a condizioni disumane di lavoro quali lo sfruttamento, le discriminazioni, il caporalato, la negazione dei diritti.

Il dramma culturale è che assistiamo a nuove forme di schiavitù e siamo tentati ogni volta di voltarci dall’altra parte. Lontani dagli occhi, lontani dal cuore! Come denuncia papa Francesco, è venuto meno il senso della vergogna. Ci siamo assuefatti a tutto. Non ci scandalizza più nulla.

Andiamo in ricerca delle promozioni sottocosto da mettere nel carrello della spesa, fingendo di non sapere che spesso, nella grande distribuzione, dietro a prezzi convenienti ci sono vite calpestate. Dovremmo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà e agire di conseguenza. Dove il lavoro non è riconosciuto, dove la dignità della persona è offesa, lì dobbiamo rispondere con la denuncia e il rifiuto.

Ognuno di noi è nelle condizioni di scegliere quando si reca al supermercato. In quel momento rafforziamo un modello economico oppure lo contestiamo: non è la stessa cosa comprare un prodotto o un altro. E’ il tempo della consapevolezza e della responsabilità quotidiana. Solo così si può promuovere la centralità della persona, caposaldo della dottrina sociale della Chiesa”.

In quale modo prevenire le morti nel lavoro?

“Il messaggio dei Vescovi in occasione del 1° maggio mette il dito nella piaga delle morti sul lavoro. L’aumento di casi nel periodo della pandemia, proprio nel momento in cui lo smart working sembrava poter mettere al sicuro molti lavoratori dai pericoli del traffico e dalla presenza nei luoghi di lavoro, sembra inconcepibile.

Eppure, è successo! Tutto ciò deve far riflettere. La crescente precarizzazione ha aumentato i rischi per il lavoratore e lo ha esposto a minore sicurezza. Per prevenire queste drammatiche situazioni occorre intervenire su più fronti. In primo luogo, bisogna rivedere il principio delle esternalizzazioni delle mansioni più rischiose, affidato spesso a cooperative di servizi che pagano poco e non garantiscono la minima sicurezza.

Prassi di questo tipo evidenziano che i controlli da parte delle autorità competenti si sono allentati. In secondo luogo, è necessario un cambio di cultura. Gli investimenti sulla sicurezza nei luoghi di lavoro non vanno visti come una perdita di profitto, ma come la garanzia di poter custodire la risorsa più preziosa: il capitale umano.

Si tratta di scelte che sembrano andare controcorrente rispetto alle logiche imperanti. Infine, è necessario pensare a una formazione continua dei lavoratori sul tema della sicurezza e a programmi scolastici che inseriscano in curriculum questa attenzione. La prevenzione è fondamentale, se non vogliamo ridurci a contare i morti e a piangere sul latte versato. Cosa aspettiamo?”

Nello scorso gennaio il papa aveva richiamato gli imprenditori ad un nuovo ‘umanesimo del lavoro’: è possibile?

“Certamente sì, ma a una condizione: non ci si illuda che il solo avanzamento della tecnica e del digitale sia la panacea di tutti i mali. Occorre anche altro! Le possibilità inaugurate dall’intelligenza artificiale sono preziose, ma alla base serve un supporto etico.

Il lavoro è impegno di vita e vocazione e un nuovo umanesimo parte dalla centralità delle relazioni. Fare impresa o lavorare custodendo il senso della propria dignità non sono mai da presupporre. Anzi, sono frutto di formazione. Ha ragione il filosofo Silvano Petrosino a distinguere tra lavoro e professione. Le due realtà non sono sovrapponibili”.

Cosa significa valorizzare il ruolo della donna nel mondo del lavoro?

“Il tema della donna nella società odierna è quanto mai complesso. Normalmente, a parità di situazione lavorativa, la donna ha una retribuzione più bassa rispetto all’uomo: fatica di più a entrare e rimanere nel mondo del lavoro dovendo spesso scegliere tra carriera e famiglia.

La pandemia ha penalizzato le donne costringendole insieme sia a compiti educativi (DAD compresa) sia a lavorare in smart working. Insomma, la condizione femminile sembra penalizzante. La nostra non è una società per donne. A ciò si aggiunga che talvolta (come ricorda il Messaggio dei vescovi) esse sono ‘ostaggi di un sistema che disincentiva la maternità e punisce la gravidanza col licenziamento’.

Anche qui viene alla luce un problema culturale. Non basta l’invocazione delle quote rosa, che spesso cozzano contro le oggettive competenze sul campo e rischiano di essere umilianti.

Per usare uno slogan, dovremmo passare ‘dalle quote rosa a rose in quota’, ossia dovremmo dare maggiore spazio alla cultura della cura di cui le donne sono portatrici sane. Lo vediamo anche nelle immagini belliche: gli uomini combattono e le donne accudiscono i bambini e gli anziani.

Senza una pervasività della cura tra le persone, non ci sarà alcuna vera innovazione sociale. Per raggiungere questo traguardo bisogna imparare dalle donne!”

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