La salus animarum dei fedeli affidati ai Vescovi, custodi del gregge

Condividi su...

Riportiamo di seguito l’importante intervista di Diane Montagna in merito al Motu proprio Traditionis custodes di Papa Francesco al canonista statunitense Padre Gerald Murray per The Remnant [QUI], nella traduzione italiana dall’inglese (autorizzata e rivista dall’autrice) a cura di Messa in Latino [QUI]. Padre Murray «analizza dettagliatamente le questioni canoniche (e le contraddizioni) sollevate da Traditionis custodes e dai Responsa ad dubia, specialmente riguardo alla responsabilità dei vescovi in relazione alla salus animarum dei fedeli loro affidati» (MiL).

Indice degli articoli sul sciagurato Motu proprio Traditionis custodes di Papa Francesco [QUI].

Custodire il gregge: il suggerimento di un canonista ai vescovi sull’ultimo colpo vaticano alla Tradizione
di Diane Montagna
The Remnant, 15 febbraio 2022

(traduzione italiana dall’inglese rivista e autorizzata a cura di Messa in Latino)

Il canonista newyorkese padre Gerald Murray ha affermato che il recente documento vaticano sull’applicazione di Traditionis Custodes va al di là di ciò che è canonicamente possibile nel limitare la celebrazione della maggior parte dei sacramenti secondo la liturgia tradizionale, e che i vescovi sono liberi di rifiutarne le disposizioni disciplinari se le giudicano sfavorevoli al loro gregge.

In un’intervista con The Remnant, padre Murray affronta dettagliatamente le questioni canoniche che circondano i Responsa ad dubia emessi il 18 dicembre 2021 dall’arcivescovo Arthur Roche, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, e approvati un mese prima da Papa Francesco.

Sebbene egli sostenga che i Responsa siano “un’istruzione avente forza di legge”, egli sostiene anche fermamente che un vescovo ha la possibilità di applicare o non applicare le sue istruzioni disciplinari per il “bene spirituale” del suo gregge.

Egli sostiene inoltre che un vescovo non ha bisogno di chiedere alla Congregazione per il Culto Divino una dispensa per permettere la celebrazione della Messa tradizionale in latino nelle chiese parrocchiali, e mette in dubbio la regolarità canonica del requisito presente nei Responsa secondo cui i vescovi devono chiedere l’autorizzazione della Congregazione per il Culto Divino per concedere il permesso a un sacerdote appena ordinato di offrire la Messa usando il Messale del 1962. Quest’ultimo, ha detto, rappresenta anche una “interferenza ingiustificata” nel ruolo del vescovo di moderare la vita liturgica nella sua diocesi.

Padre Murray, coautore (con chi scrive) del libro di prossima pubblicazione Calming the Storm: Navigating the Crises facing the Catholic Church and Society (Emmaus Road Publishing, 2022), discute anche dell’impatto dei Responsa sugli istituti Ecclesia Dei, dell’ “anomalia” legata ai sacerdoti della Fraternità Sacerdotale San Pio X che godono di autorizzazioni papali negate invece ai sacerdoti canonicamente regolari, e delle domande sull’intera legittimità di Traditionis Custodes.
I vescovi, ha detto, devono far rendere note le loro preoccupazioni su questo documento alla Santa Sede.

Di seguito l’intervista completa con P. Gerald Murray.

Diane Montagna (DM): Padre Murray, canonicamente parlando, che tipo di documento sono i Responsa ad dubia (per esempio: un’istruzione, una legge, un decreto o un atto amministrativo)? In quanto tali, qual è la loro forza giuridica? Sono soggetti al diritto della Chiesa?
P. Murray (FM): La Costituzione Apostolica Pastor Bonus regola l’attività delle varie Congregazioni della Curia Romana. L’articolo 15 afferma che “Le questioni vanno trattate in base al diritto… ma sempre in fore e con criteri pastorali, con l’attenzione rivolta sia alla giustizia e al bene della Chiesa, sia soprattutto alla salvezza delle anime”. L’articolo 18 afferma che: “Devono essere sottoposte all’approvazione del sommo Pontefice le decisioni di maggiore importanza…”. Inoltre, afferma che le congregazioni “non possono emanare leggi o decreti generali aventi forza di legge, né derogare alle prescrizioni del diritto universale vigente, se non in singoli casi e con specifica approvazione del sommo Pontefice”.
Responsa ad dubia (Responsa), indirizzati ai Presidenti delle Conferenze Episcopali, non hanno la forma di una legge o di un decreto generale, ma sembrano rientrare piuttosto nella categoria di un’istruzione secondo il canone 34 del Codice di Diritto Canonico. Eppure, non è questo il titolo attribuito al documento dalla Congregazione per il Culto Divino. Le istruzioni “rendono chiare le disposizioni delle leggi [in questo caso Traditionis custodes] e sviluppano e determinano i procedimenti nell’eseguirle” e “sono date a uso di quelli il cui cómpito è curare che le leggi siano mandate ad esecuzione” (canone 34 §1).
Il prefetto della Congregazione per il Culto Divino, l’arcivescovo Arthur Roche, nella sua lettera di presentazione dei Responsa, afferma che la Congregazione per il Culto Divino ha ricevuto “diverse richieste di chiarimenti sulla sua corretta applicazione” di Traditionis Custodes. Egli ha evidentemente considerato che le risposte della Congregazione per il Culto Divino a queste richieste avrebbero costituito una “decisione di grande importanza” che necessitava dell’approvazione papale. Egli afferma che Papa Francesco è stato informato dei Responsa e che ha acconsentito alla loro pubblicazione. Ne concludo quindi che i Responsa sono un’istruzione avente forza di legge, che vincola i vescovi della Chiesa ad eseguire le disposizioni di Traditionis Custodes secondo quanto affermano i Responsa, sempre, naturalmente, in accordo con il diritto generale della Chiesa che mantiene la sua forza e ci guida nella corretta comprensione e applicazione dei Responsa.
Le varie determinazioni dei Responsa, che non sono né una legge né un decreto, sono “decisioni di grande importanza”, pubblicate su indicazione del Papa, e che quindi vincolano tutti i vescovi, non solo quelli che hanno presentato uno o più dubia. Concludo inoltre che l’“assenso” dato da Papa Francesco alla pubblicazione dei Responsa è l’equivalente legale di una “approvazione specifica” papale di una legge o di un decreto, dando così a questa istruzione la forza di legge. Pertanto, le disposizioni dei Responsa vincolano i vescovi e gli altri che hanno la responsabilità canonica a far sì che le leggi della Chiesa siano osservate, tenendo sempre presente la legge generale della Chiesa riguardo al potere del vescovo di dispensare in materia disciplinare, che mantiene la sua forza a meno che non sia specificamente esclusa dal Papa.

DM: Lei menziona l’assenso del Papa. Nella sua introduzione ai Responsa, l’arcivescovo Roche scrive che Papa Francesco, “nel corso di un’Udienza concessa al Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti in data 18 novembre 2021, è stato informato e ha dato il suo assenso alla pubblicazione dei presenti Responsa ad dubia con annesse Note esplicative”. Può dire di più su che tipo di approvazione si tratta, canonicamente parlando? E tale approvazione lo rende un atto del legislatore o del dicastero?
FM: L’“assenso” papale rende questo documento un atto del Papa, il legislatore supremo, rendendolo così non soggetto a ricorso canonico, il che significa che non si può presentare un reclamo canonico contro i Responsa alla Congregazione per il Culto Divino. Il canone 333 §3 afferma che: “Contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice non si dà appello né ricorso”. I Responsa non sono né una sentenza né un decreto, ma penso che rientrino nell’ambito di questo canone per un’analogia di diritto, nel senso che come istruzione specificamente approvata dal Papa, i Responsa godono della stessa immunità al ricorso canonico di un decreto.

DM: Su diversi punti, che esamineremo più in dettaglio in seguito, i Responsa sembra andare oltre o persino contraddire Traditionis Custodes. Lei ha detto che, secondo lei, questo documento sembra rientrare nella categoria di un’istruzione. Un tale documento può legittimamente andare oltre il documento che intende chiarire?
FM: Dato che i Responsa sono stati pubblicati con l’“assenso” papale, essi esprimono la mens e l’intenzione del Papa riguardo al significato e all’applicazione di Traditionis Custodes. È chiaro che varie disposizioni dei Responsa vanno oltre le disposizioni di Traditionis Custodes e regolano questioni non sollevate in Traditionis Custodes. Questo modo di rispondere ai dubbi sul significato di Traditionis Custodes, emettendo nuove disposizioni giuridiche vincolanti, andrebbe oltre la competenza della Congregazione per il Culto Divino, e quindi sarebbe soggetto a ricorso canonico, se il documento fosse stato pubblicato senza la “specifica approvazione” del Papa. L’“assenso” papale dato ai Responsa costituisce la necessaria “approvazione specifica” di queste nuove disposizioni, facendo di questo documento un atto legislativo papale. Questa istruzione che gode della specifica approvazione papale può stabilire nuove norme canoniche riguardanti le disposizioni di Traditionis Custodes perché tale approvazione la rende un atto del legislatore supremo che manifestamente intende che tali nuove norme godano di forza legale nella Chiesa. Ma in quanto istruzione, qualsiasi nuova norma può essere giuridicamente vincolante solo per le questioni specificamente trattate in Traditionis Custodes. Un’istruzione su un documento non può andare oltre ciò che il documento stesso stabilisce.

DM: Un’istruzione emessa dal prefetto di un dicastero vaticano può limitare o annullare le prerogative dei vescovi e dei sacerdoti stabilite dal Codice di diritto canonico o dal Concilio Vaticano II, ad esempio il potere di un vescovo di dispensare dalla legge (canone 87 §1)?
FM: Le disposizioni del canone 87 §1 che permettono al vescovo diocesano, per ragioni di “bene spirituale”, di dispensare “dalle leggi disciplinari sia universali sia particolari date dalla suprema autorità della Chiesa per il suo territorio o per i suoi sudditi”, rimangono in vigore, a meno che il Papa non riservi espressamente tale dispensa a se stesso o a qualche altra autorità. Nessuna di queste riserve è dichiarata in Traditionis Custodes o nei Responsa.

DM: I Responsa ad dubia sono stati pubblicati cinque mesi dopo Traditionis Custodes. In questo lasso di tempo, anche se alcuni vescovi hanno usato Traditionis Custodes per reprimere la liturgia tradizionale nelle loro diocesi, molti altri vescovi hanno risposto con una politica “attendista”. La reazione generale dei vescovi è in accordo con i rapporti che, rispondendo ad un sondaggio del 2020 della Congregazione per la Dottrina della Fede, si è detta in maggioranza favorevole al proseguimento dell’applicazione attenta e prudente di Summorum Pontificum. Per molti, i Responsa sembrano focalizzato a forzare i vescovi in un determinato senso riguardo alla Messa tradizionale. Qual è la sua opinione?
FM: I Responsa esprimono la volontà di affrettare ciò che Papa Francesco ha scritto nella sua Lettera che accompagna Traditionis Custodes, cioè che vuole che i vescovi collaborino con lui per eliminare nel tempo la celebrazione della Messa tradizionale. Li ha istruiti: “Spetta perciò a Voi autorizzare nelle vostre Chiese, in quanto Ordinari del luogo, l’uso del Messale Romano del 1962, applicando le norme del presente Motu proprio. Spetta soprattutto a Voi operare perché si torni a una forma celebrativa unitaria, verificando caso per caso la realtà dei gruppi che celebrano con questo Missale Romanum. Le indicazioni su come procedere nelle diocesi sono principalmente dettate da due principi: provvedere da una parte al bene di quanti si sono radicati nella forma celebrativa precedente e hanno bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II; interrompere dall’altra l’erezione di nuove parrocchie personali, legate più al desiderio e alla volontà di singoli presbiteri che al reale bisogno del ‘santo Popolo fedele di Dio’”. Papa Francesco ha concluso la sua Lettera con un altro appello a unificare tutti i cattolici di rito latino nella celebrazione della Messa Novus Ordo: “Per Voi invoco dal Signore Risorto lo Spirito, perché vi renda forti e fermi nel servizio al Popolo che il Signore vi ha affidato, perché per la vostra cura e vigilanza esprima la comunione anche nell’unità di un solo Rito, nel quale è custodita la grande ricchezza della tradizione liturgica romana”.

DM: Considerando la natura e la portata dei suoi doveri canonici, un vescovo può disattendere questo documento, soprattutto quando trova che esso va contro o è più restrittivo delle norme contenute in Traditionis Custodes?
FM: I vescovi non possono ignorare i Responsa in quanto sono tenuti ad obbedire al Sommo Pontefice quando emana norme canoniche per governare l’attività della Chiesa universale. Questa obbedienza si realizza secondo il Codice di Diritto Canonico e le altre leggi universali che regolano l’esercizio dell’autorità papale ed episcopale. Però, nella sua diocesi, un vescovo può avvalersi dei poteri dispensativi concessi dal canone 87 secondo quanto giudica appropriato. Una tale decisione non è una forma di disobbedienza a Traditionis Custodes o ai Responsa, bensì un esercizio pastoralmente giustificato della legittima autorità di un vescovo per il “bene spirituale” dei fedeli della sua diocesi.

DM: L’arcivescovo Roche giustifica molte delle sue risposte (per esempio: 1, 2, 5) invocando l’art. 7 di Traditionis Custodes, che afferma: “La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, per le materie di loro competenza, eserciteranno l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza di queste disposizioni”. Qual è il limite di questa autorità?

FM: Il canone 87 §1 concede ai vescovi diocesani il potere di dispensare dalle leggi disciplinari quando lo giudica opportuno per il “bene spirituale” del suo gregge. Il diritto generale della Chiesa concede questo potere, che può essere tolto solo dal Romano Pontefice quando egli “riserva in modo speciale” il potere di dispensare “alla Sede Apostolica o ad un’altra autorità”. Non lo ha fatto né in Traditionis Custodes né nei Responsa.

Risposta al quesito 1

DM: Guardiamo più da vicino le questioni canoniche nelle diverse risposte. La risposta al quesito 1 riguarda la disposizione di Traditionis Custodes che vieta la celebrazione della Messa del 1962 per “gruppi” nelle chiese parrocchiali. La Congregazione per il Culto Divino afferma che un vescovo può chiedere alla Congregazione una dispensa da questa disposizione. La concessione di tali dispense è davvero riservata alla Congregazione? E la Congregazione per il Culto Divino qui viola i canoni 87 e 18 del Codice di Diritto Canonico attribuendosi questa autorità?
FM: La prima domanda presentata nei Responsa è: “Laddove non vi sia la possibilità di individuare una chiesa od oratorio o cappella disponibile per accogliere i fedeli che celebrano con il Missale Romanum (editio typica 1962), il Vescovo diocesano può chiedere alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti la dispensa dalla disposizione del Motu Proprio Traditionis custodes (art. 3 § 2), e, quindi, permettere la celebrazione nella chiesa parrocchiale?”. La risposta è “Affermativamente”. Il vescovo diocesano ha già il potere di dispensare da questo divieto secondo il canone 87 §1. Non c’è bisogno di chiedere alla Congregazione per il Culto Divino ciò di cui egli già gode in virtù del diritto generale della Chiesa.
La risposta a questo primo quesito è seguita da una nota esplicativa che afferma:
“Questa Congregazione, esercitando, per la materia di sua competenza, l’autorità della Santa Sede (cf. Traditionis custodes, n. 7), può concedere, su richiesta del Vescovo diocesano, che venga utilizzata la chiesa parrocchiale per la celebrazione secondo il Missale Romanum del 1962 solo nel caso in cui sia accertata l’impossibilità di utilizzare un’altra chiesa, od oratorio o cappella. La valutazione di tale impossibilità deve essere fatta con scrupolosa attenzione”.
Questa disposizione non indica che una dispensa dalla proibizione di celebrare la Messa tradizionale nelle chiese parrocchiali contenuta nell’articolo 3§2 di Traditionis Custodes è riservata in modo speciale alla Sede Apostolica e quindi non può essere concessa dal vescovo diocesano (canone 87 §1). Pertanto, il vescovo non è obbligato a chiedere tale dispensa alla Congregazione per il Culto Divino.

DM: La Congregazione chiede inoltre che le celebrazioni della Santa Messa con il Messale del 1962 non siano pubblicizzate nei bollettini parrocchiali, una disposizione che chiaramente va oltre Traditionis Custodes. La Congregazione per il Culto Divino sta oltrepassando la propria autorità nel tentativo di controllare i bollettini parrocchiali?
FM: Questa disposizione è incredibile. Il linguaggio, però, non è quello di una severa proibizione. La versione in lingua italiana dei Responsa, che si presume essere il testo standard da cui è stata creata la versione in lingua inglese, afferma: “non è opportuno che venga inserita nell’orario”. Questo linguaggio non è una severa proibizione, piuttosto un giudizio della Congregazione per il Culto Divino su ciò che ritiene appropriato circa l’inserimento nel bollettino parrocchiale. Si può essere in disaccordo con questo giudizio per una buona ragione, quale per esempio il fatto che un bollettino parrocchiale, per sua natura, ha lo scopo di informare i parrocchiani e le altre persone interessate su tutte le attività che si svolgono regolarmente nella parrocchia.

DM: L’arcivescovo Roche ha detto pubblicamente che la promozione della Messa tradizionale è un problema. In una recente intervista con Catholic News Service, ha detto: “Dal questionario che il Santo Padre ha fatto diffondere mediante la Congregazione per la Dottrina della Fede era emerso che non si trattava semplicemente di prendersi cura di coloro che trovavano difficile [andare avanti con la Messa Novus Ordo], ma effettivamente di promuovere la liturgia che esisteva prima del Concilio”. Data la dichiarazione di Sacrosanctum Concilium 4 per cui “considera come uguali in diritto e in dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti [e] vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati”, come è possibile che la promozione e la conservazione del Rito Romano classico siano un problema da risolvere?
FM: Prendersi cura del bene spirituale dei fedeli, permettendo a coloro che traggono ispirazione e forza nella Messa tradizionale di rendere culto in questa forma straordinaria del Rito Romano è stata proprio la ragione per cui Papa Benedetto ha emanato il Summorum Pontificum. Tale cura pastorale si estende a tutti coloro che desiderano rendere culto in questo modo, e Papa Benedetto non ha mai inteso che ci fosse una data limite, tale che chiunque sia nato dopo l’entrata in uso del Novus Ordo fosse ineleggibile a partecipare alla Messa tradizionale. Ciò che è buono in sé e per sé, compresa una forma immemorabile di culto cattolico, dovrebbe essere promosso dalla Chiesa. Qualsiasi implicazione per cui i cattolici che non sono cresciuti frequentando la Messa tradizionale prima del Vaticano II non dovrebbero frequentarla è pastoralmente insensibile e ignora il fatto che molti cattolici più giovani hanno frequentato pacificamente la Messa tradizionale da quando Papa Giovanni Paolo II ne ha liberalizzato la celebrazione 33 anni fa nel 1988.

Risposta al quesito 2

DM: La risposta della Congregazione per il Culto Divino al secondo quesito limita l’uso del Rituale Romano e proibisce l’uso del Pontificale Romano. Così facendo, va oltre Traditionis Custodes. I vescovi hanno quindi il diritto di disattenderlo, ricorrendo al canone 18 o 87? Ed è ultra vires questa limitazione dei poteri del vescovo?
FM: Traditionis Custodes non menziona il Rituale Romano, il Pontificale Romano, né tantomeno il Breviario Romano (il cui uso non è trattato nei Responsa) in uso nel 1962. Traditionis Custodes menziona semplicemente l’edizione del 1962 del Messale Romano. L’articolo 8 di Traditionis Custodes afferma che: “Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio, sono abrogate”. Io sosterrei che, poiché Traditionis Custodes non dispone nulla che ritiri il permesso presente nell’articolo 9 §1 di Summorum Pontificum per la celebrazione dei sacramenti del Battesimo, della Cresima, della Penitenza, del Matrimonio, e dell’Unzione degli infermi, quel permesso è ancora canonicamente in vigore dopo la promulgazione di Traditionis Custodes. Allo stesso modo, Traditionis Custodes non ha abrogato l’articolo 9 §3 di Summorum Pontificum che afferma: “Ai chierici costituiti in sacris è lecito usare il Breviario Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962”.
Traditionis Custodes non ha abrogato Summorum Pontificum nel suo complesso, ma solo quelle disposizioni di Summorum Pontificum che “non sono conformi alle disposizioni” di Traditionis Custodes. Le nuove restrizioni sull’uso del Rituale Romano, e la proibizione del Pontificale Romano, presenti nei Responsa non si trovano nel testo di Traditionis Custodes, e contraddicono le disposizioni non abrogate dell’articolo 9 di Summorum Pontificum. Ciò che Traditionis Custodes non menziona, evidentemente non è regolato da Traditionis Custodes. I Responsa offrono istruzioni autorevoli su disposizioni che non si riscontrano nel documento che dovrebbe esplicitare, e così facendo va oltre ciò che è canonicamente possibile.
Pertanto, c’è un fondato dubbio sulla forza canonica di cui godrebbero queste disposizioni. Sosterrei, in ogni caso, che le disposizioni non abrogate di Summorum Pontificum 9 rimangono in vigore come un Motu Proprio papale prevale su un’istruzione quali i Responsa della Congregazione per il Culto Divino, pur munito di approvazione papale. È interessante notare che Summorum Pontificum non concede il permesso per l’amministrazione del sacramento dell’Ordine secondo il Pontificale Romano in uso nel 1962. Le comunità Ecclesia Dei, tuttavia, godono dell’uso dell’antico Pontificale Romano secondo le loro costituzioni approvate dal Papa, che mantengono la loro forza e non sono in alcun modo modificate da Traditionis Custodes o dai Responsa.

DM: Nella risposta al quesito 2, l’Arcivescovo Roche dice che il vescovo diocesano non è autorizzato a concedere il permesso di usare il Pontificale Romano (che contiene sacramenti normalmente conferiti da un vescovo, come l’ordinazione e la cresima), ma non dice che non può usarlo lui stesso. Può farlo?
FM: Questa è una domanda interessante. Il canone 17 afferma che: “Le leggi ecclesiastiche sono da intendersi secondo il significato proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto”. I Responsa affermano che dopo il discernimento “il Vescovo diocesano è autorizzato a concedere la licenza di usare solo il Rituale Romanum (ultima editio typica 1952) e non il Pontificale Romanum precedente alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II”.
Prendendo queste parole rigorosamente alla lettera, il vescovo diocesano non è autorizzato dai Responsa a concedere il permesso a un altro vescovo di amministrare la Cresima nella sua diocesi usando il Pontificale Romano più antico, ma non dice che egli stesso non sia autorizzato ad usarlo. È scritto male, perché avrebbe dovuto specificare che né il vescovo diocesano né qualsiasi altro vescovo sono autorizzati a usare il Pontificale Romano. Credo che questo sia l’intento dei Responsa. Quindi, il contesto dei Responsa indica che nessun vescovo è autorizzato a usare il Pontificale Romano. Ma io sostengo sopra che Traditionis Custodes non ha abrogato le disposizioni di Summorum Pontificum 9 che permettono l’uso del Pontificale Romano per l’amministrazione del sacramento della Cresima. Noto anche che c’è un’eccezione riguardante l’uso del Pontificale Romano per il conferimento degli Ordini Sacri che avrebbe dovuto essere notata nei Responsa, cioè che i vescovi sono autorizzati a conferire il sacramento degli Ordini Sacri usando l’antico Pontificale Romano per conto delle comunità Ecclesia Dei che, in virtù delle loro costituzioni, godono dell’uso dei libri liturgici più antichi, incluso il Pontificale Romano.

DM: Nell’Anno della Misericordia, Papa Francesco ha concesso alla Fraternità San Pio X la facoltà di utilizzare sia il Rituale Romano che il Pontificale Romano. Questo non prova che questi libri e riti fanno effettivamente parte della lex orandi della Chiesa latina e non sono “abrogati”?
FM: In una lettera del 1° settembre 2015, Papa Francesco ha scritto:
“Un’ultima considerazione è rivolta a quei fedeli che per diversi motivi si sentono di frequentare le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità San Pio X. Questo Anno giubilare della Misericordia non esclude nessuno. Da diverse parti, alcuni confratelli Vescovi mi hanno riferito della loro buona fede e pratica sacramentale, unita però al disagio di vivere una condizione pastoralmente difficile. Confido che nel prossimo futuro si possano trovare le soluzioni per recuperare la piena comunione con i sacerdoti e i superiori della Fraternità. Nel frattempo, mosso dall’esigenza di corrispondere al bene di questi fedeli, per mia propria disposizione stabilisco che quanti durante l’Anno Santo della Misericordia si accosteranno per celebrare il Sacramento della Riconciliazione presso i sacerdoti della Fraternità San Pio X, riceveranno validamente e lecitamente l’assoluzione dei loro peccati”.
Un anno dopo ha esteso questa facoltà oltre l’Anno Santo nella sua lettera apostolica Misericordia et misera del 20 novembre 2016:
“Nell’Anno del Giubileo avevo concesso ai fedeli che per diversi motivi frequentano le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità San Pio X di ricevere validamente e lecitamente l’assoluzione sacramentale dei loro peccati. Per il bene pastorale di questi fedeli, e confidando nella buona volontà dei loro sacerdoti perché si possa recuperare, con l’aiuto di Dio, la piena comunione nella Chiesa Cattolica, stabilisco per mia propria decisione di estendere questa facoltà oltre il periodo giubilare, fino a nuove disposizioni in proposito, perché a nessuno venga mai a mancare il segno sacramentale della riconciliazione attraverso il perdono della Chiesa”.
Una Lettera della Pontificia Commissione Ecclesia Dei del 27 marzo 2017, approvata da Papa Francesco, e firmata dal cardinale Gerard Müller, riguardo alla celebrazione dei matrimoni da parte dei sacerdoti della Fraternità San Pio X, fondata dall’arcivescovo Marcel Lefebvre, afferma:
“Il Santo Padre, su proposta della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Commissione Ecclesia Dei, ha deciso di autorizzare i Rev.mi Ordinari del luogo perché possano concedere anche licenze per la celebrazione di matrimoni dei fedeli che seguono l’attività pastorale della Fraternità, secondo le modalità seguenti. Sempre che sia possibile, la delega dell’Ordinario per assistere al matrimonio verrà concessa ad un sacerdote della diocesi (o comunque ad un sacerdote pienamente regolare) perché accolga il consenso delle parti nel rito del Sacramento che, nella liturgia del Vetus ordo, avviene all’inizio della Santa Messa, seguendo poi la celebrazione della Santa Messa votiva da parte di un sacerdote della Fraternità. Laddove ciò non sia possibile, o non vi siano sacerdoti della diocesi che possano ricevere il consenso delle parti, l’Ordinario può concedere di attribuire direttamente le facoltà necessarie al sacerdote della Fraternità che celebrerà anche la Santa Messa, ammonendolo del dovere di far pervenire alla Curia diocesana quanto prima la documentazione della celebrazione del Sacramento”.
Queste autorizzazioni papali non sono state revocate da Traditionis Custodes né dai Responsa. Così abbiamo l’anomala situazione per cui i sacerdoti della Fraternità San Pio X, che si trovano in una situazione canonicamente irregolare, sono autorizzati da Papa Francesco a usare il Rituale Romano, mentre alla maggior parte dei sacerdoti canonicamente in regola è negata questa possibilità. I Responsa affermano che:
“Solo alle parrocchie personali canonicamente erette che, secondo quanto disposto dal Motu Proprio Traditionis custodes, celebrano con il Missale Romanum del 1962, il Vescovo diocesano è autorizzato a concedere la licenza di usare solo il Rituale Romanum (ultima editio typica 1952) e non il Pontificale Romanum precedente alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II”.
La lodevole generosità di Papa Francesco è negata ai sacerdoti che si sottomettono pienamente alla sua autorità, a meno che non facciano parte del piccolo numero assegnato a parrocchie personali dedicate alla celebrazione del Messa tradizionale. Queste autorizzazioni evidenziano ancora una volta che l’affermazione per cui solo i libri liturgici riformati costituiscono la lex orandi della Chiesa è smentita da questa autorizzazione papale a continuare ad usare i riti precedenti. Va notato che la Fraternità San Pio X non ha ricevuto da Papa Francesco l’autorizzazione ad usare il Pontificale Romano.

DM: Come lei accenna, abbiamo ora una situazione in cui l’uso da parte della Fraternità San Pio X di questi libri liturgici e riti è accettato e normalizzato, mentre il loro uso da parte dei sacerdoti diocesani è fortemente limitato. Questa realtà non rende forse contraddittori e insensati sia Traditionis Custodes che i Responsa? I vescovi non avrebbero il diritto di ignorarli, applicando il canone 14 che afferma la non obbligatorietà di una legge dubbia o contraddittoria, specialmente se quest’ultima è restrittiva?
FM: Questa anomalia di sacerdoti canonicamente irregolari che godono di autorizzazioni papali, negate invece a sacerdoti canonicamente in regola, mette in evidenza i problemi di Traditionis Custodes e dei Responsa. Il Papa è molto generoso nel prevedere la valida amministrazione del sacramento della penitenza e la valida ricezione dei voti matrimoniali da parte dei sacerdoti della Fraternità San Pio X. In Misericordia et misera, Papa Francesco afferma che di essere stato spinto ad autorizzare i sacerdoti della Fraternità San Pio X ad assolvere validamente nel sacramento della penitenza, pur rimanendo in uno stato canonicamente irregolare, “per il bene pastorale di questi fedeli, e confidando nella buona volontà dei loro sacerdoti perché si possa recuperare, con l’aiuto di Dio, la piena comunione nella Chiesa Cattolica…”. Così l’autorizzazione papale per i sacerdoti della Fraternità San Pio X, che usano solo i riti sacramentali presenti nel vecchio Rituale Romano, ad amministrare il sacramento della penitenza, porta con sé la speranza di promuovere il “recupero della piena comunione nella Chiesa Cattolica”. È probabile che la Fraternità San Pio X continuerà a cercare di essere pienamente riconciliata con la Chiesa, sapendo che questa autorizzazione papale non è più data alla maggior parte dei sacerdoti di Rito latino? Come può essere giusto che la disobbedienza sia, all’atto pratico, ricompensata con l’autorizzazione a usare i precedenti riti liturgici nella speranza di ristabilire la piena unità con la Chiesa, mentre ai sacerdoti che sono obbedienti al Papa è proibito usare quegli stessi riti affermando che tale uso promuoverebbe la disunione nella Chiesa?

DM: Nella sua nota esplicativa al quesito 2, l’arcivescovo Roche afferma: “Il Motu proprio Traditionis custodes vuole ristabilire in tutta la Chiesa di Rito Romano una sola e identica preghiera che esprima la sua unità, secondo i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II e in linea con la tradizione della Chiesa”. Lei nota che è altamente improbabile che la Fraternità San Pio X cerchi di riconciliarsi completamente con la Santa Sede a questo punto. Quali sono, secondo lei, le implicazioni per l’Ordinariato istituito da Benedetto XVI?
FM: L’unità della Chiesa non dipende da “una sola e identica preghiera”, bensì dalla comune professione della fede cattolica, dalla dovuta sottomissione ai pastori della Chiesa, e dalla ricezione dei sacramenti, che sono celebrati in una molteplicità di riti liturgici sia nelle Chiese cattoliche orientali che nel Rito latino (Rito ambrosiano, Rito proprio degli ex anglicani, Rito domenicano, ecc.) La continuità autorizzata dal Papa, pur se limitata, dell’uso della Messa tradizionale dimostra inoltre che l’unità della Chiesa non dipende in alcun modo da un’uniformità della pratica liturgica. Cercare di imporre l’uniformità liturgica nel Rito Latino comporterebbe logicamente la soppressione di tutti gli altri riti liturgici attualmente in uso nella Chiesa latina. Altrimenti, si potrebbe ragionevolmente concludere che l’obiettivo espresso in Traditionis Custodes e nei Responsa di un’uniformità della lex orandi del Rito latino significa, in realtà, la soppressione di una sola espressione diversa dai riti liturgici riformati. Quindi non si cercherebbe l’uniformità, ma la soppressione della sola Messa tradizionale.

Risposta al quesito 3

DM: La terza domanda dei Responsa è: “Nel caso in cui un presbitero al quale sia stato concesso l’uso del Missale Romanum del 1962 non riconosca la validità e la legittimità della concelebrazione – rifiutandosi di concelebrare, in particolare, nella Messa Crismale – può continuare ad usufruire di tale concessione?”. La risposta è “Negativamente”. Si tratta effettivamente di un tentativo di forzare la concelebrazione in violazione del canone 902?
FM: Questa domanda presume chiaramente che un sacerdote che sceglie di non concelebrare alla Messa Crismale o ad altre Messe, come è suo diritto, è sospettato di non riconoscere la validità e la legittimità della concelebrazione stessa. I Responsa affermano che: “L’esplicita volontà di non partecipare alla concelebrazione, in particolare nella Messa Crismale, sembra esprimere una mancanza sia di accoglienza della riforma liturgica sia di comunione ecclesiale con il Vescovo…”. Questo è un sospetto ingiustificato secondo il quale probabilmente il sacerdote che rifiuta la concelebrazione come valida e legittima, rifiuterebbe la riforma liturgica nel suo insieme, e mancherebbe inoltre di comunione ecclesiale con il vescovo. Tali conclusioni avventate sulle intenzioni dei sacerdoti che scelgono di non concelebrare la Messa mettono questi uomini nella posizione di essere sospettati colpevoli di gravi offese, per aver semplicemente esercitato il loro diritto canonico di celebrare la Messa individualmente.
Nessun sacerdote può essere canonicamente costretto a concelebrare la Messa, poiché il canone 902 afferma che “i sacerdoti possono concelebrare l’Eucaristia, rimanendo tuttavia intatta per i singoli la libertà di celebrarla in modo individuale”. Quindi, la decisione di non concelebrare la Messa è perfettamente lecita in sé, e non dovrebbe costituire la base per un sospetto per cui uno specifico sacerdote che sceglie di non concelebrare lo faccia perché “non riconosce la validità e la legittimità della concelebrazione”.
Solo la prova diretta che un sacerdote creda che la concelebrazione della Messa sia invalida e illegittima dovrebbe portare il suo superiore ecclesiastico a invitarlo a correggere questa erronea affermazione o ad affrontare le sanzioni canoniche. La concelebrazione rimane una libera scelta di ogni sacerdote, con la possibile eccezione della Messa celebrata alla sua ordinazione sacerdotale, dove il rituale prevede che il sacerdote appena ordinato concelebri la Messa con il vescovo ordinante dal momento immediatamente successivo alla sua ordinazione.

Risposta al quesito 5

DM: La quinta domanda dei Responsa è: “Il Vescovo diocesano per poter concedere ai presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del Motu Proprio Traditionis custodes di celebrare con il Missale Romanum del 1962 deve essere autorizzato dalla Sede Apostolica (cf. Traditionis custodes n. 4)?”. La risposta è “Affermativamente”.
L’arcivescovo Roche giustifica la sua risposta affermando che il testo latino, che egli dice essere “il testo ufficiale di riferimento”, usa la parola “licentiam”, che non è “un semplice parere consultivo, ma una necessaria autorizzazione data al Vescovo diocesano da parte della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, la quale esercita, per la materia di sua competenza, l’autorità della Santa Sede (cf. Traditionis custodes, n. 7)”. Tuttavia, quando la Santa Sede ha pubblicato Traditionis Custodes il 16 luglio 2021, il “testo originale” era quello italiano, non quello latino. Il bollettino quotidiano di quel giorno lo indica tuttora sul sito web del Vaticano.
Infatti, il testo latino non è apparso sul sito web del Vaticano fino a metà o fine novembre. Questa nuova versione latina, che richiede una “licentiam”, (una precedente consultazione vincolante) altera il testo originale italiano dell’art. 4 di Traditionis Custodes, che parlava solo di una consultazione preliminare obbligatoria ma non vincolante. La traduzione ufficiale inglese e le altre lingue seguono l’italiano. Se la versione latina non è la princeps, il responsum non viola il can. 18 e lo stesso Traditionis Custodes?
FM: Questo cambiamento trovato nella versione latina dei Responsa è stupefacente, dato che i Responsa sono stati emessi il 16 luglio 2021, in italiano, con traduzioni in inglese e tedesco pubblicate nella stessa data. Nell’originale italiano, il vescovo diocesano era tenuto a “consultare la Sede Apostolica” su qualsiasi richiesta di un sacerdote ordinato dopo il 16 luglio 2021, per essere autorizzato a celebrare la Messa tradizionale. Nei Responsa, si fa riferimento al testo latino di Traditionis Custodes, che è indicato come “il testo ufficiale a cui fare riferimento”. Come lei ha notato, il testo latino è apparso sul sito web del Vaticano nel novembre 2021, mesi dopo la pubblicazione del 16 luglio del testo italiano da cui sono state fatte traduzioni in altre lingue moderne. Il testo latino è chiaramente una traduzione in latino del testo italiano, ma contiene questo sostanziale cambiamento linguistico che è, di fatto, un cambiamento delle norme. La versione italiana del sito web del Vaticano, alla data dell’11 febbraio 2022, continua ad affermare che il vescovo diocesano “consulterà la Sede Apostolica” prima di concedere ai sacerdoti appena ordinati il permesso di celebrare la Messa tradizionale. Anche la versione inglese, a partire dalla stessa data, continua a usare la parola “consultare”.
Questa procedura del cambiamento di una disposizione canonica, dalla richiesta di una consultazione con la Sede Apostolica alla richiesta di un’autorizzazione da parte di essa, cambiando la formulazione trovata nel testo italiano precedentemente emesso (che la Santa Sede ha identificato come la fonte da cui sono state realizzate le traduzioni inglese e tedesca) nel testo latino pubblicato successivamente, ora designato come testo ufficiale, è un modo irregolare di modificare gli obblighi legali. La continua discrepanza tra le versioni online italiana, inglese e latina è notevole. L’imposizione di un nuovo obbligo ai vescovi diocesani attraverso l’emissione, quattro mesi dopo, di una versione in lingua latina di un motuproprio datato 16 luglio 2021, che è entrato in pieno vigore legale nello stesso giorno della sua pubblicazione, sarebbe dovuta avvenire con una notifica ben visibile di questo cambiamento ai vescovi del mondo, e avrebbe dovuto indicare chiaramente che questo cambiamento delle norme godeva della specifica approvazione papale.
La “Nota esplicativa” che accompagna questa nuova disposizione afferma: “Questa norma vuole offrire un aiuto al Vescovo diocesano nel valutare tale richiesta: il suo discernimento verrà tenuto in debita considerazione da parte della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti”.
È sconcertante per due motivi: quale assistenza può fornire la Congregazione per il Culto Divino riguardo all’idoneità a celebrare la Messa tradizionale di un sacerdote appena ordinato, quando la Congregazione per il Culto Divino non ha, a parte rare eccezioni, alcuna informazione specifica sul sacerdote? Il fatto che il vescovo abbia deciso di chiedere al Congregazione per il Culto Divino il permesso di autorizzare il sacerdote appena ordinato a celebrare la Messa tradizionale non è forse indicativo del fatto che, sulla base della propria conoscenza delle capacità e delle caratteristiche di un uomo che ha giudicato adatto all’ordinazione sacerdotale, egli è fiducioso che questo sacerdote sia adatto a celebrare la Messa tradizionale?
In altre parole, si dovrebbe presumere che un vescovo diocesano chiederà il permesso della Santa Sede solo per quegli uomini appena ordinati che sa essere idonei e non inoltrerà invece i nomi di coloro che giudica inadatti. Se la Santa Sede non pretende che i vescovi chiedano il permesso di ordinare al sacerdozio un uomo che il vescovo stesso abbia considerato idoneo dopo una lunga e seria valutazione, perché allora il vescovo dovrebbe essere tenuto a ottenere il permesso per concedere a quel sacerdote l’autorizzazione a celebrare la Messa tradizionale? Ciò che non viene chiesto dalla Santa Sede riguardo a una questione maggiore (l’idoneità a ricevere il sacramento dell’Ordine) non dovrebbe essere chiesto riguardo a una questione minore (l’idoneità a celebrare la Messa tradizionale), a meno che questa nuova disposizione non riguardi in realtà una migliore certificazione dell’idoneità a celebrare la Messa tradizionale, bensì quanto che i Responsa affermano nel paragrafo successivo: “Il Motu Proprio esprime con chiarezza la volontà che venga riconosciuta come unica espressione della lex orandi del Rito Romano quella contenuta nei libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II: è, dunque, assolutamente auspicabile che i presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del Motu Proprio, condividano questo desiderio del Santo Padre”.
Questo paragrafo rivela la preoccupazione che i sacerdoti appena ordinati possano non “condividere questo desiderio del Santo Padre” che quella contenuta nei libri liturgici riformati “venga riconosciuta come espressione unica della lex orandi del Rito Romano…”. Tale riconoscimento è “assolutamente auspicabile” [“essential” nella versione inglese, ndt]. Così, sembra che la Congregazione per il Culto Divino possa cogliere l’occasione di decidere se concedere o meno ai vescovi il permesso di autorizzare i sacerdoti appena ordinati a celebrare la Messa tradizionale per verificare, anzi per richiedere, che il sacerdote sia d’accordo con l’affermazione del Santo Padre sull’esistenza di una sola espressione della lex orandi del Rito Romano, cioè il Novus Ordo Missae e gli altri riti liturgici riformati. Questo è sconcertante e contraddittorio perché la Congregazione per il Culto Divino, incaricata di regolare la lex orandi del Rito Romano, sta regolando chi può celebrare la Messa tradizionale, chiedendo ai sacerdoti di concordare sul fatto che la Messa tradizionale non è espressione della lex orandi del Rito Romano. Se questo è vero, allora il sacerdote non ha bisogno di tale permesso dalla Congregazione per il Culto Divino, poiché la Congregazione per il Culto Divino non ha alcun ruolo nel regolare qualcosa che non è riconosciuto essere un’espressione liturgica della lex orandi del Rito Romano. In effetti, c’è più di un’espressione della lex orandi del Rito Romano, e la Messa tradizionale è una di queste. La Congregazione per il Culto Divino lo riconosce affermando la propria competenza a decidere chi può celebrare la Messa tradizionale. Quindi non si dovrebbe chiedere a un sacerdote di riconoscere qualcosa che la stessa Congregazione per il Culto Divino in pratica non riconosce, cioè che la Messa tradizionale non è un’espressione della lex orandi del Rito Romano.
Noto inoltre che è problematico affermare che è “assolutamente auspicabile” che i sacerdoti ordinati dopo la pubblicazione di Traditionis Custodes condividano il “desiderio” di Papa Francesco riguardo al riconoscimento dei libri liturgici riformati come “unica espressione della lex orandi del Rito Romano”. La dovuta sottomissione al Sommo Pontefice richiede obbedienza a leggi debitamente promulgate che regolano il comportamento esterno, non i pensieri interni. La dovuta sottomissione non può richiedere una vaga e indeterminata condivisione dei desideri di un qualsiasi Sommo Pontefice, poiché questo sarebbe una violazione della coscienza di un sacerdote che, per esempio nel caso in questione, fosse convinto che le disposizioni di Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI, che riconoscono la Messa tradizionale come legittima espressione della lex orandi del Rito Romano, siano conformi a una valutazione corretta e storicamente accurata della lex orandi. Costringere i sacerdoti ad accettare il giudizio di Papa Francesco su una questione che è chiaramente oggetto di dibattito, cioè se il Rito Romano abbia più di una espressione della lex orandi, come condizione per essere autorizzati a celebrare la Messa tradizionale sarebbe un uso ingiusto del potere coercitivo di cui gode la Congregazione per il Culto Divino.
Il canone 1321 § 1 afferma il principio di diritto penale per cui solo le violazioni esterne della legge sono punibili: “Nessuno è punito, se la violazione esterna della legge o del precetto da lui commessa non sia gravemente imputabile per dolo o per colpa”. Questo significa che qualcuno che interiormente non è d’accordo con una legge o un precetto, tuttavia osserva quella legge o quel precetto nel suo comportamento esterno, non può essere punito per questa divergenza di vedute. Per analogia di diritto, in materia di concessione di un’autorizzazione per la celebrazione della Messa tradizionale, il rifiuto di tale autorizzazione sulla base del fatto che il sacerdote non condivide il desiderio di Papa Francesco che la liturgia riformata sia riconosciuta come l’espressione unica della lex orandi del Rito Romano non è canonicamente ammissibile.

DM: Continuando con la risposta al quinto quesito, l’arcivescovo Roche dice che: “Questa norma vuole offrire un aiuto al Vescovo diocesano nel valutare tale richiesta: il suo discernimento verrà tenuto in debita considerazione da parte della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti”. Non è forse questo il caso di un dicastero che usurpa l’autorità e il ruolo del vescovo locale come principale moderatore e regolatore della liturgia?
FM: Come ho detto sopra, a parte casi molto rari, la Congregazione per il Culto Divino non ha informazioni proprie su un sacerdote appena ordinato. Il vescovo diocesano che chiede l’autorizzazione a celebrare la Messa tradizionale per un sacerdote appena ordinato lo ha già trovato idoneo. Mettere in dubbio il suo giudizio su una questione in cui è in possesso delle informazioni più complete sul sacerdote è un’interferenza ingiustificata nel suo ruolo di moderatore della vita liturgica nella sua diocesi.

Risposta al quesito 7

DM: Secondo la risposta 7, la facoltà concessa dal Vescovo diocesano di celebrare con il Missale Romanum del 1962 vale solo per il territorio della propria diocesi. Ci sono problemi canonici qui?
FM: La limitazione al territorio della propria diocesi della facoltà concessa da un vescovo diocesano di celebrare la Messa tradizionale ad un sacerdote soggetto alla sua autorità implica che il sacerdote richieda questa facoltà ogni volta che si reca fuori dalla diocesi, anche se ne ha bisogno per la sola celebrazione privata della Messa tradizionale. Questo può essere oneroso, in particolare se viaggia in Paesi stranieri dove non ha intenzione di rimanere per un lungo periodo.

Risposte ai quesiti 10 e 11

DM: Le domande 10 e 11 riguardano la binazione, cioè se un sacerdote può celebrare la Santa Messa usando il Messale del 1962 due volte in un giorno, o dopo aver già celebrato il Novus Ordo. In entrambi i casi, la nota esplicativa dice: “Non è possibile concedere la binazione a motivo del fatto che non si configura il caso della ‘giusta causa’ o della ‘necessità pastorale’ richieste dal can. 905 § 2: il diritto dei fedeli alla celebrazione eucaristica non viene in alcun modo negato essendo offerta la possibilità di partecipare all’Eucaristia nell’attuale forma rituale”. Non è prerogativa del vescovo giudicare se sussiste una giustificazione pastorale per la binazione?
FM: Sì, è prerogativa del vescovo giudicare quando permettere ai sacerdoti di binare “per una giusta causa” (offrire due Messe al giorno) e trinare “se la necessità pastorale lo richiede” (offrire tre Messe al giorno). I Responsa tolgono questa prerogativa nei casi di binazioni che comportano la richiesta di celebrare la Messa tradizionale come seconda Messa. I Responsa afferma che un sacerdote autorizzato a celebrare la Messa tradizionale che ha celebrato o la Messa di Paolo VI o la Messa tradizionale non può celebrare una seconda Messa quel giorno usando il Missale del 1962. La ragione data per questa proibizione è che “non c’è alcuna ‘giusta causa’ o ‘necessità pastorale’ come richiesto dal canone 905 §2: il diritto dei fedeli alla celebrazione dell’Eucaristia non è in alcun modo negato, poiché viene loro offerta la possibilità di partecipare all’Eucaristia nella sua forma rituale attuale.”
Il canone 905 §2 richiede una “giusta causa” per la binazione e una “necessità pastorale” per la trinazione. Una giusta causa includerebbe anche una necessità pastorale, come fornire ai fedeli la possibilità di adempiere al loro obbligo domenicale in una grande parrocchia con scarsità di sacerdoti e numerose messe programmate. La giusta causa richiesta per la combinazione includerebbe la promozione della crescita spirituale dei fedeli che desiderano adorare Dio nella Messa tradizionale. Questa giusta causa non può essere soddisfatta quando al sacerdote viene proibito di binare la celebrazione della Messa tradizionale.
Ciò significa che un sacerdote che ordinariamente celebrerebbe una seconda Messa usando il Messale del 1962 in adempimento della giusta causa di offrire assistenza spirituale ai fedeli legati alla Messa tradizionale, può celebrare una seconda Messa solo usando il Messale Romano riformato. Questo ignora il fatto che rispondere positivamente ai fedeli desiderosi di rendere culto con la Messa tradizionale dove c’è scarsità di sacerdoti si qualifica chiaramente come una giusta causa, come stabilito nel canone 905 §2.
La giustificazione data nei Responsa è che non esisterebbero né una giusta causa né una necessità pastorale di celebrare una seconda Messa quel giorno usando il Messale Romano del 1962 per un gruppo di fedeli “essendo offerta la possibilità di partecipare all’Eucaristia nell’attuale forma rituale”. Questo significa che possono partecipare alla Nuova Messa, ma non alla Messa tradizionale, anche se il sacerdote è disposto a celebrare quest’ultima. La logica di tutto questo non significherebbe che, al di là del semplice caso di una binazione, ogni volta e ovunque sia disponibile l’” attuale forma rituale” della Messa, la richiesta dei fedeli di partecipare alla Messa tradizionale può essere ignorata poiché tale richiesta non dà luogo né a una “giusta causa” né a una “necessità pastorale”? Oltre a privare un vescovo diocesano di un mezzo per soddisfare le particolari esigenze pastorali della sua diocesi, queste restrizioni sulla binazione significano che la devozione dei fedeli alla Messa tradizionale può essere trascurata e trattata come priva di qualsiasi significato pastorale che richieda una risposta generosa da parte dei pastori della Chiesa. Non riesco a pensare a nessun altro gruppo di fedeli nella Chiesa che sia trattato in questo modo.

DM: In definitiva, si può anche dire che queste due ultime disposizioni, insieme ad altre, contrastano la suprema lex, secondo la quale l’azione delle autorità ecclesiastiche deve favorire la salus animarum, un principio di diritto divino contenuto nell’ultimo canone, il 1752. Secondo lei, i Responsa ad dubia violano la legge suprema della salvezza delle anime, e a suo parere i vescovi hanno il dovere di resistere o di dispensare da essi?
FM: La salvezza delle anime è adeguatamente promossa quando la Chiesa fornisce nutrimento spirituale e ispirazione ai fedeli, attingendo ai tesori spirituali che la Chiesa ha custodito e promosso nel corso del suo pellegrinaggio sulla terra. I Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ascoltato le suppliche di numerosi fedeli cattolici per avere la libertà di praticare il culto secondo i riti immemorabili della Chiesa in uso fino alla promulgazione dei riti riformati dopo il Concilio Vaticano II. I frutti di questa generosità sono evidenti nella devozione e nello spirito apostolico di quel crescente numero di cattolici che frequentano la Messa tradizionale.
Papa Francesco ha deciso di limitare severamente la disponibilità della Messa tradizionale perché timoroso che, considerati come un gruppo, coloro che celebrano o frequentano la Messa tradizionale sarebbero spesso causa di disunione nella Chiesa. Ha scritto nella sua lettera che accompagna la Traditionis Custodes: “Purtroppo l’intento pastorale dei miei Predecessori, i quali avevano inteso ‘fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente’, è stato spesso gravemente disatteso. Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni”.
Trovo che questo giudizio sia fuori luogo e non supportato da prove. Dopo la pubblicazione di Traditionis Custodes non c’è stata una diffusa espressione pubblica di gratitudine a Papa Francesco da parte dei vescovi del mondo, ringraziandolo per aver risolto un grave problema che essi stessi avevano percepito e per il quale avevano cercato un rimedio dalla Santa Sede. Come hanno rivelato i documenti trapelati dal sondaggio dei vescovi del mondo su Summorum Pontificum la maggioranza dei vescovi ha risposto in modo positivo o neutrale riguardo alla Messa tradizionale nella propria diocesi. I vescovi dovrebbero far sapere alla Santa Sede che sono turbati e sconvolti dalle severe misure che vengono adottate contro i loro fedeli che frequentano la Messa tradizionale. Dovrebbero far sapere alla Santa Sede che si rammaricano del tono di sospetto e persino di disprezzo presente sia in Traditionis Custodes che nei Responsa verso quei sacerdoti e laici la cui unica “colpa” è quella di amare il patrimonio liturgico del Rito latino e di desiderare di viverlo senza essere tentati, visto che l’Autorità Suprema della Chiesa li ritiene erroneamente causa di disunione nella Chiesa, di scegliere di frequentare cappelle servite da sacerdoti canonicamente irregolari, alla ricerca di ciò di cui sono stati privati senza consultazione o avvertimento, cioè la Messa tradizionale.

DM: P. Murray, ha altre preoccupazioni canoniche sul documento? E c’è qualcosa che desidera aggiungere, come canonista o come parroco?
FM: L’arcivescovo Roche scrive nella sua lettera introduttiva ai Responsa: “Come Pastori non dobbiamo prestarci a polemiche sterili, capaci solo di creare divisione, nelle quali il fatto rituale viene spesso strumentalizzato da visioni ideologiche”. Questa frase è rivelatrice di una mentalità che cerca di giustificare il trattamento duro e spietato di un’intera categoria di cattolici accusandoli, in effetti, di far ricadere tale trattamento su se stessi con i loro presunti punti di vista ideologici sterilmente polemici, divisivi e sfruttatori. Non vengono forniti esempi di questi punti di vista, né vengono identificati i nomi dei loro sostenitori. La Santa Sede sta qui trattando l’amore e la difesa della Messa tradizionale non come segno di una lodevole devozione alla Fede, ma come l’espressione di visioni che “spesso” risultano in parole e azioni che danneggiano la Chiesa. Questa conclusione non è supportata dalla mia esperienza o conoscenza di quanto è accaduto nella Chiesa da quando le restrizioni sulla Messa tradizionale sono state eliminate dai Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Sono, al contrario, le recenti azioni intraprese per limitare e infine eliminare la celebrazione della Messa tradizionale che hanno danneggiato la Chiesa.

Free Webcam Girls
151.11.48.50