Sull’inutilità dei preti. Servi inutili a tempo pieno. Inutili come l’aria

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Viviamo tempi frenetici, veloci, sommersi dalle notizie che arrivano 24/24, con tutti i social da seguire. Non leggo più giornali cartaceo, non vedo più TV, non ascolto più radio e comunque ci sono sempre troppe cose che meritano attenzione. Lo scrisse Suor Rosalina Ravasio della Comunità “Shalom” di Palazzolo sull’Oglio nella sua Lettera aperta a Sua Santità il Papa emerito Benedetto XVI [QUI]: «Anni inquieti e febbrili (…) Non c’è mai tempo per metabolizzare: il tutto è così rapido… molto rapido… troppo rapido… e se non vuoi rischiare “l’emarginazione sociale”, al massimo ti è consentito un atteggiamento di “benevola neutralità…!”».

Neutrale non vogliamo essere e non lo siamo. Anche se tutto passa veloce, talvolta sentiamo la necessità di recuperare quanto fu travolto dalla velocità e rimasto accantonato, “per esigenza di scaletta”. Così, nella quieta della sera, dopo la festa per Valentina per il suo onomastico, riprendiamo dal sito di RTL 102.5 la storia del monologo di Raoul Bova “sull’inutilità dei preti”, che ha cambiato la sua mentalità. “Sull’inutilità dei preti” è un testo forte, provocatorio. In cui come comunicatori ci riconosciamo. Perché anche noi siamo inutili, come inutile è l’aria. Sei solo un passa carta, mi disse anni fa un vaticanista accreditato presso la Sala Stampa della Santa Sede. Non me lo sono preso, me ne sono fatto una ragione, perché almeno avevo la consapevolezza di essere un servo inutile, come l’aria. Sono d’accordo con l’amica Roberta Carta (anche lei ne ha visto passare di giornalisti…): «Dopo averli frequentati per tanti anni ho capito e continuo a ribadire che il potere che ha la maggior parte dei giornalisti è spesso inversamente proporzionale al loro IQ». Loro sì, si credono utili. Oggi, anche se manche l’IQ, almeno hanno un QR da mostrare.

Durante l’ospitata di Raoul Bova e Nino Frassica sul palco dell’Ariston, l’attore che interpreta Don Massimo avrebbe dovuto leggere un monologo che alla fine non è stato letto “per esigenze di scaletta”. Promozione per i nuovi episodi di Don Matteo 13, la fiction su Rai Uno, che dopo un’assenza di due anni dovrebbe ripartire dal prossimo mese di marzo.

La mattina dell’8 febbraio 2022, a RTL 102.5 durante “Non Stop News” condotto da Giusi Legrenzi, Enrico Galletti e Massimo Lo Nigro, è intervenuto Luca Bernabei, l’Amministratore Delegato di Lux Vide (la società che produce molte serie tv, tra cui “Don Matteo”): «Il monologo nasce da un’idea, da un’esigenza giusta di Raoul ovvero andare a Sanremo e dire qualcosa sul suo personaggio e sulla figura del sacerdote. L’idea di Raoul era raccontare il suo personaggio attraverso qualcosa di particolare: a Sanremo molti fanno i monologhi. Ho chiamato Don Luigi Maria Epicoco, con il quale sto lavorando ad un grandissimo progetto, e gli ho chiesto cosa volesse dire per lui essere prete, e lui ha scritto questo monologo. Poi, come sapete, Sanremo è travolgente e quindi c’è stato tempo di fare solo la prima parte dello sketch e non la seconda. A me interessava più la seconda, la prima parte era più un gioco».

Poi è intervenuto Don Luigi Maria Epicoco – Preside dell’Istituto Superiore Scienze Religiose Fides et Ratio ISSR dell’Aquila, Assistente ecclesiastico del Dicastero per la Comunicazione ed Editorialista de L’Osservatore Romano, 128.205 follower su Facebook – che ha scritto il monologo molto forte: «Ho voluto raccontare qualcosa che mi tocca in prima persona, perché innanzitutto io sono un prete. È sempre difficile parlare della propria vocazione in un momento così particolare, dove c’è tanto pregiudizio sul nostro mestiere. Mi piaceva raccontare che dietro l’etichetta che si mette su una persona, alla fine c’è un uomo vero. Il motivo vero per cui una persona decide di fare il prete non è quello di creare consensi o di avere una contropartita, il motivo è la gratuità, fare le cose senza aspettarsi nulla: questo era il significato del monologo».

Raoul Bova si è collegato con RTL 102.5 dal set di “Don Matteo”: «Quello che credo importante è avere sotto la veste un uomo, un uomo che sbaglia, che può avere dei sentimenti. Entrare in discussione con alcune cose, il domandarsi, la pulsione che può venire dall’uomo è normale. Il prete cerca di fare un passo in più, cerca di amare, di migliorarsi nell’amore e questo non è facile. Da quando ho cominciato le riprese ho applicato questo tipo di mentalità su tutto e mi sono reso conto di quanto l’amore a volte era discriminante, nel senso che a volte non amiamo sempre tutti, invece cercare di amare tutto e tutti è un lavoro che mi ha fatto crescere come essere umano”. E poi legge quel monologo, che Don Epicoco nel pomeriggio ha postato sulla sua pagina Facebook in forma integrale [QUI] (fino a stasera 12.066 mi piace, 945 commenti, 4796 condivisioni).

Sull’inutilità dei preti

La gente pensa che fare il prete sia un mestiere.
Uno che magari si sveglia la mattina
ed è convinto di poter mettere su
una bancarella per vendere parole,
benedizioni,
e santini.
La gente pensa che fare il prete sia una roba fuori dal mondo.
Uno che magari fa fatica a stare dentro le cose
e per questo si rifugia in una qualche sagrestia.
Lo sanno tutti che certe volte con la scusa di amare Dio
alla fine si rischia di non amare nessuno.
Ma è vero anche che certe volte tu ti accorgi che Dio lo hai incontrato
perché non puoi fare a meno di amare tutti.
E amare non è un mestiere,
è sentirsi responsabili.
Fare il prete non è un mestiere.
È la stessa cosa che capita a chi perde la testa per amore:
non c’è più il calcolo
ma solo l’ostinato desiderio di non perderti il bandolo della matassa che pensi di aver incontrato in qualcuno o in qualcosa.
Uno pensa che basta mettersi una tonaca e la magia è fatta.
Ma la tonaca non funziona se sotto non c’è un uomo,
uno che sa che è il più miserabile di tutti,
eppure è stato scelto,
eppure è stato amato.
E quanto è difficile accettare il peso di quella tonaca che oggi appare più inzozzata dal tradimento di chi avrebbe dovuto amare
e invece se n’è solo servito.
Ma poco importa se bisogna caricarsi anche sulle spalle l’infamia degli altri.
Non si diventa preti per essere benvisti.
Si diventa preti per diventare servi inutili proprio come diceva Gesù.
Servi inutili a tempo pieno!
Servi senza un utile.
Servi gratuiti.
L’amore salva solo se è gratuito.
È questo lo scopo di ogni vero amore: amare senza contraccambio.
Amare a fondo perduto.
Amare e basta.
Come fa una madre, un padre, un vero amico, o chiunque fa le cose con amore.
Come in questi tempi così difficili tenuti in piedi dall’amore di medici, infermieri,
uomini e donne nascosti da tonache improvvisate, fatte di polipropilene e mascherine.
L’amore quando è gratuito fa miracoli.
Per questo ha senso un prete.
Perché è messo lì in mezzo alla gente a ricordare che c’è qualcosa per cui vale la pena vivere, combattere e in alcuni casi anche perdere.
È messo lì perché ognuno possa avere il diritto di avere anche paura della vita, della morte, delle cose belle e brutte che  capitano e che molto spesso sono più grandi delle nostre forze e proprio per questo ci danno le vertigini.
Ma avere il diritto di poter avere paura non significa lasciare che essa decida al posto nostro.
Chi ti ama non ti dice che non soffrirai mai,
che non sbaglierai mai,
che non avrai mai paura delle cose che ti succederanno,
ma ti dice che tu puoi vivere tutto,
accettare tutto,
affrontare tutto.
E te lo dice perché è con te.
La sua presenza è la cosa più convincente,
non le sue parole,
i suoi ragionamenti,
le sue raccomandazioni.
Si diventa preti per essere una presenza.
Si diventa preti per rendere l’invisibile visibile.
Come accade sull’altare.
Come accade quando si ascolta, senza pretese, senza giudicare.
Come quando si stringe una mano per infondere forza.
Come quando si tiene in braccio un bambino che piange,
o come si accarezza la fronte di uno che muore.
Fare il prete non è un mestiere,
è un modo inutile di amare.
Inutile come ogni amore.
Inutile come l’aria.

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