Il Festival delle memorie a Ferrara estende gli orizzonti della riflessione a genocidi che hanno segnato la storia recente dell’umanità: di Armeni, Tutsi, Curdi, Sinti, Rom e Ebrei

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In occasione del Giorno della Memoria 2022 [1] a Ferrara si svolgerà una settimana di incontri, approfondimenti, spettacoli, concerti, promossi dalla Fondazione del Teatro Comunale di Ferrara. Il Festival delle memorie è dedicato al ricordo dell’immane tragedia della Shoah, con uno sguardo nuovo e inedito, che estende gli orizzonti della riflessione ad altri genocidi, che hanno segnato la storia recente dell’umanità: degli Armeni, dei Tutsi e dei Curdi, dello sterminio nazista di Sinti, Rom e Ebrei.

Il programma del Festival delle memorie di Ferrara si articola in sei giornate che si svolgono nel Teatro Comunale C. Abbado in corso Martiri della Libertà 5. Per ogni Memoria è previsto un incontro pomeridiano al Ridotto del Teatro alle ore 17.30 e uno spettacolo o concerto serale nella Sala Teatrale alle ore 20.30. Tutte le conferenze al Ridotto saranno introdotte e coordinate dal Prof. Franco Cardini.

«Il primo anno del nuovo millennio ha conosciuto l’istituzione di una giornata della memoria con l’intento di ricordare i sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti sulla base di un preciso progetto pianificato tecnicamente con l’intento di cancellare l’esistenza fisica di tutta la popolazione ebraica dalla terra d’Europa. Il progredire della cultura della memoria ha determinato un allargarsi dell’orizzonte di indagine. Persone e altre genti di popoli che avevano subito stermini delle proporzioni di un genocidio, o di stragi di massa si sono affacciati al tribunale delle nazioni per chiedere giustizia e memoria riconosciuta per potere ritrovare il cammino della pace che si può aprire solo con il riconoscimento da parte di chi ospitò nel proprio corpo il morbo del crimine. Una parte dell’opinione pubblica ha scoperto che solo limitandosi al secolo breve l’umanità ha conosciuto il genocidio della Namibia, quello Armeno, lo sterminio nazista, le stragi di massa perpetrate dall’esercito imperiale giapponese in Manciuria e in altre aree asiatiche, i crimini staliniani, le stragi e le persecuzioni sistematiche del popolo curdo, il genocidio interno del popolo cambogiano, le stragi della ex Iugoslavia, il genocidio dei Tutsi, le persecuzioni degli Uiguri, dei Rohingia, del popolo Sarawi… Il Festival delle memorie non si fonda su alcuna ideologia, non vuole essere un tribunale, non si erge a giudice; il suo scopo è quello di dare un contributo artistico e culturale ad edificare una memoria universale per promuovere la pace e l’incontro fra le genti» (Moni Ovadia).

Il programma del Festival delle memorie che si terrà dal 25 al 30 gennaio 2022 presso il Teatro Comunale a Ferrara

Martedì 25 gennaio 2022 – Armeni

Ore 17.30 Ridotto del Teatro: conferenza sul genocidio armeno [2] a cura di Franco Cardini con Antonia Arslan e Aldo Ferrari

Ore 20.30 Teatro: concerto di Gevorg Dabaghyan, accompagnato da Grigor Takushian e Kamo Khachatryan

Gevorg Dabaghyan, nato nel 1965 in Armenia, insegna al Conservatorio Statale di Erevan. Dal 1991 ha intrapreso una carriera che lo ha portato a farsi apprezzare a livello internazionale e a collaborare con musicisti come Gidon Kremer, Jan Garbarek e Yo-Yo Ma che lo ha coinvolto nel suo progetto Silk Road (la Via della Seta). Su iniziativa del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena, il Trio Dabaghyan è stato più volte in Italia, ospite ai festival di Musicarmena, al Ravenna Festival, all’Aterforum Festival di Ferrara, alla V Rassegna di Musica Contemporanea Est Ovest 2006 di Torino, al festival promosso dall’Associazione Suoni e Pause di Cagliari, alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia e in molti altri contesti festivalieri.

Nel 2005, il duduk (o dziranapogh in armeno) viene proclamato capolavoro rappresentativo della tradizione musicale armena all’interno del “Programma dei Capolavori del Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità” dell’Unesco, e quindi iscritto nel 2008 all’interno della nuova “Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità”. Il duduk (considerato convenzionalmente come l’oboe armeno) è uno strumento popolare dal timbro caldo, leggermente nasale e dalla sonorità fortemente evocativa, che accompagna i canti e le danze di tutte le regioni dell’Armenia oltre che essere lo strumento privilegiato per i raduni matrimoniali o funerei. Il solista viene di solito accompagnato da un secondo suonatore di duduk che tiene continuamente il bordone grazie ad una tecnica di respirazione circolare e da un suonatore percussionista di dhol.

Gevorg Dabaghyan è il massimo specialista vivente di questo antichissimo strumento e fondatore di varie formazioni tra cui l’Ensemble Shoghaken, votato alla salvaguardia del ricchissimo patrimonio folkloristico armeno. Nel vastissimo repertorio di Dabaghyan ha grande rilievo anche la musica liturgica, parte fondamentale di una tradizione plurimillenaria caratterizzata dalle sue forti radici culturali cristiane, essendo l’Armenia la prima nazione che proclama il cristianesimo come religione di stato nel 301 d.C.

Mercoledì 26 gennaio 2022 – Curdi

Ore 17.30 Ridotto del Teatro: conferenza sul genocidio curdo a cura di Franco Cardini con Luigi Lucchi e Ylmaz Orkan

Ore 20.30 Teatro: concerto della cantante curda Aynour Dogan accompagnata da Caner Malkoc, Jeroen Vierdag, Ediz Enver Nehat e Xavier Torres

Il 16 marzo 2017, la cantante e compositrice Aynur Dogan, nota artista folk e icona culturale del popolo curdo, ha ricevuto il premio nella categoria Mediterranean Women in Action come riconoscimento della sua fedeltà alla tradizione curda. Il contributo di Aynur nel preservare le tradizioni orali popolari curde, interpretando il repertorio tradizionale e fondendolo con altri stili occidentali moderni, ha aperto una nuova strada verso questo stile Mediterraneo.

Nel corso degli anni Aynur Dogan è diventata una dei musicisti turchi più conosciuti e un’icona del popolo curdo. Il suo stile vocale e la sua produzione musicale vengono elogiati non solo dai media del suo paese ma anche dai media internazionali. I suoi album sono tra quelli più venduti del panorama folk curdo.

La musica di Aynur parte dai canti popolari tradizionali curdi, molti dei quali antichi di almeno 300 anni. Tutti i suoi testi parlano della vita e della sofferenza del popolo curdo e in particolare delle donne curde. Musicalmente mira a fondere la musica curda con la musica occidentale, venendo a creare così un proprio stile, interpretando repertorio tradizionale in modo moderno e fresco. Ha collaborato con un grande numero di artisti acclamati tra cui il violoncellista di fama mondiale YO-YO MA e con il Silk Road Ensemble, Kayhan Kalhor, Javier Limon, Kinan Azmeh, Mercan Dede, Salman Gambarov, Nerderland Blazers Ensemble e molti altri. Nel frattempo è apparsa come cantante nel film documentario di Fatih Akın “İstanbul Hatırası / Köprüyü Geçmek-Crossing the bridges” ed è apparsa anche in un film documentario su Yo-Yo Ma e il Silk Road Ensemble intitolato “The music of Strangers” diretto da Morgan Neville nel 2015.

Giovedì 27 gennaio 2022 – Sinti, Rom, Ebrei

Ore 10.00 Teatro: saluti del Prefetto Rinaldo Argentieri, del Sindaco Alan Fabbri e del Rappresentante della Consulta Provinciale degli Studenti – intervento del Prof. Andrea Baravelli

Ore 11.00 Teatro: spettacolo per le scuole Senza confini. Ebrei e Zingari con Moni Ovadia, clarinetto Paolo Rocca, fisarmonica Albert Florian Mihai, cymbalon Marian Serban, contrabbasso Petre Naimol e suono Mauro Pagiaro

Gli Ebrei e il popolo degli “uomini” per secoli hanno condiviso lo stesso destino. Il tratto comune che ha segnato la loro storia spesso tragica per colpa delle nazioni che li tolleravano o li perseguitavano, ma sublime per loro esclusivo merito, è stata la condizione di “altro”. Ebrei e Zingari è un piccolo ma appassionato contributo alla battaglia contro ogni razzismo. Ebrei e Zingari è un recital di canti, musiche, storie Rom, Sinti ed Ebraiche che mettono in risonanza la comune vocazione delle genti in esilio, una vocazione che proviene da tempi remoti e che in tempi più vicino a noi si fa solitaria, si carica di un’assenza che sollecita un ritorno, un’adesione, una passione, una responsabilità urgenti, improcrastinabili. Ebrei e Zingari è un’assunzione di responsabilità, la sua forma si iscrive nella musica e nel teatro civile, arti rappresentative e comunicative che possono e devono scardinare conformismi, meschine ragionevolezze e convenienze nate dalla logica del privilegio per proclamare la non negoziabilità della libertà e della dignità di ogni singolo essere umano e di ogni gente.

Ore 17.30 Ridotto del Teatro: conferenza a cura di Franco Cardini con Moni Ovadia, Marina Montesano e Djana Pavlovich

Ore 20.30 Teatro: spettacolo Senza confini. Ebrei e zingari

Venerdì 28 gennaio 2022 – Tutsi

Ore 17.30 Ridotto del Teatro: conferenza a cura di Franco Cardini con Yolande Mukagasana (rwandese, autrice del libro La morte non mi ha voluta) e Patrizia Paoletti Tangheroni

Ore 20.30 Ridotto del Teatro: proiezione del film Accadde in aprile (Raoul Peck, 2005)

Sabato 29 gennaio 2022 – Ebrei

Ore 12.00 Ridotto del Teatro: incontro a cura di Fabio Levi (Presidente del Centro Studi Internazionale “Primo Levi”) con la compagnia dello spettacolo Se questo è un uomo. Il regista Valter Malosti in dialogo con Carlo Boccadoro (compositore dei Tre madrigali dall’opera poetica di Primo Levi) e Domenico Scarpa (coautore della condensazione scenica dello spettacolo Se questo è un uomo)

Ore 18.00 Ridotto del Teatro: conferenza a cura di Franco Cardini con Moni Ovadia, Vittorio Bendaud, Stefano Levi della Torre

Ore 20.30 Teatro: Se questo è un uomo, spettacolo con Valter Malosti, dall’opera di Primo Levi (pubblicata da Giulio Einaudi editore) in occasione del 100° anniversario dalla nascita di Primo Levi (1919 – 1987). Condensazione scenica a cura di Domenico Scarpa e Valter Malosti, scene Margherita Palli, luci Cesare Accetta, costumi Gianluca Sbicca, progetto sonoro Gup Alcaro.

Tre Madrigali (dall’opera poetica di Primo Levi) Carlo Boccadoro, video Luca Brinchi e Daniele Spanò, in scena Valter Malosti, Lucrezia Forni e Giacomo Zandonà, cura del movimento Alessio Maria Romano, assistente alla regia e suggeritrice Noemi Grasso, assistente alle scene Eleonora Peronetti, assistente al suono Alessio Foglia, scelte musicali Valter Malosti, musiche di Oren Ambarchi, Johann Sebastian Bach, Ludwig Van Beethoven, Cracow Kletzmer Band, Morton Feldman, Alexander Knaifel, Witold Lutoslawski, Oy Division, Arvo Pärt, Franz Schubert e John Zorn. Madrigali eseguiti e registrati dai solisti dell’Erato Choir, soprani Karin Selva e Caterina Iora, contralto Giulia Beatini, tenori Massimo Lombardi e Stefano Gambarino, bassi Cristian Chiggiato e Renato Cadel, direzione musicale Massimo Lombardi e Dario Ribechi, direttore di scena Lorenzo Martinelli, capo macchinista Riccardo Betti, capo elettricista Umberto Camporeschi, fonico Fabio Cinicola/Luca Nasciuti/Sarta Eleonora Terzi, costruzioni sceniche Santinelli, scenografie foto di scena Tommaso Le Pera, illustrazione Pietro Scarnera.

Progetto realizzato in collaborazione con Centro Internazionale di Studi Primo Levi, Comitato Nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita di Primo Levi, Polo del ‘900 e Giulio Einaudi Editore. L’attività è realizzata grazie al contributo concesso alla Biblioteca della Fondazione Teatro Comunale dalla Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali del Ministero della Cultura.

La voce di Primo Levi è la voce che più di ogni altra ha saputo far parlare Auschwitz: la voce che da oltre settant’anni, con Se questo è un uomo, racconta ai lettori di tutto il mondo la verità sullo sterminio nazista. È una voce dal timbro inconfondibile, mite e salda: «Considerate che questo è stato». Nel centenario della nascita di Levi, il Direttore di Teatro Piemonte Europa Valter Malosti firma la regia e l’interpretazione di Se questo è un uomo, portando per la prima volta in scena direttamente la voce di questa irripetibile opera prima, che è il libro di avventure più atroce e più bello del ventesimo secolo: quella voce senza alcuna altra mediazione. Una voce che nella sua nudità sa restituire la babele del campo – i suoni, le minacce, gli ordini, il rumore della fabbrica di morte.

Domenica 30 gennaio – Ebrei

Ore 10.15 Ridotto del Teatro: La memoria rende liberi, a cura di Jazz Studio Dance

Ore 11.00 Ridotto del Teatro: presentazione del libro di Piero Stefani La parola a loro. Dialoghi e testi teatrali su razzismo, deportazioni e Shoah (Giuntina-2021) con Moni Ovadia, Amedeo Spagnoletto, letture di Magda Iazzetta, Fabio Mangolini e la partecipazione dell’Accademia Corale V. Veneziani

Ore 16.00 Teatro: Se questo è un uomo spettacolo con Valter Malosti

[1] Il Giorno della memoria cade ogni anno il 27 gennaio. In quel giorno del 1945, la 60ª armata dell’esercito sovietico abbatte i cancelli di Auschwitz, non molto distante da Cracovia e si trovava nei pressi di quelli che erano all’epoca i confini tra la Germania e la Polonia.

Alfred Hitchcock nel 1945 girò un documentario sulla Shoah all’interno di 10 campi di concentramento. Il documentario rimase però segreto fino al 1985, perché troppo crudo e drammatico. L’obiettivo era mettere la Germania davanti alle sue responsabilità, documentare l’orrore compiuto ma per mantenere gli equilibri nati dopo la fine del conflitto, si decise di non dargli visibilità. Il materiale fu trovato nel 1985 all’interno degli archivi di Stato inglesi ma sono stati necessari altri 20 anni affinché l’antropologo André Singer riuscisse a farne finalmente un documentario, Night will fall.

La giornata commemorativa, che è stata istituita in Italia nel 2000 (con la Legge 211) e in tutto il mondo nel 2005 (con la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunitasi il 1° novembre 2005, che ha proclamato, in occasione dei 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento di Auschwitz, il 27 gennaio Giornata Internazionale della Commemorazione in memoria delle vittime della Shoah). Nella Germania fu instituita nel 1996 e nel Regno Unito nel 2001.

In Italia si tratta di una commemorazione pubblica non soltanto della Shoah, ma anche delle leggi razziali approvate sotto il fascismo, di tutti gli Italiani, ebrei e non, che sono stati uccisi, deportati ed imprigionati, e di tutti coloro che si sono opposti alla “soluzione finale” voluta dai nazisti, spesso rischiando la vita. Soprattutto, non va considerata soltanto un omaggio alle vittime della Shoah, ma un’occasione di riflessione su una vicenda che ci riguarda tutti da vicino. Lo scopo è quello di non dimenticare mai questo momento drammatico del nostro passato di Italiani e di Europei, affinché, come dice la stessa Legge 211 “simili eventi non possano mai più accadere”. Come queste parole indicano chiaramente, non si tratta affatto di una “celebrazione”, ma del dover ribadire quanto sia importante studiare ciò che è successo in passato.

Nel corso della storia ci sono stati diversi tentativi di genocidio. Tra i più recenti c’è quello degli Armeni in Turchia durante la Prima guerra mondiale, quello compiuto dalla dittatura comunista in Cambogia a metà degli anni settanta, le terribili deportazioni di contadini volute da Stalin negli anni trenta, lo sterminio dei nativi americani, ecc. La parola genocidio indica la metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l’annullamento dei valori e dei documenti culturali. Lo stesso termine genocidio, tuttavia, è stato coniato per descrivere la Shoah, resa unica dal fatto che si trattò di un genocidio razionale, ben organizzato, che si avvaleva della tecnologia e di impianti efficienti per sterminare un popolo intero nel cuore dell’Europa, gli Ebrei.

Il termine genocidio è una parola coniata da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio armeno, introdotta per la prima volta nel 1944, nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe, opera dedicata all’Europa sotto la dominazione delle forze dell’Asse. L’autore vide la necessità di un neologismo per poter descrivere la Shoah e i fenomeni di persecuzione e distruzione di gruppi nazionali, razziali, religiosi e culturali, in particolare alla ricerca di idonei strumenti, nel diritto internazionale, a garantire la tutela di tali gruppi. La parola, derivante dal greco “γένος” (razza, stirpe”) e dal latino “caedo” (uccidere), è entrata nell’uso comune e ha iniziato a essere considerata come indicatrice di un crimine specifico, recepito nel diritto internazionale a partire dal secondo dopoguerra e quindi nel diritto interno di molti Paesi. Il primo utilizzo del termine in ambito giudiziario avviene un anno dopo il lavoro di Lemkin durante il Processo di Norimberga celebrato a partire dall’autunno del 1945. Anche se non espressamente menzionata nella Carta di Londra, l’accordo stipulato dalle nazioni alleate per dar vita al Tribunale Militare Internazionale chiamato a giudicare i crimini commessi dalle forze dell’Asse durante la Seconda Guerra Mondiale, la parola genocidio è presente nell’atto di accusa degli imputati del 18 ottobre 1045, non come crimine specifico, ma come termine descrittivo seppur con riferimento ai crimini di guerra e non ai crimini contro l’umanità.

Ricordare e commemorare le vittime della Shoah non significa affatto trascurare altri genocidi, né tantomeno stabilire inutili “priorità” tra stermini e dolori di un popolo piuttosto che di altri popoli. Il giorno della memoria non è un omaggio alle vittime, ma semplicemente un riconoscimento pubblico e collettivo di un fatto particolarmente grave di cui l’Europa è stata capace, e a cui l’Italia ha attivamente collaborato. Nel 2001, il teorico e saggista Tzvetan Todorov ha scritto nel libro Memoria del bene, tentazione del male che “la singolarità del fatto non impedisce l’universalità della lezione che se ne trae”. Significa, che la memoria storica della Shoah non riguarda soltanto il popolo ebraico, ma l’intera umanità, perché da questi avvenimenti si possono trarre insegnamenti.

Affinché il ricordo della Shoah sia utile, la memoria non deve limitarsi soltanto all’indignazione e alla denuncia morale contro i crimini nazisti, sentimenti sicuramente giusti e naturali nei confronti di avvenimenti gravi e disumani. Perché la memoria abbia un senso, è soprattutto importante, prima di denunciare, capire ciò che accadde in Germania da un punto di vista storico.

[2] Il genocidio armeno è stato il primo caso moderno di persecuzione sistematica e di sterminio pianificato di un popolo per il quale è stata avviata da parte della comunità internazionale una analisi processuale sulle responsabilità individuali e politiche. Il genocidio armeno, inoltre, era stato preso ad esempio dallo stesso Lemkin per la definizione del crimine di genocidio.

La persecuzione nei confronti degli Armeni e delle popolazioni cristiane fu una costante nella storia dell’Impero ottomano inasprendosi soprattutto nel XIX secolo, e sfociò, al momento della sua dissoluzione, nel genocidio armeno propriamente detto, espressione alla quale ci si riferisce in particolare per i fatti accaduti tra il 1915 e il 1916.

Il genocidio che gli Armeni, da loro chiamato Medz Yeghern (Il Grande Crimine), viene commemorato il 24 aprile, data in cui nel 1915 vennero eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli e a cui seguirono massicce deportazioni verso l’interno dell’Anatolia fino al massacro sistematico di una larga fetta della popolazione armena nei mesi successivi.

Il popolo armeno ha un’origine millenaria e fu tra i primi ad adottare il cristianesimo come religione di Stato. Proprio la loro affiliazione religiosa, in quella che poi diventerà una regione prevalentemente islamica, sarà un punto di contrasto con le popolazioni vicine, in particolare con gli Ottomani. A seguito della guerra russo-turca del 1878, il decadente impero turco cedette parte del Caucaso all’Impero russo, il quale, per destabilizzare maggiormente il nemico, si proclamò difensore dei diritti dei cristiani armeni. Così, con rinnovate pretese di autodeterminazione, i due milioni di cristiani-ortodossi presenti in Anatolia divennero una presenza molto scomoda per il Sultano Hamid. Il sogno di una nuova patria, indipendente dai Turchi e sotto il patrocinio dello Zar, presto mosse alcune rappresaglie, a cui Hamid rispose con grande ferocia, culminando nei Massacri hamidiani.

Massacri hamidiani (1895-1897) – Dopo la guerra russo-turca del 1877-1878, gli abitanti armeni di alcune zone dell’Impero, in particolare in Anatolia, si erano sollevati contro l’Impero ormai in declino con la richiesta che venissero applicate le clausole del Trattato di Berlino del 1878. L’art. 61 del Trattato, stipulato tra le potenze europee alla fine di un lungo periodo di ostilità terminato con la pace di Santo Stefano, impegnava l’Impero ottomano «a realizzare, senza ulteriori ritardi, i miglioramenti e le riforme richieste dai bisogni locali nelle province abitate dagli Armeni e a garantire la loro sicurezza contro i Circassi e i Curdi. Essa darà conto periodicamente delle misure prese a questo scopo alle Potenze, che ne sorveglieranno l’applicazione.» Inoltre il Trattato impegnava la Sublime Porta a garantire la libertà religiosa nel suo territorio. Si trattò di uno dei primi casi di coinvolgimento internazionale al fine di garantire i diritti e la salvaguardia di una minoranza etnica e religiosa minacciata. La repressione per soffocare la dissidenza armena, realizzata anche con il contributo dei Curdi e di altre minoranze musulmane, fu brutale. Simili eventi erano già avvenuti in passato contro il popolo armeno, ma in questa occasione la notizia dei massacri si diffuse velocemente in tutto il mondo, causando espressioni di condanna da parte di molti governi. Gli eccidi continuarono fino al 1897 quando il sultano Abdul Hamid II dichiarò chiusa e risolta la questione armena. In quel periodo inizio anche la confisca dei beni degli Armeni. La stima delle vittime durante la repressione varia da 80.000 a 300.000 morti a seconda delle fonti. La notizia dei massacri fu ampiamente riportata in Europa e negli Stati Uniti, provocando forti reazioni da parte dei governi stranieri e delle organizzazioni umanitarie. Il Sultano fu quindi costretto ad accettare l’intervento di una commissione mista composta da membri turchi e europei, con rappresentanti della Francia, dell’Impero russo e di quello britannico, il cui lavoro fu però ostacolato da tattiche diplomatiche, rivelandosi inutile ad accertare la verità sulle stragi.

Genocidio armeno (1915-1916) – Le deportazioni e le uccisioni di massa perpetrate dagli Ottomani sotto il governo dei Giovani Turchi ai danni della minoranza armena in maggioranza cristiana tra il 1915 e il 1916, causarono circa 1,5 milioni di morti secondo le stime più condivise. All’inizio degli anni venti del XX secolo vi furono i primi tentativi di organizzare tribunali penali internazionali per perseguire crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel corso del primo conflitto mondiale. In particolare il trattato di pace di Sèvres, firmato tra le nazioni vincitrici e l’Impero ottomano il 10 agosto 1920, obbligava i Turchi a consegnare alle potenze alleate «le persone la cui resa può essere richiesta da queste ultime in quanto responsabili dei massacri commessi durante la continuazione dello stato di guerra sul territorio che faceva parte dell’Impero turco il 1° agosto 1914». I responsabili dei massacri avrebbero dovuto essere processati da appositi tribunali istituiti dagli Alleati, salvo che nel frattempo la Società delle Nazioni non avesse creato un tribunale competente a giudicarli. Il trattato non entrò mai in vigore perché non riconosciuto dal nuovo governo guidato da Mustafa Kemal Atatürk che prese il posto di quello ottomano al termine della Guerra d’indipendenza turca che ridefinì i confini e lo status della moderna Turchia come repubblica. Ciò costrinse le potenze alleate a tornare al tavolo dei negoziati e alla sottoscrizione di un nuovo trattato di pace. Il Trattato di Losanna, firmato il 24 luglio 1923, annullava il trattato di Sèvres, stipulato peraltro con il non più esistente Impero ottomano, e non impegnava più la nuova Turchia sul tema della consegna dei responsabili dei massacri. La mancata applicazione del trattqto di Sèvres vanificò l’ipotesi di ricorrere al giudizio di un tribunale penale sovranazionale per lo sterminio del popolo armeno e rappresentò un fallimento della Società delle Nazioni. La questione rimase irrisolta e dimenticata per decenni fino agli anni settanta quando, in seguito alla invasione turca di Cipro, la comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti, iniziò a sfruttare la questione armena come mezzo di pressione politica nei confronti del governo di Ankara richiamandolo alle sue eventuali responsabilità per quello che iniziava a essere definito come “genocidio armeno”. Il primo paese a riconoscere come genocidio il massacro degli Armeni fu l’Uruguay nel 1965 a cui seguirono molti altri Stati, soprattutto europei e sudamericani, sino a una prima presa d’atto da parte del Parlamento Europeo con una risoluzione formale del 18 giugno 1987. Nel 2015, in occasione del centesimo anniversario, il Parlamento Europeo confermò con un’altra risoluzione il riconoscimento del genocidio armeno esortando la Turchia «a fare i conti con il proprio passato». Il problema armeno e il suo mancato riconoscimento da parte del governo turco come genocidio è sempre stato uno degli elementi di maggior frizione tra Ankara e gli altri Paesi. In particolare la procedura per un eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea è stata frenata fino a rendersi impossibile proprio in virtù della mancata assunzione di responsabilità da parte delle autorità turche. In Italia il genocidio armeno è stato riconosciuto con una risoluzione della Camera dei deputati del 17 novembre 2000. In Francia il negazionismo sul genocidio degli Armeni, insieme a quello degli Ebrei, è considerato reato e punibile col carcere. Le Nazioni Unite non hanno mai riconosciuto esplicitamente il caso armeno come genocidio, ma in un documento della Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze del 2 luglio 1985, lo hanno affiancato ai grandi genocidi del XX secolo, paragonandolo alla Shoah e definendolo come «massacro ottomano degli Armeni nel 1915-1916».

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