«A furia di “mettersi in ascolto”, la Chiesa non sta dicendo più niente»

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Visto che è in ascolto, che si mettesse anche ad ascoltare. Non è più possibile umanamente tenere il conto degli articoli, dichiarazioni, lettere aperte, proclami, ecc. ecc. che salgono dal Popolo di Dio, «il cui destinatario numero uno è il mondo cattolico, ma ha valore per tutti», come osserva il collega e amico Aldo Maria Valli, condividendone molti tra tanti sul suo blog Duc in altum.

Qui ne riportiamo tre, tre voci in un coro polifonico in crescendo:

  • Lettera aperta al mondo cattolico sullo stato presente delle cose di Giovane Prete (che, pur non essendo più tanto giovane, preferisce firmarsi ancora così).
  • Sacerdozio addio. Ecco tutte le mosse, della Chiesa stessa, per ucciderlo di Don Claude Barthe.
  • Le periferie divenute centro, il centro emarginato. Teoria, prassi (e confusioni) di Francisco il caudillo di Don Jean-Marie Perrot.

«A furia di “mettersi in ascolto”, la Chiesa non sta dicendo più niente». L’ha scritto un amico, a cui rispondo: allora, visto che la gerarchia della Chiesa Cattolica Romana è in ascolto, che si mettesse anche ad ascoltare, se trova ancora tempo mentre sta facendo il cammino sinodale. Ma, purtroppo, «non c’è peggiore sordo di chi non vuol sentire | Tu pensa a chi non sente e poi ne vuol parlare (…) E allora avanti un altro | Qualcuno che abbia voglia di ascoltare», come cantava Ligabue nel 2010 [*].

Pro memoria. Da rileggere con profitto – per ricordare a cosa si sta giocando – nel tempo di distrazione delle masse con visite “a sorpresa” a negozi di dischi, di occhiali, di scarpe, con letterine manu scriptus, telefonatine a privati o in trasmissione et similia. Nihil sub sole novum: «Non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa» (Papa Francesco) – 9 ottobre 2021. Questo in attesa dell’uscita – prevista per il 31 gennaio 2022 del libro di Mons. Nicola Bux e Aldo Maria Valli Il cambio della guardia. Bose ed Enzo Bianchi come esempio di transizione della nuova chiesa (Fede & Cultura 2022, ‎128 pagine).

«Siamo entrati in una fase oscura e pericolosa»

Lettera aperta al mondo cattolico sullo stato presente delle cose
di Giovane Prete
Duc in altum, 11 gennaio 2022


Caro Aldo Maria,
vorrei fare con te il punto della situazione.
In questi due anni tutto il mondo occidentale è stato segnato dall’arrivo del Covid. Ormai non si parla d’altro: tutto il giorno e in tutti i luoghi il virus, con le sue pittoresche e infinite varianti, monopolizza i dialoghi e i rapporti tra le persone.
Più il tempo passa e più ci accorgiamo che avevano ragione i corifei del potere nell’indicarci ormai chiusa la possibilità di un ritorno alla vita di prima, alla “normalità”. Occorrerà abituarci a una nuova normalità fatta di mascherine, distanziamento sociale, restrizioni e chiusura totale o parziale di tutti gli spazi di condivisione, sia ludici sia culturali. Nello stesso tempo abbiamo assistito all’azzeramento delle divisioni politiche mediante la formazione di un unico grande partito che finge di bisticciare al suo interno per mostrare ai cittadini, divenuti ormai spettatori, che il nostro Paese ha ancora una vita democratica. Lo sanno tutti, e non lo nascondono neppure, che in realtà le decisioni, senza passare attraverso un noiosissimo vaglio parlamentare, sono prese da un ristrettissimo numero di persone non elette, facenti parte o del fantomatico Cts (Comitato tecnico scientifico), o di un’ineffabile “cabina di regia”, guidato dal Migliore, nonno di tutti noi italiani.
Tuttavia non è di questo che intendo trattare, ma di una questione che, pur essendo evidente, oggi è sistematicamente taciuta. Così come ha provocato una deflagrazione dei partiti politici, la pandemia ha sparigliato le classiche distinzione interne al mondo cattolico, non più diviso sulle questioni dogmatiche o la morale, ma sull’atteggiamento e il giudizio intorno al vaccino.
Nessuno è immune (questo, spero, lo abbiamo ormai capito tutti) a una mancanza di equilibrio che sta facendo molto male alla comunione ecclesiale, poiché siamo stati così bravi da rendere il “vaccino” un punto fondamentale su cui si gioca l’appartenenza o meno alla Chiesa cattolica.
Ne ho sentite di tutti i colori: da un lato vi sono coloro che considerano il non vaccinato un eretico pericoloso la cui sorte può essere solo l’inferno; dall’altro tale sorte spetta inevitabilmente anche al vaccinato: “Ho sempre pensato che fosse un bravo sacerdote / una brava persona, però ho saputo che si è / non si è vaccinato”. Parole sentite non so quante volte, in entrambe le versioni.
I giudizi sulla persona si basano perciò esclusivamente sulla scelta vaccinale: amici da una vita che si insultano e non si parlano più e si tolgono il saluto; genitori che si scagliano contro i figli (o viceversa), lacerando anche quel legame profondissimo dato dal sangue. A questo proposito conosco personalmente due casi in cui i genitori hanno letteralmente buttato fuori casa i figli perché questi non si sono voluti vaccinare, perdendo anche il lavoro. Nessuno spazio per un minimo di pietà e compassione verso chi è sangue del tuo sangue. Insomma, da molte parti si respira aria da tutti contro tutti.
Pregando affinché questa situazione finisca e le persone possano ritrovare al più presto un minimo di sanità mentale e di buon cuore, vorrei lanciare un appello a tutto il mondo cattolico, vaccinati e non vaccinati, su un altro punto di fondamentale importanza, su cui mi sembra possibile e doveroso trovare un terreno condiviso. Sto parlando della tenuta democratica del Paese.
È palese a tutti che l’Italia sia entrata in una fase oscura e pericolosa.
Se il non vaccinato l’aveva sempre prospettato, tanto che la propria scelta di non aderire alla campagna vaccinale si basava anche su questa preoccupazione e non solo sugli specifici argomenti sanitari, è arrivato il momento anche per i più ferrei difensori della vaccinazione di abbassare i toni e riconoscere che la deriva liberticida e discriminatoria del governo deve essere assolutamente fermata.
Nessun dubbio, nessuna incertezza, nessuna posizione di comodo deve farci chiudere gli occhi sulla china illiberale presa da questo potere e non vedere le sofferenze che colpiscono già in questo momento molti nostri concittadini.
Come cristiani sappiamo che Gesù ci ha insegnato a stare con i più piccoli, con gli oppressi, a vedere le prepotenze dei più forti sui più deboli e a denunciarle. Ogni silenzio è assenso: non si scappa.
È la prima volta dal secondo dopoguerra che ci troviamo di fronte a una situazione di questo tipo ed è arrivato il momento di dimostrare di aver capito qualcosa dalla storia, ricordandoci quanto sangue è stato versato per colpa dell’indifferenza dei buoni.
Non sto esagerando: nella storia le più disastrose dittature hanno preso forza non in un giorno solo, ma con l’uso di un linguaggio sempre più aggressivo, accompagnato da leggi e decreti con cui si imposero via via discriminazioni sempre crescenti, fino a originare quei terribili mostri che hanno annichilito la vita di milioni di persone e che tanto, a parole, diciamo di detestare.
Sono sempre più gli uomini con responsabilità politica e culturale che se ne escono con frasi molto pericolose, dal governatore della Sicilia Musumeci, che ha parlato di un “diritto” del governo di sospendere le garanzie costituzionali, ad Agostino Miozzo, ex coordinatore del Cts, che con spavalda sicurezza rivendica la necessità di non essere democratici, auspicando l’arreso per i non vaccinati, idee riprese per filo e per segno dal filosofo Galimberti, il quale auspica esplicitamente l’attribuzione di poteri dittatoriali a Draghi. Tuttavia la frase più grave è stata detta da Mario Draghi in persona poche ore fa in conferenza stampa: “Gran parte dei problemi che abbiamo oggi dipende dal fatto che ci sono dei non vaccinati”, frase tradotta dai mass media con titoli ancor più diretti: “I problemi dipendono dai no vax”.
L’espressione è estremamente violenta sia perché chiaramente falsa nel contenuto, ma soprattutto perché addita alle menti già indebolite di molti italiani un facile capro espiatorio, favorendo ragionamenti istintivi di “pulizia” e di violenza, come dimostrano i manifesti appesi a Lucca con la scritta: “Ai no vax Zyklon B”.
Caro Aldo Maria, qui non si tratta di vaccino o non vaccino: si tratta della nostra libertà, dell’unità delle nostre famiglie e delle nostre comunità, di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta, con le sue bellezze e le sue fatiche. Senza mai lasciare indietro nessuno.

«Una teologia della morte del sacerdozio»

Sacerdozio addio. Ecco tutte le mosse, della Chiesa stessa, per ucciderlo
di Don Claude Barthe
Duc in altum, 13 gennaio 2022

(traduzione italiana dal francese da Resnovae.fr)

«La Chiesa è senza fiato»: è questo il messaggio, in parte corrispondente alla realtà, in parte inventato, che un intenso battage mediatico sugli scandali dovuti ad abusi sessuali intende diffondere in Francia, Germania e altrove. E il messaggio continua: la Chiesa deve dunque riformarsi strutturalmente, purificandosi da ogni clericalismo con modalità di funzionamento più democratiche, più sinodali.
Non si tratta di negare che il clericalismo sia nefasto, qualora lo si intenda come l’arroganza di taluni sacerdoti, che dimenticano come la loro «parte d’eredità», kleros in greco, sia prima di tutto il ministero e il servizio. Ma il termine, utilizzato come uno slogan e in modo dispregiativo, riecheggia in realtà i principi ideologici della società moderna, sempre più secolarizzata. E come ai tempi di Gambetta e del suo grido «Il clericalismo, ecco il nemico», è il sacerdozio cattolico a essere preso di mira.
Una teologia per cancellare il sacerdozio
Come abbiamo conosciuto i teologi della morte di Dio, che sostengono «religiosamente» l’ateismo o l’agnosticismo contemporaneo [1], così potremmo parlare di una teologia della morte del sacerdozio, che offre una garanzia «cattolica» alla cancellazione appunto del sacerdozio nella società. I teologi che se ne occupano fanno due tipi di riflessione, che non si escludono ma si completano a vicenda.
La prospettiva sinodale consiste nel far sì che il presbiterato e l’episcopato siano per il popolo della Chiesa locale concreta e che emanino da esso. Padre Hervé Legrand O.P. è un buon esponente di tale obiettivo [2]. Secondo lui è opportuno uscire dal ruolo amministrativo ricoperto da un clero burocratizzato e ritrovare la sua concezione tradizionale, ciò che gli si accorderà di buon grado, salvo confrontarsi sulla maniera di ritornare alla tradizione. Da parte sua, vorrebbe recuperare il modello dell’organizzazione ecclesiastica dell’inizio del III secolo, come lo si può immaginare tramite la Tradizione apostolica d’Ippolito di Roma. La Chiesa locale, spiega, era una comunità presieduta da un vescovo, unico vero sacerdote, circondato da alcuni preti, che non erano ancora sacerdoti. Questa comunità sceglieva il suo pastore, al quale non era richiesto uno stato di vita speciale (celibato). Secondo Hervé Legrand, si potrebbe tornare a questa organizzazione, ispirandosi al modo in cui si sceglievano i diaconi permanenti: la Chiesa locale s’interrogherebbe sul tipo di pastori di cui necessiti, li chiamerebbe e fornirebbe loro una formazione locale in linea con la cultura e i bisogni concreti, senza obbligarli necessariamente al celibato. I pastori, in questa prospettiva sinodale, nascerebbero praticamente dal Popolo di Dio per accompagnarlo nella sua missione e il sacerdozio ministeriale apparirebbe come un’emanazione e un servizio del sacerdozio dei fedeli.
La prospettiva della «pluriministerialità» (Henry-Jérôme Gagey, Céline Baraud) cerca di integrare, per non dire di soffocare, il sacerdozio in un pullulare di ministeri laici originati dai carismi del Popolo di Dio [3]. All’origine di tale prospettiva v’è un articolo di Padre Joseph Moingt, S.I., L’avenir des ministères dans l’Église catholique [4], che parla della possibilità di «distribuire ad altri ministri, e in particolare ai laici, la totalità o parte delle funzioni fin qui esercitate dai sacerdoti».
Padre Christoph Theobald, S.I., che svolge attualmente un ruolo molto attivo nelle commissioni preparatorie del Sinodo sulla sinodalità, con teologi quali Arnaud Join-Lambert (Svizzera), Alphonse Borras (Belgio), Gilles Routhier (Québec), immagina così il futuro [5]: in Europa occidentale, i rarissimi sacerdoti di domani dovranno essere «preti-traghettatori», per la maggior parte del tempo itineranti, educheranno i cristiani alla fede, faranno maturare il loro senso di responsabilità, poi s’eclisseranno; ministri laici stabili li sostituiranno sul territorio e assicureranno una «presenza della Chiesa» nel governare le comunità, nel servizio della Parola (predicazione, catechesi, animazione della liturgia, ascolto, che potrebbe tra l’altro sorpassare o sostituire il sacramento della penitenza) e nell’ospitalità (accoglienza, incontri). I «preti-traghettatori» potranno d’altronde essere individuati e scelti dalle comunità tra coloro che garantiranno questi ministeri plurali. E piuttosto di una formazione specializzata nei seminari, l’insieme di questi attori e l’insieme della comunità potranno beneficiare di una formazione permanente.
Una laicizzazione del personale ecclesiastico
Il Vaticano II, concilio per definizione molto innovativo poiché voleva andare oltre la dottrina tridentina, è stato un concilio di accomodamento tra progresso e tradizione nei testi, «aggiustati», come dice lo storico Yvon Tranvouez, per ottenere un’adesione quasi unanime.
L’insegnamento e il governo politico, seguiti al Concilio, quale che sia l’orientamento del potere romano, montiniano, wojtyło-ratzingeriano o bergogliano, sono stati transazionali: si è sempre trattato di dare garanzie all’«apertura» o al contrario di praticare un «ricentramento», ma senza eccessi né da una parte né dall’altra per evitare, in entrambi i casi, di far esplodere in qualche modo la macchina conciliare. Ciò non toglie che la secolarizzazione del personale ecclesiastico, e dunque la cancellazione del sacerdozio, pur essendo meno radicali di quanto si augurassero le correnti teologiche sopra menzionate, siano comunque molto reali.
In primo luogo, c’è questo fatto massiccio, che cioè l’«apertura» operata dal Concilio sia stata intesa dal clero come tale da implicare, senza che neppure avesse luogo una discussione, l’adattarsi alla secolarizzazione della società. Secolarizzazione clericale, che aveva d’altronde, soprattutto all’inizio, considerevolmente accelerato la secolarizzazione sociale. Da qui l’abbandono dell’abito ecclesiastico, e in forma più grave i numerosi abbandoni dello stato ecclesiastico, e la trasformazione della vita religiosa col conseguente prosciugamento di vocazioni dovuto a una perdita di senso di detto stato agli occhi dei giovani cattolici.
Per quanto riguarda le decisioni romane relative al governo (pertinenti l’auctoritas gubernandi), che hanno per forza di cose un aspetto dottrinale (facultas docendi), esse sono state liturgiche e istituzionali.
Così Paolo VI, guidando e poi applicando il Vaticano II, pur mantenendo con fermezza il principio del celibato sacerdotale (enciclica Sacerdotalis cælibatus del 24 giugno 1967), ha assunto tre scelte pesanti:
– Istituendo, con Lumen gentium n. 29, contrariamente all’antica disciplina del celibato, un diaconato come grado gerarchico proprio e permanente, per uomini eventualmente sposati e non destinati al sacerdozio. Assai vicino al sacerdozio, s’è formato così del personale sociologicamente più laico che clericale, che non cessa di crescere (in Francia, dal 2000 al 2019, il numero dei diaconi permanenti è pressoché raddoppiato, passando da 1.499 a 2.794, mentre il numero dei preti in attività è sceso da cinquemila a tremila).
– Abrogando col motu proprio Ministeria quædam del 15 agosto 1972 il sottodiaconato e gli ordini minori e rimpiazzandoli coi semplici ministeri istituiti del lettorato e dell’accolitato, i cui destinatari restano semplici laici [6]. A ciò si aggiunse la distribuzione della comunione a opera di laici, uomini e donne (istruzione Immensæ caritatis del 29 gennaio 1973).
– Rendendo quasi automatica la dispensa dal celibato per i preti dimessi dallo stato clericale, avendovi essi rinunciato, con l’intenzione in sé buona ch’essi non restino nel peccato ma provocando di conseguenza come effetto, eminentemente lassista, un’emorragia verso la mondanizzazione (norme del 1971). Il tentativo di Giovanni Paolo II di rendere questa dispensa più rara (norme del 1980) è d’altronde fallito.
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno pubblicato bellissimi testi per esaltare il sacerdozio e il celibato (esortazione Pastores dabo vobis del 25 marzo 1992), ma Papa Wojtyła e il suo successore non hanno nemmeno preso in considerazione l’idea di fare marcia indietro sul fatto che l’altare fosse ormai circondato da attori liturgici laici, uomini e donne, lettori e lettrici, ministranti uomini e donne o ministri straordinari della comunione.
Quanto a Francesco, infine, egli ha ampliato le misure precedenti:
– Approvando il documento finale dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei vescovi per l’Amazzonia, che propone, in assenza di preti nelle comunità, che il vescovo possa conferire, per un periodo determinato, l’esercizio della responsabilità pastorale ad un laico a turno (n. 96). In merito, l’esortazione Querida Amazonia del 2 febbraio 2020 ha stabilito che i responsabili laici dotati d’autorità possano presiedere alla vita delle comunità, specialmente per render concreti i diversi carismi laici, al fine «di permettere lo sviluppo di una cultura ecclesiale propria, marcatamente laica» (n. 94, sottolineato nel testo).
– Pubblicando il Motu proprio Spiritus Domini dell’11 gennaio 2021, che ha modificato il canone 230 §1 e permesso che i ministeri del lettorato e dell’accolitato potessero essere conferiti alle donne, in più evidentemente laiche, se così si può dire (decisione ch’era d’altronde di puro principio, visto ch’esse ne esercitavano già le funzioni).
Le contraddizioni di una sinodalità ideologica
Non è tuttavia contraddittorio che si tenga tanto a far riconoscere la sinodalità attraverso testi ufficiali da parte del potere romano centrale? Perché le Chiese locali o le comunità territoriali non decidono esse stesse, da sole, di porre in essere (di porre maggiormente in essere) questa «cultura ecclesiale propria, marcatamente laica»? Perché questa «pluriministerialità» non emana dall’ambiente dei cristiani laici, in funzione dei bisogni delle comunità e dei carismi dei loro membri?
In realtà, nessuno immagina che la sinodalità, vita della Chiesa alla base e dalla base, venga istituita (o accresciuta) se non per decreti provenienti dall’alto! Di fatto, la centralizzazione tridentina, posta al servizio, dopo il Vaticano II, di un contenuto dottrinale anti-tridentino, non è mai stata tanto assoluta, con un sistema ecclesiastico bloccato all’estremo, con vescovi-prefetti, un papa autoritario, una Curia militante, assemblee sinodali ed episcopali i cui membri si autocensurano con notevole efficienza, il tutto al servizio di una campana di vetro ideologica.
A meno che la salvezza non venga proprio dalla sinodalità, da una vera sinodalità, intesa come quella di una Chiesa in cui il papa, i vescovi, i sacerdoti, i fedeli esercitino in maniera responsabile, all’interno di un ordine reale, il servizio relativo alla trasmissione del Buon Deposito e della sua diffusione mediante la missione. In breve, per dirla tutta, ci si augura l’avvento di una sinodalità tradizionale, che farebbe crollare l’imposizione della sinodalità ideologica. Ne avevamo parlato nel nostro editoriale sul n. 20 di Res Novæ del giugno 2020 [QUI] circa la necessità dell’avvio di crisi salutari, di crisi cattoliche, di atti liberatori, dove vescovi, preti, fedeli si rendano capaci di fare il bene della Chiesa.

[1] Si veda una versione cattolica della teologia della morte di Dio in Christian Duquoc, Dieu différent [Dio differente], Cerf, 1977: il Dio che si rivela in Gesù Cristo è un Dio fragile e morente, un «Dio differente» da quello della ragione ed anche dal Dio dell’Antico Testamento.
[2] «La théologie de la vocation aux ministères ordonnés. Vocation ou appel de l’Église » [«La teologia della vocazione ai ministeri ordinati. Vocazione o chiamata della Chiesa»], La Vie spirituelle, dicembre 1998, pp. 621-640; « Ordonner des pasteurs. Plaidoyer pour le retour à l’équilibre traditionnel des énoncés doctrinaux relatifs à l’ordination » [«Ordinare i pastori. Un appello per il ritorno al tradizionale equilibrio delle dichiarazioni dottrinali relative all’ordinazione»], Recherches de Science religieuse, aprile 2021, pp. 219-238.
[3] Joseph Doré e Maurice Vidal (sotto la direzione di), Des ministres pour l’Église [Sui ministri per la Chiesa], Cerf, 2001; Céline Béraud, Prêtres, diacres, laïcs. Révolution silencieuse dans le catholicisme français [Preti, diaconi, laici. Rivoluzione silenziosa nel cattolicesimo francese], PUF, 2007.
[4] [«L’avvenire dei ministeri nella Chiesa cattolica»], Études, luglio 1973, pp. 129-141.
[5] Urgences pastorales. Comprendre, partager, réformer [Urgenze pastorali. Comprendere, condividere, riformare], Bayard, 2017.
[6] Peter Kwasniewski, Ministers of Christ: Recovering the Roles of Clergy and Laity in an Age of Confusion [Ministri di Cristo: Recuperare i Ruoli del Clero e dei Laici in un’Epoca di Confusione],Sophia Institute Press, 2021.

«Una teologia del popolo a base peronista»

Le periferie divenute centro, il centro emarginato. Teoria, prassi (e confusioni) di Francisco il caudillo
di Don Jean-Marie Perrot
Duc in altum, 12 gennaio 2022

(traduzione italiana dal francese da Resnovae.fr https://www.resnovae.fr/la-periferia-argentina/)

Con orgoglio sicuro o assolutamente tiepido, i Francesi – forse più di altri – riconoscono taluni dei loro compatrioti nei riferimenti citati da Papa Francesco a sostegno dei suoi insegnamenti (il termine è ancora appropriato?), benché ciò debba essere fortemente relativizzato per la fattura di questi testi in grandissima parte autoreferenziali, per non dire autocentrati. Si può citare, per il concetto di periferia come centro di una riforma della Chiesa, Congar; per la critica della mondanità e delle rigidezze, Lubac; e forse, per una concezione particolare del sensus fidei come luogo teologico dinamico, Chenu. Non ci si dimenticherà dei grandi fratelli gesuiti, ancora Lubac, Teilhard de Chardin, Michel de Certeau, con le considerazioni di quest’ultimo sull’uscita di Abramo dalla sua terra come modello della posizione della Chiesa in un mondo secolarizzato, annunciando il comando rivoltogli di «uscire».
Domanda: è sufficiente pertanto sommare tali riferimenti e altri, che hanno in comune il fatto d’esser «conciliari», con qualche eccezione come Guardini (benché qui il richiamo sia più rivendicato che evidente), per dar conto del pensiero di papa Francesco e dei suoi testi, divenuti tante luci obbligatorie nella vita della Chiesa, come dichiarano i documenti inaugurali del processo sinodale sulla sinodalità, cominciato lo scorso autunno? Ciò farebbe di lui un europeo, cosa ch’egli non è. Il suo evidente disinteresse per il vecchio continente, a eccezione delle sue frontiere, delle sue periferie migratorie come Lampedusa o Cipro recentemente, ne è il segno. A meno che, nella sua logica, l’attenzione a queste periferie non rappresenti per l’appunto un vero, ma curioso, interesse vero l’Europa.
Allo stesso modo, esaminare la figura, l’atteggiamento di Francesco, che secondo molti – nessuno lo contesta più – evidenzia un’impostazione di cui l’interessato è il primo responsabile, a prima vista non apporta alcunché di sostanziale alla risoluzione di tale questione. Tuttavia, non è priva di coerenza, tutt’altro, rispetto alla risposta che si crede di potervi dare.
Una teologia del popolo a base peronista
È evidentemente alla teologia argentina del popolo che bisogna tornare. Vi si ritrovano gli apporti europei sopra segnalati, ma integrati in un’argomentazione e in una prassi, che – qualunque siano le sfumature – si pongono sullo stesso piano della famiglia delle teologie della liberazione.
Basandoci su un articolo un po’ vecchio, ma sempre attuale, vorremmo chiarire un aspetto importante, forse il più fondamentale, la pietra angolare stessa del pensiero bergogliano. Intitolato Alle fonti culturali del pensiero di Papa Francesco, questo articolo [1] è un lungo commento, a un tempo elogiativo e critico, tanto del pensiero di Francesco quanto della teologia del popolo, mediante la presentazione di un’opera di Juan Carlos Scannone, il cui sottotitolo è Le radici teologiche di Papa Francesco. Per indicarne l’interesse, ricordiamo che il defunto gesuita Scannone fu professore di Jorge Mario Bergoglio e poi, una volta che Bergoglio è divenuto Francesco, suo fervente commentatore.
È possibile riassumere così la genesi della teologia del popolo (e, secondo Scannone, del pensiero di Bergoglio): la Chiesa latino-americana ha accolto del Concilio Vaticano II principalmente la Costituzione pastorale Gaudium et spes, arricchendola con la tematica della povertà che i Padri conciliari, benché incoraggiati all’inizio da Giovanni XXIII, avevano dimenticato e che appare solo a margine nei documenti finali. Ancor più, questa tematica venne posta all’origine e al centro della riflessione, ma non in modo statico (ciò che non avrebbe potuto avere che conseguenze conservatrici, caritative), bensì secondo una dinamica radicale e globale di liberazione. Stando ai suoi promotori, si trattava d’interpretare, inculturare, Gaudium et Spes, ma anche gli insegnamenti di Lumen gentium sulla Chiesa come popolo di Dio, tenendo presente che l’inculturazione di cui qui si parla ha come uno dei propri assi principali l’associazione – fino a esser tentati di sovrapporli – della nozione biblica con quella teologica del popolo di Dio e della realtà sociale, economica, politica del popolo nelle società latino-americane. D’altronde tali polisemia ambigua si ritrovano nei documenti di Francesco.
Questo, che è comune a tutte le teologie della liberazione e che è alquanto noto, ha trovato una propria traduzione specifica in Argentina; ed è precisamente questo il punto che ci interessa: in effetti, mentre alcuni teologi latino-americani hanno insistito sulle dimensioni economiche e politiche, con un’evidente influenza del marxismo, quelli argentini hanno preferito una prospettiva più sociologica, storica e culturale. In tale quadro è stata intrapresa una «rilettura volutamente positiva dell’esperienza storica dell’Argentina» (Guibal, p. 694), secondo un’ottica che qualificheremo come populista, nel senso tecnico che la teoria politica le dà: una storia in cui, a partire dal XVII secolo, le aspirazioni del popolo sono state riconosciute e portate avanti da «eroi (…), che rivendicano per tutti, e specialmente per i più poveri, una pari dignità» (id). Nel corso di questa storia, «lo spirito evangelico di servizio e di riconciliazione sarebbe alla fine prevalso sui conflitti e sulle divisioni, una realtà originale sarebbe emersa, quella di un popolo nuovo, che è giunto alla coscienza di sé e che ha imparato a farsi carico della propria storia in un suo modo specifico. Dall’artiguismo al peronismo, passando attraverso l’irigoyenismo, lo stesso “caudillismo” argentino testimonierebbe la ricerca di un’unità organica tra i vertici e il popolo da cui essi provengono, così come testimonierebbe una coscienza politica tramutata da una volontà generale di giustizia e di pace» (Guibal, p. 693). Forse, per non rimanere al termine generico e spesso peggiorativo di populismo, ma ammettendo un’ignoranza pressoché totale della storia politica argentina, e tenendo conto del fatto che in Europa il termine caudillo rimanda troppo direttamente alla figura e al regime del generale Franco, si deve parlare di un fondamento peronista della teologia del popolo. Tale sembra essere, in ogni caso, la sua caratteristica propria.
Poiché la storia non si ferma e le società si evolvono, lo sguardo verso il passato non sarebbe di per sé sufficiente. Tuttavia, la griglia di lettura, prosegue Scannone, rimane. Il popolo di ieri si è diversificato in periferie multiple: in passato, la posta in gioco erano l’incontro e il «meticciato politico-culturale» di due popoli e di due razze; oggi l’incontro è più ampio, più aperto: «la cultura latino-americana d’oggi è alla ricerca di una “sintesi vitale” tra tre mondi immaginari in tensione: quello della tradizione cattolica inculturata, quello della libertà moderna e quello delle alterità postmoderne» (Guibal, p. 695, nota 32).
In un articolo del 2013 apparso sulla rivista dei gesuiti romani La Civiltà Cattolica, Scannone aveva mostrato l’incapacità di fissare un limite oltre il quale l’alterità postmoderna considerata non fosse più una periferia nel senso della teologia del popolo, lasciando così presagire uno sconfinamento da qualsiasi rivendicazione: «C’è un’apertura a nuove proposte, come la filosofia interculturale (Fornet-Betancourt, Dina Picotti), la filosofia del genere ed altre ancora» [2]. L’indicazione di filosofia di genere attira evidentemente l’attenzione e rinvia agli intenti o alle azioni di Francesco nei confronti o a favore degli omosessuali e dei transessuali. Meno noto il riferimento all’afrocentrismo di Dina Picotti, che è una critica radicale alla storia ufficiale argentina, senza peraltro che per Scannone ciò comporti una relativizzazione della narrazione peronista; demolendone la statua (essendo il libro di Scannone posteriore al suo articolo), ha per noi il merito di ricordare una grave debolezza dei teologi della liberazione: essendo essenzialmente prassi, la loro coerenza interna non è di grande interesse. Ciò che paradossalmente è anche la loro forza: non tener conto delle critiche intellettuali loro indirizzate.
Un papa caudillo
Sarebbe fruttuoso, pensiamo, rileggere molte delle iniziative di Francesco alla luce di questa linea fondante della teologia del popolo, una ad una e soprattutto nella loro logica globale.
A cominciare dalle posizioni ch’egli ha preso: Jorge Mario Bergoglio, eletto al Soglio di Pietro, ha assunto il ruolo di un eroe argentino, che incontra il popolo e se ne fa portavoce. A parte una sfumatura importante: la portata universale ch’egli ne dà. L’immagine di un Francesco conviviale, vicino, povero, che rifugge i centri storici dell’Europa (la Francia in particolare), ma che va nelle sue periferie (Lampedusa) o nei suoi luoghi di nuovo sviluppo (organismi europei di Strasburgo), fa parte di questa logica. Anche la dimensione più misericordiosa che morale, più spirituale e pastorale che dogmatica – riprendiamo qui, così come sono, certe contrapposizioni presenti nel discorso bergogliano – per certi aspetti non fa che rinviare all’anti-elitarismo demagogico e all’anti-intellettualismo che si trovano nel populismo storico argentino e nella riscrittura quanto meno idealizzata della storia nazionale, la quale ne fa la teologia del popolo.
Una tale rilettura chiarirebbe anche le idee proposte da Francesco. In primo luogo, va menzionato il ruolo assegnato alle periferie, giudicate insostituibili, ma restando sul vago su ciò ch’esse siano. Il concetto di periferia sembra aprirsi a categorie sempre più lontane dalla povertà nel senso classico del termine (minoranze sessuali o, secondo Laudato sì, la stessa creazione). Oppure sembra sostituire quanto prima si pensava essere oltre i confini della Chiesa (i protestanti nell’anniversario di Lutero, i musulmani con la dichiarazione di Abu Dhabi). Il tutto, con una fraternità aperta e inclusiva come orizzonte, un meticciato di tutti i tipi. Sul piano temporale, nell’ingiunzione rivolta alle popolazioni dei Paesi ricchi di accogliere i migranti e di formare con loro una comunità rinnovata, condividendo i frutti della terra, frutti che sono di tutti [3] uno specchio di quel «meticciato politico-culturale» riuscito, che sarebbe poi l’Argentina?
È veramente una storia di successo? Ciò non è privo d’importanza, ma non siamo competenti per stabilirlo. In ogni caso, qualche domanda va posta:
È pertinente trasferire l’esperienza argentina a tutte le situazioni? Con tutta evidenza, questo sembra scontrarsi con le realtà storiche e culturali: l’eroe populista argentino non corrisponde a tradizioni culturali e politiche quali quelle di Francia, Stati Uniti d’America, Regno Unito, Venezia e altre città, ecc. L’incontro tra due popoli, culture e religioni, ha assunto anche la forma della resistenza dei Paesi cristiani del Centro Europa alla pressione militare ottomana. L’ottica argentina appare alquanto riduttiva, se pretende di essere il criterio del presente e del futuro di tutto, facendo tabula rasa dei trascorsi particolari. Così, paradossalmente, lungi dall’opporsi come pretenderebbe e come pensa forse sinceramente, l’universalizzazione della teologia del popolo da parte di Francesco diviene una delle facce del movimento omologante della globalizzazione regnante.
Va chiarita la polisemia del termine popolo: la teologia del popolo se ne è esentata, adducendo l’evangelizzazione di lunga data, e in profondità, avvenuta in Argentina. Non è così dopo l’ondata di secolarizzazione, di agnosticismo e di materialismo, nonché quella dell’islam, che hanno dilagato negli ultimi decenni. Nella maggior parte delle società, non si può o non si può più sovrapporre popolo di Dio e popolo; e ancor meno nella prospettiva argentina, dove la periferia viene vista come il cuore che irriga della propria vita il resto del corpo sociale.
Allo stesso modo, dal punto di vista del governare, non possono essere associate, forse neanche lontanamente, la funzione di pastore della Chiesa con quella di caudillo del popolo, per diverse ragioni, di cui la prima e principale è che il secondo è emanazione del popolo – o si pretende tale –, popolo da cui trae la propria legittimità, mentre il sovrano pontefice è il vicario di Cristo, secondo un ordine discendente. Ma è vero che, a partire dall’Annuario pontificio del 2020, «Vicario di Cristo» è stato retrocesso a fondo pagina al rango di «titolo storico»; ed è vero che il processo sinodale sulla sinodalità ci vuole persuadere che il sensus populi [4] sia prioritario e guidi anche gli stessi pastori.

[1] Francis Guibal, «Aux sources culturelles de la pensée du Pape François» [«Alle fonti culturali del pensiero di Papa Francesco»], in Ephemerides Theologicæ Lovanienses 93/4 (2017), pp. 685-708. Circa l’opera recensita: Juan Carlos Scannone, La théologie du peuple. Les racines théologiques du Pape François [La teologia del popolo. Le radici teologiche di Papa Francesco], traduzione francese maggio 2017, edizioni Lessius, 270 pag. Francis Guibal ne è stato il traduttore e l’autore della prefazione.
[2] J.C. Scannone, SI, «La filosofia della liberazione» in: La Civiltà cattolica, volume 3920, 6 aprile 2013, pp. 105-120.
[3] «Ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo» (Fratelli tutti, n. 124).
[4] Si riprende di proposito una variante della formula classica sensus fidelium, promossa da un membro eminente della galassia bergogliana: Victor Manuel Fernández, «El “sensus populi”: la legitimidad de una teologia desde el pueblo» [«Il “sensus populi”: la legittimità di una teologia dal popolo»] in Revista Teologia, volume XXXIV, n. 72, 1998, pp. 133-164.

* * *

[*] «Voi critici, voi personaggi austeri
Militanti severi, chiedo scusa a Vossia
Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia
Io canto quando posso, come posso
Quando ne ho voglia, senza applausi o fischi
Vendere o no non passa fra i miei rischi
Non comprate i miei dischi e sputatemi addosso»
(Francesco Guccini, L’Avvelenata, 1976).

Caro il mio Francesco
di Luciano Ligabue
nell’album Arrivederci, mostro! (2010)


Caro il mio Francesco come vedi ti scrivo
E quando uno scrive deve avere un motivo
Il mio è dirti che la tua avvelenata
In questi giorni l’ho consumata
Risulta evidente quanto siam diversi
Quanto son diversi I tempi del percorso
Ma sono giorni in cui suona più vicina
Tutta quella tua incazzatura
Sarà che anche qui
Le quattro del mattino
Sarà che anche qui l’angoscia
E un po’ di vino
Sarà che non ci posso fare niente
Se ora mi viene su il veleno
E allora avanti un altro
E con quello che guadagni stai muto
Avanti pure un altro
Con quello che guadagni sorridi nella foto
Caro il mio Francesco questa lettera ti arriva
In un paese piccolo lì sugli Appennini
Ho capito forse come mai ci vivi
Che tanto ci si sente soli
Ci si sente soli per quello che si è visto
E poi per tutti quelli che han fatto così presto
A montare su per fare un po’ il tuo viaggio
Giurando che per te davano un braccio
Parlavano di stile, di impegno e di valori
Ma non appena hai smesso di essere utile per loro
Eran già lontani
La lingua avvicinata a un altro culo
E allora avanti un altro
Almeno chiedi scusa del disturbo
Avanti pure un altro
Che se sei lì sarà perché solo un po’ più furbo
Caro il mio Francesco che conosci un po’ i colleghi
E forse non a caso vivi lì sugli Appennini
Sai quaggiù ce n’è in qualche modo di tre tipi
Bravi artisti furbacchioni e topi
Il topo canta solo di quanto lui sia puro
E poi da via la madre per stare sul giornale
Ed è talmente puro che ti lancia merda
Soltanto per un titolo più largo
E io che il mio disprezzo me lo tengo dentro
Che il letamaio è colmo già pubblicamente
Ma quei presunti mi puri
Mi possono baciare queste chiappe allegramente
E allora avanti un altro
Volevi la tua bici pedalare
Avanti pure un altro
Rispondere agli insulti è solo bassa promozione
Caro il mio Francesco abbiamo tanti privilegi
Ma tra questi certo non rientrano gli sfregi
Di chi vuole parlare andando solo a braccio
Di cose di cui non capisce un cazzo
Non so com’era allora
So un poco come adesso
O sei il numero uno o sei il più grande cesso
E il tempo che ti danno è fino al ritornello
E tante volte neanche fino a quello
Non c’è peggiore sordo di chi non vuol sentire
Tu pensa a chi non sente e poi ne vuol parlare
Ma caro il mio Francesco è già mattina
Qui mi devo svegliare
E allora avanti un altro
Ti passo il mio telefono salutami la tipa
Avanti pure un altro
Convincila che sono il suo ragazzo per la vita
Caro il mio Francesco è il momento dei saluti
Ci avremmo riso sopra se ne avessimo parlato
Lo so che non ha senso starsi a lamentare
Di alcune conseguenze del mestiere
E so che mi son fatto prendere la mano
Perché uno sfogo fa sbagliare spesso la misura
Ma come ti dicevo son le quattro del mattino
L’angoscia e un po’ di vino
E allora vado avanti a cantare della vita
Sempre e solamente per come io la vedo
Che la morte se la suona e se la canta
Chi non sa soffrire da solo
E allora avanti un altro
Qualcuno che abbia voglia di ascoltare
Avanti pure un altro
Qualcuno che abbia voglia di ballare
E allora avanti un altro
Qualcuno che abbia il tempo di ascoltare
Avanti pure un altro
Qualcuno che abbia il tempo di ballare

«Questa canzone è figlia della famosa “Avvelenata” di Francesco Guccini [QUI], mi sono trovato anche io a riscriverne il testo in una notte di rabbia verso le solite etichette che ti affibbiano quelli che ti conoscono in maniera virtuale e verso le insolenze dei “colleghi”. L’Avvelenata, anche più di questa lettera di Ligabue allo stesso Guccini, è una vera e propria invettiva piena di parolacce e io vorrei fosse consegnata ai posteri e ai sopravvissuti post-tsunami questa forma d’arte: non l’insulto gratuito, ma l’invettiva che è altra cosa, è sfogo di chi non ne può più, è liberazione. In “Caro il mio Francesco” l’attacco è ai “presunti puri” e l’invito a baciarmi le chiappe lo condivido e lo faccio mio. Soprattutto, però, nella versione live allo stadio Dall’Ara di Bologna che linko qui sotto, è un atto di gratitudine e di umiltà. Francesco Guccini viene portato dalla moglie Raffaella a vedere il concerto di Ligabue, confuso nella folla, negli spalti come gli altri. Non è in tribuna autorità, non è neanche in tribuna stampa. Alla fine del brano Ligabue chiede ai suoi fans di tributare il dovuto omaggio a Guccini “per tutto quello che ha fatto e per come è”. E il “caro Francesco” che a settant’anni di certo ne ha viste di platee plaudenti al suo cospetto, appare emozionato davvero, quasi commosso. A mia memoria, non ho mai visto in un live un cantante dedicare una propria canzone a un collega e poi chiamare l’applauso all’altro con tanta sincerità, tanta umiltà, tanta gratitudine. Una scena davvero illuminante sul significato della parola amicizia, che mostra come si possa essere egotici (Ligabue lo ammette in più di una canzone), ma questo non vuol dire non riconoscere con generosità la grandezza di colui a cui si deve cedere il passo. Una buona premessa per tutto il resto, che rende luminoso e chiaro il significato anche di un’invettiva» (Mario Adinolfi).

Caro il mio Francesco, Luciano Ligabue live Bologna 4 Settembre 2010: QUI.

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