Carmelo Musumeci: dalla vendetta alla redenzione

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“Poche parole, e si aprono abissi in un vortice di dolore, morte, speranza, passione, amore. Vendetta. ‘La vendetta dell’Acitano’ strappa il cuore. Crudele, infame, dolcissimo com’è la vita. E’ la storia di Michele, nato come Carmelo ad Aci Sant’Antonio, sulle falde dell’Etna, che da ‘quando è nato non ha fatto altro che sopravvivere’. Un boss rivale gli uccide moglie e figlio. Per sbaglio: nella sua auto, quella mattina maledetta, doveva esserci lui, invece c’erano i suoi affetti più cari, le persone che amava di più. Scatta furiosa la vendetta. Per amore di Rosa e Francesco. Michele rimarrà solo con Azzurra: sarà lei a prendersi cura del padre, anche se ha solo nove anni”.

Così scrive il giornalista del Tg2, Lino Lombardi, nella prefazione al libro biografico ‘La vendetta dell’Acitano’ di Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo, ora in liberazione condizionale presso una ‘Casa Famiglia’ della Comunità ‘Papa Giovanni XXIII’, fondata da don Oreste Benzi, entrato in carcere nel 1991 con licenza elementare, oggi ha 3 lauree; da anni è impegnato a promuovere da anni una campagna per l’abolizione dell’ergastolo.

Nella prefazione la descrizione del protagonista: “Michele da ragazzo era stato in carcere. Una volta da minorenne. Una volta da maggiorenne. Una volta per porto abusivo d’armi. Una volta per una rapina in banca. Michele a 30 anni aveva incontrato Rosa. Si era innamorato. Si era sposato.

Ed era felice. Aveva messo su una bella famiglia. E campava e lavorava per loro. Michele guadagnava bene. Aveva una carrozzeria nell’hinterland milanese. Il lavoro non gli mancava. Ogni tanto qualche malavitoso del posto gli chiedeva di taroccare o truccare qualche macchina”.

Ed il romanzo continua nel racconto della sua vita: all’autore chiediamo di spiegarci cosa è la vendetta: “Penso che sia un veleno che uccide un po’ tutti i giorni e tutte le notti perché quando inizi un viaggio di vendetta, incominci a scavare due fosse: una per il tuo nemico, e una per te.

La vendetta è un sentimento che lo provano sia i cattivi che i buoni perché quando qualcuno desidera che una persona stia in carcere tutta la vita il suo desiderio di giustizia si trasforma in vendetta.

Purtroppo anche i ‘buoni’ non si stancano mai di cercare vendetta e per trovarla, a nome della giustizia, tengono spesso una persona dentro una cella per 20, 30 e a volte per tutta la vita. Alcuni ‘buoni’ non uccidono, fanno di peggio ammazzano una persona lasciandola viva, la torturano levandoci la speranza e la murano viva in una cella per il resto dei suoi giorni senza nessuna compassione di spararci una pallottola in testa.

Ed i ‘buoni’ questa la chiamano giustizia perché non hanno il coraggio di chiamarla vendetta. Per questo, forse, ho sempre preferito essere sempre dalla parte dei cattivi. Da quando sono nato, i ‘buoni’ mi hanno sempre fatto paura.

E non perché i ‘buoni’ mi hanno sempre fatto patire la povertà e le umiliazioni dei poveri e neppure perché mi hanno messo prima in collegio, dopo in riformatorio e in carcere, ma perché mi hanno sempre impedito di pensare e di essere una persona migliore. Ed ora che lo potrei essere, per me è troppo tardi perché per molte persone sarò sempre l’uomo del reato”.

Dove hai trovato il coraggio di raccontare questa storia?

“Più che coraggio ho sentito il dovere di farlo. Dalle mie parti lo Stato non è mai esistito, mi son sempre difeso da solo. E l’ho fatto! Potevo evitarlo. Non lo so! So solo che ci ho provato e non ci sono riuscito. E’ difficile lottare contro il proprio destino, ma io non ho mai smesso di farlo. Ed a volte, secondo dove e in quale famiglia nasci, è la vita che sceglie al posto tuo. Molti prigionieri sono vittime e carnefici nello stesso momento.

E con questo non giustifico i miei errori, ma li capisco perché non c’è mai nessun cattivo che non commette un reato senza la complicità di qualche altro ‘buono’. Quando mi fanno i complimenti per i miei libri io rispondo che non li merito, perché non sono stato io che li ho scritti, ma è il mio cuore. Io non c’entro nulla.

Ha sempre scritto solo quello stupido del mio cuore che mi teneva di notte per tante ore seduto in uno sgabello in un angolo della cella al freddo e al gelo a scrivere romanzi che, probabilmente, pensavo non avrebbero mai visto la luce perché non è facile pubblicare per uno ‘scrittore ombra’.

In tanti anni di carcere non ho fatto altro che scrivere e, ormai, sotto la mia branda non c’era più posto per tenere i miei manoscritti. E c’erano delle notti che mi veniva voglia di dargli fuoco per riscaldarmi. Tutti i miei libri li ho scritti in carcere, da quando sono uscito non ho quasi più scritto nulla, perché ora sono troppo felice per scrivere”. 

Cosa vuol dire vivere?

“Vivere e pensare da vivo. E non è facile perché spesso ci si trova soli contro tutti e in certa misura anche contro se stessi. In 27 anni di carcere duro io per vivere ho cercato sempre di sopravvivere immaginando di vivere. Adesso che sono libero, o quasi, mi aspetta la battaglia più difficile della mia vita: imparare di nuovo a sperare, a vivere e a sognare”.

Quale è stato l’episodio per cui la vita è cambiata?

“Non è stato un episodio, ma un percorso, diciamo che è stata la vita che mi ha aiutato a cambiare. Penso però che prima la lettura e poi la scrittura mi hanno aiutato a cambiare. In tanti anni di carcere non ho fatto altro che scrivere, perché avevo capito che per me questo era il modo migliore per buttare fuori dalle sbarre della mia finestra tutto il dolore che portava addosso il mio cuore.

La scrittura mi ha consentito di indagare dentro la mia mente e il mio cuore. Ed è stata la chiave che ha consentito alla mia anima di uscire e di viaggiare, che mi ha fatto crescere, ‘abbassando’ intorno a me le mura che mi rinchiudevano”.

Hai conosciuto anche don Oreste Benzi?

“Ce l’ho sempre avuta coi preti, per via delle botte che ho preso da loro in collegio quando ero piccolo. Sono sempre stato un ateo, ho incontrato don Oreste una mattina mentre, assieme ad altri 700 ergastolani, stavo facendo uno sciopero della fame ad oltranza per chiedere al Presidente della

Repubblica di tramutare l’ergastolo in pena di morte. Lo provocai: ‘Don Oreste, te la sentiresti di schierarti con noi cattivi, mafiosi, delinquenti, criminali?’.

Don Oreste mi fece un grande sorriso e rispose: ‘Certo che vi appoggerò. La Comunità sarà al vostro fianco. L’uomo non è il suo errore. Nessuno nasce colpevole’. Tutto è nato così. A dire il vero, io ci sono rimasto un po’male, mi aspettavo un’altra reazione.

Non ero pronto a tanta accoglienza. Da allora Nadia Bizzotto (una volontaria della Comunità ‘Papa Giovanni XXIII’, ndr) cominciò a venirmi a trovare, mi portava persino i panini imbottiti. L’amore vince su tutto e fa passare la rabbia che molte volte prenderebbe il sopravvento”.

Come il carcere può redimere?

“Il giurista Francesco Carnelutti sosteneva: ‘Il carcere deve essere considerato come un ospedale quando il paziente è guarito deve essere dimesso’. A mio parere, il carcere è una delle peggiori torture che l’uomo abbia potuto escogitare. Non serve a niente, ma rappresenta una ‘vendetta sociale’.  Le sofferenze, subite con la permanenza in carcere non migliorano certo le persone.

Il carcere così com’è non ti vuole punire o migliorare, ma ti vuole solo distruggere. Io sono per l’abolizione dell’istituzione carceraria. Si potrebbero e si devono trovare altre specie di difesa e di punizione perché tenere una persona chiusa in gabbia è diseducativo ed è peggio del crimine che si vuole punire.

Soprattutto per gli ergastolani il carcere in Italia è un cimitero e la cella la loro tomba. La pena deve dare speranza se no è solo una esecuzione e una vendetta e la propria pena si potrebbe scontare fuori dalle mura di un carcere”.

Cosa vuol dire ‘fine pena mai’?

“Vuol dire una pena di morte a rallentatore morendo un pò tutti i giorni ed un po’ tutte le notti, insomma una pena di morte viva. Una volta, nel carcere di Volterra, trovai scritto sul muro della cella di un ergastolano che s’era tolta la vita: ‘La morte è la nostra unica speranza’.

Credo, insomma, che molti detenuti si tolgano la vita in carcere non perché siano stanchi di vivere, ma perché amano la vita a tal punto da non accettare di vederla appassire e distruggere dentro le mura di un penitenziario. Una punizione eterna perde di senso e si trasforma in tortura, vendetta e sadismo”.

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